philosophy and social criticism

Venezia 71: A pingeon sat on a branch reflection on existence

di Giampiero Raganelli

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duvasattpå en grenochfunderadepåtillvaron) di Roy Andersson

Il piccione che conquista il leone. Una metafora scontata per la vittoria del regista svedese a Venezia, regista raffinatissimo quanto caustico e dal grande senso della composizione dell’immagine, dalla filmografia rarefatta. La sua ‘living trilogy’, che giunge a compimento con quest’ultima opera, è iniziata nel 2000, con Songsfrom the SecondFloor, proseguendo nel 2007 con You, the Living. E ora Andersson annuncia, non si sa fino a che punto scherzando, che il suo prossimo film sarà il quarto capitolo della trilogia. La vittoria veneziana è comunque servita a far distribuire il film, che non era stato ancora comprato, facendo conoscere così questo regista di cui finora era uscito nelle sale italiane, e in sordina, solo You, the Living. Se si eccettua ovviamente la lodevole retrospettiva che gli dedicò il Bergamo Film Meeting nel 2003.

Come una coppia di Don Chisciotte e Sancho Panza dei nostri tempi, Sam e Jonathan, due venditori ambulanti di travestimenti e articoli per feste ci accompagnano in un caleidoscopico viaggio attraverso il destino umano. È un percorso che svela la bellezza di singoli momenti, la meschinità di altri, l’ironia e la tragedia nascosti dentro di noi, la grandezza della vita, ma anche l’assoluta fragilità dell’umanità (dal pressbook del film).

L’immagine cristallizzata di un piccione imbalsamato su un ramo, dentro la teca di un diorama di un museo di storia naturale. Così si apre il film, con una scena emblematica, che contiene già tutto il sarcasmo e il senso surreale del regista. Cosa ci fa un animale così banale e ordinario come un piccione in una galleria tra rapaci e scheletri di dinosauri? E a ben vedere il piccione impagliato sembra più vivo dell’uomo che lo sta osservando, a sua volta immobile, catatonico, dal volto ceruleo. Chi guarda chi? Chi è l’essere vivente? Nel film compariranno poi due vetrine. Prima quella di un ristorante in un vicolo, da cui vediamo i commensali, poi quella di un negozio di formaggi. Sono il manifesto estetico di Andersson, di un cinema con effetto vetrina, fatto di quadri, di stanze, governato da una meticolosa composizione dell’immagine. Quadri che tendono alla fissità, con personaggi che si muovono e spostano nell’inquadratura a fatica, connotati da un’intrinseca lentezza. Un cinema statico, raggelato, stilizzato. Un cinema di colori scialbi, spenti, desaturati. Dove domina il bianco asettico. Questa è la visione del mondo del regista, che osserva la società con freddo distacco, come con la mediazione di una vetrata che si frappone tra osservatore e osservato. Un mondo ordinario, di tutti i giorni, che con questo sguardo rivela le sue meschinità. Una società che vive la giornata reiterando inutili frasi fatte di circostanza. Una società nordica, rigida, imbalsamata come il piccione nel museo. Sono molte anche le scene dove il punto di vista si sposta all’interno della vetrina, come nel bar dalle ampie vetrate dove sosta il re Carlo XII di Svezia, o nella palestra del corso di flamenco, pure dalle grandi finestre. E nel finale la vetrina diventa uno specchio. È, nel riflesso, il suggerimento di un ribaltamento di prospettiva, l’ambiguità di una proprietà transitiva, come all’inizio.

La vetrina, dove si osservano le merci in vendita, diviene anche metafora di un mondo dove tutto passa attraverso transazioni economiche. Andersson lo osserva e lo descrive con impietoso cinismo, con un cupo umorismo nordico. Ci sono però delle eccezioni a questo concetto dove tutto deve avere un corrispettivo in denaro. Un uomo, dopo aver pagato alla cassa di un ristorante self service all’interno di un traghetto, cade a terra, stroncato probabilmente da un infarto. La cassiera ha l’unica reazione di offrire agli altri avventori il cibo sul vassoio. Si tratta di un’offerta gratuita ma solo perché quella merce era stata già pagata e andrebbe in qualche modo smaltita. Nella scena ambientata nel 1943, i soldati nella taverna chiedono, cantando, alla locandiera se la possono pagare in baci. In tempo di guerra si può anche bypassare il denaro, ma comunque il concetto di scambio rimane.Il denaro, la capacità di guadagnarlo, di vendere sono il metro del successo, o dell’insuccesso, nella nostra società. Come dimostrato dai due goffi commessi viaggiatori, venditori di scherzi di carnevale. Personaggi patetici che ricorrono in tutto il film. Che la società ha decretato come perdenti, dei falliti.

Parafrasando Woody Allen, le due uniche cose importanti della vita sono il denaro e il decesso. E la morte appare spesso come una banalità, come uno scherzo, come quegli scherzi di carnevale insulsi che tentano di vendere i due personaggi buffi. Una nordica danza macabra. Come il gioco agli scacchi ne Il settimo sigillo.

In questa società algida, benpensante spuntano gli scheletri dell’armadio, che nel film si evidenziano nella scena del grande organo in rame dove vengono fatti arrostire i prigionieri africani. Un rigurgito del colonialismo che si collega all’incipit di World ofGlory, dove vengono gasati degli uomini in un furgone, o alla bambina sacrificata, come nell’antica Sparta, di Songsfrom the SecondFloor. E che passa per la scena, sempre in quest’ultimo film, della vivisezione della scimmia. Ma alla fine l’importante è essere contenti di sentire che gli altri stanno bene.

tysm literary review

vol. 14, no. 20

november 2014

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