philosophy and social criticism

Una faccia del gioco

"Gambling"

di Giovanni Avorgna

Pubblichiamo l’intevento di Giovanni Avorgna al 1° incontro nazionale della rete #NoSlot (→ QUI). 

Il gioco non è un gioco! Sembra essere questa la morale che viene fuori dalle ultime analisi riguardanti la diffusione del gioco d’azzardo nel nostro bel paese. La dipendenza da gioco è sempre più diffusa e quello che più sorprende è che da semplice svago esso si sia trasformato nella soluzione a tutti i problemi, nella ragione di vita di molti. Le persone giocano perché “se vinco posso arrivare tardi a lavoro e mandare a cagare il capo che mi richiama all’ordine”, perché “se vinco posso non far niente dalla mattina alla sera”, perché “se escono quei sei numeri saluto tutti e me ne vado a vivere a Rio”.

Nel panorama degli approcci e delle teorie che tentano di spiegare la condizione psicologica dell’essere giocatore, ce n’è uno che a mio avviso rispecchia appieno la personalità del soggetto in questione. Nel  libro La psicologia delle dipendenze sociali Gioacchino Lavanco presenta la dipendenza (che si tratti di droga, gioco d’azzardo, cibo, shopping, sesso o internet) come una forma disfunzionale di auto-cura che un soggetto mette in atto per far fronte alla sua condizione di “alessitimico”. L’alessitimia è un

“disturbo che compromette la consapevolezza e la capacità descrittiva degli stati  emotivi esperiti, rendendo sterile e incolore lo stile comunicativo. I pazienti alessitimici, oltre alle difficoltà nel riconoscere, nominare e descrivere i propri stati emotivi, presentano stati emotivi attenuati o completa incapacità di provare emozioni. Nella mente degli individui alessitimici le emozioni si confondono con le sensazioni corporee percepite.” (Dizionario di medicina Treccani, 2010). 

Questo vuol dire che il soggetto alessitimico, in preda ad un’emozione, verrà invaso da una sensazione di stress così forte – dovuta alla paura per un qualcosa che gli è estraneo ma che lo invade completamente – che lo costringerà a mettere in atto comportamenti estremi pur di non rimanere in questo stato di forte stress. Riportandolo al caso specifico del gioco, è come se l’azione del tirare la leva della slot-machine permettesse di scaricare l’eccessivo stress accumulato dal soggetto. Il giocatore, così, viene a delinearsi come un soggetto incapace di far fronte ad un dolore interiore, costretto a mettere in atto comportamenti “anestetici” al fine di portare fuori di sé questo dolore. 

Ho avuto modo di partecipare ad un incontro dei Giocatori Anonimi e in tutte le testimonianze ho potuto riscontrare una marcata difficoltà da parte dei soggetti nel restare da soli con loro stessi. “Non posso rimanere da solo, perché io sono il peggior nemico di me stesso”, era questa la frase tipica che i giocatori proferivano quando parlavano dell’utilità del gruppo di auto mutuo aiuto, in quanto grazie ad esso riuscivano non solo a farsi forza vicendevolmente nei momenti di crisi, ma riuscivano a capire che la loro dipendenza è sì un demone, ma un demone che si può sconfiggere facendo leva sull’aiuto comune di chi ha subito la stessa sorte.

Questo porta a riflettere su quanto questi gruppi siano importanti per i giocatori, ma solleva anche un altro punto: la difficoltà che ha il giocatore di uscire dalla dipendenza. Il gioco è ovunque e questo comporta un elevatissimo tasso di ricaduta da parte dei soggetti in questione, i quali vedranno annullati tutti gli sforzi che hanno fatto per raggiungere un precario stato di sobrietà dal gioco. Non basta dire al giocatore di non frequentare il solito bar come nel caso dell’alcolista o di non frequentare lo spacciatore di turno come nel caso del tossicodipendente, perché basta che vada alle poste a pagare un bollettino per sentirsi dire dalla cassiera “vuole un gratta e vinci?”.

A questo proposito, come ha sottolineato anche Lavanco in un convegno tenutosi un mese fa a Firenze, in Italia si sta facendo poco a livello di prevenzione primaria riguardo al gioco, molto poco riguardo l’intervento sulla patologia, e assolutamente nulla per quanto concerne la prevenzione terziaria, ovvero il reinserimento nella società dei giocatori. Probabilmente questo avviene perché lo Stato è il Giano bifronte della situazione, dato che da una parte finanzia i progetti per la prevenzione mentre dall’altra alimenta la diffusione del gioco non regolamentandone la disponibilità online e non. Attualmente l’industria del gioco legale occupa per profitto il terzo posto nella classifica delle industrie italiane (prima ci sono solo ENI e FIAT). [Nota 1]

Questo dato può sembrare sorprendente, ma se ci si sofferma un attimo ad analizzare la varietà dei giochi e la frequenza con cui le persone giocano, la sorpresa lascia spazio allo sgomento. Si pensi, ad esempio al solo montepremi del Superenalotto: la somma che viene sbandierata in tv, nei tabacchi, alla radio, sui giornali o sui cartelloni pubblicitari altro non è che un terzo dell’introito dell’intera lotteria; la restante parte va per metà allo Stato e l’altra metà alle industrie del gioco.

