philosophy and social criticism

Etica del capriccio

"Manlio Sgalambro"

di Manlio Sgalambro

Io seguo una morale del capriccio. O se si vuole della grazia. Prendo questo concetto dalla nozione calvinista di Dio e ne assumo l’intera responsabilità. Il capriccio che guida le azioni, le guida rettamente. Poiché bisogna essere ingiusti (l’atto che preferisce un individuo a un altro come lo chiamate?), io mi affido a un’ingiustizia costruita e responsabile piuttosto che a un’ingiustizia spontanea e inaffidabile. Mi pare che il termine grazia mi convinca. Trovo in esso il motivo e la grande spiegazione perché la mia morale segna certe direzioni e non altre.

Faccio felice uno e tralascio un altro. Ciò avviene in me, debbo dire, arbitrariamente. Come nell’elezione divina mi lascio dietro una scia di dannati ed eletti. Trovo quelli che ripongono nella libertà la fattispecie della loro morale schiavi di questa parola. Sulla libertà non si edifica nulla. Questo è stato il mio convincimento da quando ho seguito la luce della coscienza. D’altra parte allorché percepisco in me questa sensazione non mi sento accresciuto. Mi so causato e so che quanto chiamo libertà è solo la somma delle mie cause. Trovo difficile che un atto morale sorga da questo equilibrio. Devo spezzarlo se devo fare qualcuno felice. Per la libertà tutti sono eguali, per la grazia colui sul quale essa cade è l’unico. Io, ripeto, mi sono regolato così. Ho sentito nel mio capriccio la garanzia dei miei atti e la tutela di almeno un altro. Ho studiato varie morali con curiosità e raccapriccio. Non ho tralasciato le grandi ma le piccole m’hanno incuriosito maggiormente. Ho visto il sublime, ho visto morali di alta levatura ma non ho visto altro. Belle costruzioni cioè, ma non vi abita nessuno. Se la grazia è il capriccio di Dio, tengo a dire che il capriccio è la mia grazia. Ma non ho mai ritenuto, nella mia vita cosciente, da quando cioè ho consapevolezza dei miei atti, che la grazia sia sulla stessa linea di colui al quale si indirizza. Vi è tra l’uno e l’altro l’onnipotenza di un Dio o comunque di chi la pratica. Così credo avviene nella vita dell’individuo. Colui che insegue non si sa bene, a questo punto, se il capriccio o la grazia, non avverte alcuna eguaglianza tra sé e gli altri. La mia compassione cade come un macigno e non so se il bene che faccio non sia proprio quel male che volontariamente non faccio. Voglio dire che talora non so distinguere tra il bene e il male, per usare i termini classici, del resto sempre i migliori. Se guardo agli effetti mi sembra terribile il risultato messo in moto dai miei atti. Mi sembra che il bene, proprio perché universale, secondo le sante parole dei vecchi analizzatori di cose del genere, estende in proporzione i suoi effetti che possono essere sciagurati. Mentre quello che si chiama «male», costretto com’è dai limiti della sua piccola provincialità, ha zone di influenza senz’altro minori e più abbordabili. Sì, il male è provinciale. Comincia dal bottegaio che ruba sul peso e va fino al gesto con cui un marito pesta la moglie infedele. Al di là di questi atti o simili, vi è il «male» di Nerone o degli Hitler, ma chi può calcolarlo? È proprio male, oppure un motore della storia? Oltre un certo limite il male non è più individuabile. Se si vuole la storia, ebbene come si può toglierle ciò che la muove? E soprattutto gli insegnamenti di Hegel mi ammoniscono a non considerare in maniera così meschina l’effettuale. Ciò che è effettuale non può imprigionarsi in queste sciocchezze.

Hegel mi ammonisce che non esistono mostri in questo grande affare del mondo. Quando butto giù questa lenza non pesco che qualche ladruncolo, dei corrotti e reati di giornata.

