philosophy and social criticism

La via italiana al razzismo

Francesco Paolella

Nota su Alberto Burgio, Nonostante Auschwitz. Il “ritorno” del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma, 2010.

È evidente che il razzismo non è finito con la “liberazione” dei campi di sterminio e il collasso apocalittico del potere nazi. Meno evidente, meno solidale con il senso comune (soprattutto con il senso comune italiano) è invece l’idea secondo la quale tanti ingredienti (linguistici, normativi, burocratici) propri dei razzismi di Stato nell’Europa della prima metà del Novecento, siano ancora ben attivi e funzionali nei razzismi emergenti oggi. Bisogna – questo uno dei principali meriti di questo libro di Alberto Burgio – respingere l’idea di Auschwitz come eccezione, come fatto straordinario, come una parentesi: quel progetto di persecuzione radicale non è stata una anomalia pura nella storia europea, non è tout court eccentrico rispetto alla modernità occidentale. Anzi, il razzismo non è che una normale patologia di quella modernità, così che essa non può darsi (declinandosi in liberalismo, egualitarismo, progressismo) senza razzismo (illuminati rimangono su questo i libri di Enzo Traverso, come La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002). Esiste ormai una consolidata storiografia sul tema: per l’Italia, oltre ai lavori del gruppo bolognese appunto di Burgio (cfr. Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 2002), vanno ricordati almeno i libri di Angelo Del Boca (cfr. Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2006) e di David Bidussa (Il mito del bravo italiano, Saggiatore, Milano 1994).

La riemersione o il “ritorno” attuale del razzismo non può essere troppo facilmente scollegata da quei razzismi, da quei meccanismi così efficaci di stigmatizzazione, esclusione ed eliminazione. Certamente oggi il razzismo non parla più la lingua esplicita, oltre che scientifica (nel senso proprio di una “ideologia scientifica”) della razze. Nessun razzista denuncia più (per opportunità più che per “pudore” indubbiamente) i pericoli della convivenza fra razze diverse nelle società democratiche e liberali; eppure, non bisogna per questo sostenere che esistano ormai soltanto intolleranze o xenofobie più o meno diffuse, a seconda dei tempi più o meno di crisi.

C’è ancora razzismo e si tratta di un razzismo tanto più pericoloso e potente perché esso ha saputo adattarsi al nuovo contesto post-fascista creandosi un linguaggio apparentemente neutrale, limitandosi a parlare di convivenza fra culture diverse, di problemi di integrazione, di identità minacciate. Alberto Burgio propone qui un panorama storico vasto, a un tempo culturale e politico, sulle sopravvivenze del razzismo contemporaneo, sugli innesti di questo nel dibattito pubblico, dedicandosi in particolare all’Italia, a quello che chiama “laboratorio italiano” proprio in questo senso.

Un aspetto irrinunciabile per poter denunciare questa “via italiana al razzismo” è la denuncia dell’ostinata rimozione del razzismo degli italiani (siano essi storici, giornalisti, politici italiani, o semplicemente “cittadini”) dalla nostra storia patria. Una rimozione di lunga durata e ancora oggi sostanzialmente maggioritaria. E non è sufficiente affermare che ciò è accaduto per la necessità a lungo sentita di vivere “in un paese normale”. Anzi, in questo senso, l’Italia è stata proprio un paese normale, cioè normalmente razzista e fascista:

«Nei confronti del passato fascista e delle sue pagine più infami è persistito un atteggiamento indulgente e comprensivo. Con importanti eccezioni, certo, sia nella storiografia […], sia in taluni settori dell’opinione pubblica, il rifiuto di fare seriamente i conti col passato – motivato in anni recenti con la discutibile tesi della necessità di ‘pacificare’ il Paese e di fondare finalmente una ‘memoria condivisa’ – è rimasto di gran lunga prevalente anche nei decenni successivi e domina ancora nel nuovo secolo, a oltre sessant’anni dalla fine della guerra» (pp. 70-71).

Se nel secondo dopoguerra la continuità post-fascista, con la mancata epurazione dagli organi dello Stato, non ha favorito senza dubbio alcuna presa di coscienza sul razzismo italiano, anche in seguito la vulgata defeliciana e, infine, la nuova retorica post-1989 e propria della seconda Repubblica (i “ragazzi di Salò” tanto amati da Luciano Violante), ha impedito che le pur notevoli ricerche sulle leggi antiebraiche dal 1938, sull’antisemitismo di matrice cattolica, sul colonialismo in Africa, sulla repressione anti-slava, potessero far avviare una seria messa in crisi dell’autoassoluzione ancora oggi dominante. Una revisione sarebbe invece molto utile proprio in questi anni di “razzismo senza razze” e di criminalizzazione rinnovata della devianza. Sono i clandestini evidentemente gli “asociali” di oggi, sono i marginali e i sans papier i nemici interni che oggi permettono il successo di dispositivi di sicurezza che finiscono sempre per imporre il meccanismo paranoico dell’identità italiana al contempo sempre di nuovo inventata e sempre di nuovo minacciata; e ciò con l’effetto generale di una corrosione degli spazi di libertà di ciascuno, partendo ovviamente da quella di precisi gruppi sociali (ancora secondo una logica di classe) da sorvegliare e punire.

L’immigrato è naturalmente (razzismo in atto) colpevole: di nuovo ecco l’invenzione delle razze, con la creazione di nessi psico-fisici fra diversità e pericolosità. Questi nemici interni, questi nuovi individui pericolosi hanno, con Foucault, una “funzione sociale” precisa e fondativa: distraggono da contraddizioni e conflitti endogeni e legittimano politiche e pratiche temibili di controllo sociale.

«La ragione del successo del razzismo è la sua straordinaria attitudine operativa. Il razzismo è un potentissimo mito, capace di realizzare una formidabile operazione dialettica. Come una sorta di novello re Mida, trasforma ciò che è travolto dalla crisi moderna in uno strumento di autoaffermazione. L’identità è sfidata, scossa dalla modernità? Il razzismo – essenzializzandola – ne fa la base della relazione sociale e del conflitto. La fede religiosa o nel sistema di valori è scossa dalle trasformazioni? Il razzismo – naturalizzandola – la traduce in un cruciale fattore di appartenenza o di esclusione» (p. 26).

Questo del razzismo è un capitolo importante nel libro che saprebbe raccontare il carattere degli italiani, farne una antropologia non banalmente televisiva.

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ISSN:2037-0857