La domanda, allora, sorge spontanea: se è questa la situazione, cosa fare? Come intervenire nel concreto?

Il 3 Luglio 2013 il Dipartimento Politiche Antidroga (Dpa) della Presidenza del Consiglio ha fatto partire un corso di formazione rivolto a professionisti selezionati delle Regioni e della Pubblica Amministrazione con esperienza in materia di gioco d’azzardo patologico al fine di creare degli “esperti” a cui verrà poi affidato il compito di formare altri colleghi delle rispettive regioni di appartenenza. Giovanni Serpelloni, capo del Dpa, ha dichiarato che l’impegno del Dipartimento proseguirà nello sviluppo di “specifiche linee di ricerca nel campo delle neuroscienze sul Gap e sui fattori di vulnerabilità che lo sostengono oltre che sulle basi fisiopatologiche e le aree cerebrali implicate nel controllo del comportamento di gioco compulsivo” [Nota 2].

Il 3 Luglio 2013 il Dipartimento Politiche Antidroga (Dpa) della Presidenza del Consiglio ha fatto partire un corso di formazione rivolto a professionisti selezionati delle Regioni e della Pubblica Amministrazione con esperienza in materia di gioco d’azzardo patologico al fine di creare degli “esperti” a cui verrà poi affidato il compito di formare altri colleghi delle rispettive regioni di appartenenza. Giovanni Serpelloni, capo del Dpa, ha dichiarato che l’impegno del Dipartimento proseguirà nello sviluppo di “specifiche linee di ricerca nel campo delle neuroscienze sul Gap e sui fattori di vulnerabilità che lo sostengono oltre che sulle basi fisiopatologiche e le aree cerebrali implicate nel controllo del comportamento di gioco compulsivo”

Nel leggere questa notizia – che a primo impatto può essere vista come un concreto impegno da parte degli organismi competenti riguardo la dipendenza da gioco – mi sono sorpreso di come in realtà sia ancora diffusissima la credenza che la dipendenza da gioco sia un vizio più che un disagio.

La cosa che forse non è chiara e che, a mio modesto parere, andrebbe sottolineata è che il comportamento del giocatore non è il frutto diretto di un malfunzionamento delle strutture cerebrali, bensì un meccanismo maladattivo che finisce per logorare il giocatore e chi gli sta intorno. Ed è stando anche a quanto riportato dalle testimonianze dei giocatori, una modalità errata di reagire a un disagio interiore. Perciò quello che andrebbe fatto, a mio avviso, in questo momento di urgenza non è tanto spiegare come si comporta il cervello nella dipendenza da gioco, bensì intervenire sui sempre più soggetti che si imbattono in questo disagio. Sia chiaro, non mi sento di mettere in secondo piano le eventuali predisposizioni biologiche allo sviluppo di dipendenze, ma credo che per ora sia più utile pensare a sviluppare progetti di prevenzione ad hoc per i soggetti più a rischio (quali ragazzi di scuole medie e superiori), cercare delle modalità di intervento dirette ai giocatori e alle rispettive famiglie (come psicoterapie di gruppo e/o individuali), cercare di collaborare sempre di più con i gruppi di auto-mutuo-aiuto che ruotano intorno alla patologia di gioco (Giocatori Anonimi, Familiari Anonimi etc.), creare strutture che gradualmente possano provvedere al reinserimento nella società del giocatore e che possano essere di supporto per lui e per chi lo circonda nei mesi successivi alla riabilitazione, piuttosto che spiegare quale neurotrasmettitore agisce in maniera più o meno consona nell’area X del cervello del giocatore.

Concludo facendo un breve accenno al “programma terapeutico multimodale” seguito dai giocatori patologici nella SIIPAC, l’associazione fondata da Cesare Guerreschi, presentato nel suo libro Non è un gioco. Rimando alla lettura del libro per quanto riguarda l’analisi dettagliata dei vari interventi; qui mi preme sottolineare, invece, come quello proposto dal Dott. Guerreschi sia un chiaro esempio di come andrebbe trattata la patologia di gioco: in un programma che possa intervenire sia sulla crisi che sulla riabilitazione del giocatore patologico devono essere previsti degli esperti che lo possano aiutare in tutti i campi che la dipendenza da gioco ha minato, da quello strettamente individuale (con colloqui motivazionali e psicologici), passando per il rapporto con la famiglia (attraverso la psicoterapia sistemico-relazionale), finendo poi con consulenze legali e finanziarie svolte da commercialisti e avvocati per far fronte alle conseguenze giudiziarie ed economiche che molto spesso il giocatore si porta dietro.

Non so se tutto questo sia fattibile o sia soltanto un’utopia, tuttavia credo che ora come ora l’unica cosa da fare sia quella di riuscire a diffondere quanto più possibile la cultura del benessere. Cercare di tutelare i soggetti a rischio incrementando la conoscenza riguardo al gioco e alle trappole che questo nasconde ci permette, a mio avviso, di sperare che si possano attuare successivamente tutti gli interventi per poter debellare o quanto meno arginare in modo deciso questo cancro della nostra civiltà.

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tysm literary review, Vol 4, No. 7– juin 2013

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