In quali degli atti di governo di Seneca potrei trovare il «male, questa invenzione cristiana?». Dicevo dunque che nella mia morale considero l’altro che ha bisogno di me con disprezzo. Il suo bisogno non mi suscita alcuna emozione benevola. Ci sono molte altre vie per non avere bisogni, non solo quelle di soddisfarli. Sono passato attraverso una rinuncia così perfetta (oso dire) che mi pareva che avessi eliminato il corpo. Quanto ai cosiddetti bisogni dello spirito la cosa è diversa: qui in effetti si sfrena la mia lussuria.

La mia divisa è stata questa: non basta morire, prima bisogna perdersi. Nella mia visione l’idea di perdizione sostituisce quella di salvezza che ha imperversato con esiti infausti. Quanto a me io non mi voglio salvare, che nulla di me rimanga, e vedo i vermi rosicchiare i miei atti e le mie piccole opere, i miei scritti e i miei piccoli pensieri.

Di certo morirò tutto. Ma l’idea di perdermi non è uno scacco nobilitato. Né la vendetta del mio spirito al tradimento che avrei subito. Io non mi sento tradito. Da quando la mia consapevolezza è il solo modo di esistere che trovo degno, mi avvedo che io non ero previsto nei piani del mondo. Come un essere in più, non previsto e in eccesso, non mi aspetto nulla. Ma l’idea di perdermi mi sembra allettante. L’idea di salvezza era legata all’alto, a ciò che la nostra numerologia (direi che la metafisica classica null’altro era, e continua a essere, che una numerologia) chiamava Primo. Il grande, il primo, il più alto: io sento l’impulso a unirmi con l’infimo e il trascurabile, con il fugace: anche col basso, voglio dire. L’idea del Piccolo, come sotterranea scommessa della nostra epoca, si fa luce attraverso mille cose ma soprattutto attraverso la Tecnica. Il più piccolo, il sempre più piccolo. Coloro che temono la Tecnica, hanno ben colto il pericolo che ha per essi. Essa mira al più piccolo, loro al più alto. L’idea di perdermi, ripeto, mi affascina. Essa fa parte comunque della mia morale. E scelgo i miei atti in contraddizione con la mira all’eternità. Che il tempo mi ingoi, mi auguro. Insomma, mi maledico da me. Nella mia morale dunque ci sono anzitutto io stesso. L’idea che la morale debba essere il riassunto dei nostri servigi e le regole o gli imperativi per attuarli non mi strega abbastanza. L’idea di atti fatti in vista di mettere se stesso sulla riga mi sembra raggiungere, o tentarlo, almeno un effetto. Se ciascuno perfezionasse se stesso di tanto, forse questa banda di canaglie (i miei simili, insomma) mi ispirerebbe qualche buon sentimento. L’idea di genere umano disturba la mia contemplazione di un unico. Debbo anzi aggiungere che questa idea – quella di genere umano, con i suoi corollari: umanità, «uomo» eccetera – espleta i suoi maggiori diritti in zoologia, indica lì con che tipo di animale abbiamo a che fare, ma non ci insegna nulla per quanto riguarda la sostanza della sua idea. Da un punto di vista zoologico, un volto, due gambe, due mani, la stazione eretta, possono ben distinguere questo animale da un altro. Ma niente di più. Insomma io posso avere a che fare (ma ciò anche nella mia mente) con un essere umano alla volta. È tutta «l’umanità» che sono capace di concepire. O per meglio dire. La massa umana al presente è composta da poco più di cento miliardi di morti e da cinque o sei miliardi di vivi. Ma per me essa è formata da uno solo. Tutto sommato chiamarlo essere umano mi sembra anche derisorio. Il suo nome mi dice invece più del suo genere. Per quanto riguarda la morte, tema su cui il mio tempo ha finito di pensare, io sono retto dall’idea di morte volontaria. Credo che il rischio del suicidio, come mi è capitato di definirlo qualche volta, sia al riguardo il nostro apporto più proprio. Noi abbiamo introdotto il suicidio nel mondo. Mi pare una delle cose, assieme ad alcune altre, che mi potrebbero rendere orgoglioso dei miei simili. Immagino che a questa morte un’umanità assennata preparerebbe sin dall’infanzia e l’insegnerebbe nelle sue scuole. Ma dispero che ciò accada. Sembra che si preferisca invece la morte «naturale» (a dir vero non c’è nulla di «naturale» in essa, come tutti sappiamo). Immagino un momento di gioia, mai provato, in esso mi potrò sopprimere col senso di avere colto l’istante e fermato la felicità. Non ho mai capito perché invece il suicidio venga legato a tristezze e fallimenti. Una specie oscura ha oscurato persino questo momento di rara bellezza (almeno come io l’immagino).

Vivo per pensare, ecco un’altra costante del mio spirito. Ho la sensazione, mi confesso, che dal pensiero si diparte l’ethos che io seguo. Il bene è pensiero, mi dico. È scarsamente possibile che esso sia volontà, su cui quel che so mi è stato insegnato da certi maestri ed è scarsamente favorevole a questa tesi. Io posso pensare il bene di un «altro», ma se stendo la mano già lo colpisco. (Il solidarismo è uno dei peggiori esiti della mano stesa. Ben presto se ne penserà quel che si pensò del filantropismo nel secolo scorso.) Io tuttavia non ho «bisogno» di pensare e non l’annovero comunque tra i bisogni. Io lo sento sorgere come una specie di eccesso. Contrariamente a quelli che vi vedono la dignità e simili, io sono percorso dalla terribile responsabilità di pensare e sono del parere, quanto mai fermo, che bisogna cercare di non diffondere questo malanno. Comunque lo vedo come un pericolo per la vita. O almeno, poiché io devo qui parlare di me, per me è stato così. Tuttavia un altro lato del pensare mi ha angosciato. E devo anche dire suscitato una sottile vergogna. Come se fosse un atto impuro e sporco. È come se ogni volta che penso turbassi la quiete di questo immacolato universo e mi pare che l’antico giudizio per l’atto sessuale, il senso di fango e lerciume che esso mandava per i pii, sia invece il pensiero a destarlo. Mi sembra infatti che pensare ci butti ancora vivi nella gehenna. Nel rapido godimento del pensiero, come in quello del coito si nascondono turpitudini e, infine, eterna tristezza. Ho praticato talvolta il pensiero come una cosa immonda. E quando per un periodo ne uscivo fuori mi sentivo più libero e una sensazione di purezza mi invadeva e mondava. Come un peccatore giuravo che non vi sarei mai più caduto.

Non mi sono sottratto al sesso e all’amore praticati entrambi sia col senso dell’esperimento che nell’abbandono totale. In queste cose sono stato una spia e un complice. Ma lo statuto di filosofo lo richiedeva. Ho creduto che chi praticasse il filosofare dovesse portare il suo corpo ad osare affinché il suo spirito aleggiasse sulle acque. Molte forme di pericolo le ho praticate. Ma restano nascoste nella mia vita come in un rifugio segreto. Bisogna, mi sono sempre detto, forgiare un corpo adatto ad avere un pensiero. Oggi che tutti pensano, la cosa è ancora più necessaria. Pensare non è ormai che solamente un diritto sancito dalle leggi dei paesi. E mi pare per lo più nient’altro. Tutti pensano: orribile! Dicevo che bisogna forgiare un corpo dove il pensiero possa allignare. Un corpo degno. Da giovane mi frustavo, non per punirmi di qualche lussuria, ma perché mi sembrava ai miei fini più salutare che la logica. Bisogna formare in mille modi le proprie sensazioni e poi mandarle per il mondo. Un filosofo che non esercita la logica anzitutto su se stesso non mi pare possa reggere al pensare. Debbo a Hegel avermene convinto. Fa parte del mio modo di comportarmi la diffidenza verso i germi creativi che il mio cervello può contenere a mia insaputa.

Ho avuto spasimi di vera ebbrezza nel sentire qualcuno dire: uccideremo i geni in culla. Debbo aggiungere che ci fu un tempo che perseguii la più spietata «eguaglianza» senza titubanza alcuna. L’eccitazione del cervello mi sembrava immonda come il turgore del sesso. Pensare snaturato. La stupidità mi tentava come corrispettivo di un mondo stupido. Chi vuole capire la realtà deve istupidire: mi sembrava il legittimo corollario di una conoscenza perbene.

Ho indagato l’idea di Dio ma non perché non si possa andare oltre la sua idea. Ma perché se dovessimo avere a che fare con Dio stesso saremmo attratti fatalmente nelle sue spire e saremmo confusi con esso (cosa da cui mi guardo sanamente).

Non avremmo più alcuna esteriorità sufficiente per l’atto «esteriore» della conoscenza. Ne saremmo assorbiti, dico. Invece attraverso l’idea lo vediamo conservandoci intatti. Cosa significa dunque l’idea di Dio? Significa che la nostra conoscenza s’è emancipata dalle varie pitture (questo il guadagno che Spinoza ci indicherebbe per primo).

Significa non avere a che fare niente con Dio come avere a che fare con l’idea di cavallo non significa avere a che fare con un cavallo. Devo dire che io dubito che si saprà avere a che fare con l’idea di Dio nel modo che l’idea stessa prescrive. Dubito che chi la maneggia non cada prima o poi in ginocchio o faccia altre sciocchezze. Chi ha l’idea di Dio ne è superiore di tutta l’infinità che l’idea – l’atto che lo pensa, intendo dire – possiede e «Dio» no. Ma non tutti deducono bene. Tuttavia a che pro io evoco qui questa idea? In che maniera essa ha operato in me e mi ha orientato? Essere dissimile da Dio, volgergli le spalle con disprezzo. (Nel concetto di Dio infatti si annida la feccia e il rifiuto del nostro spirito.)

Mi sono accorto che si raggiunge l’acme del pensiero quando si è riusciti a pensare che Dio non dev’essere. Qui ci lasciamo alle spalle gli imperativi della nascita: a essi appartiene infatti l’imperativo mascherato: «Dio esiste» ed emerge chiaramente ciò che tocca a questa specie.

Sopportare solamente il peso di questo concetto infatti non basta. Io seguo una sorta di pensiero valutante dove nello stesso tempo che si dice l’essere, esso è giudicato. Il logos dell’etica che seguo si può esprimere infatti così: valere, non «essere». La magniloquenza delle ontologie non mi ha mai incantato. L’impulso mi conduce verso un disgusto e un disprezzo dell’essere. Io lo seguo. In realtà io difendo queste sensazioni come posso, considerato che la maggior parte della gente (non i soli «filosofi») preferisce «essere» e pospone il valutare. (La cosiddetta crisi dei valori è invece crisi del valutare. Ma quest’ultima è un effetto della diffusa mancanza di eccellenza.) Un filosofo in voga ha lasciato detto: «Pensare per valori… è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere». La possibilità di «bestemmiare» l’essere mi ha sempre attratto. E mi sono condotto di conseguenza. La nozione di Dio mi sembra una nozione infima, e volgare quanto quella di un triangolo. Dio o un triangolo per me sono eguali. Mi impongo di dimostrarli e poi me ne lavo le mani.

Io non mi sono regolato secondo obblighi e considero la nozione di «altro» una mucillagine inconcludente fatta di ritagli di esseri umani e i rimedi offerti dalle morali una specie di colla onde legare il tutto alla men peggio. Io mi sono legato volta per volta con Francesca o Pietro o Elisa e nessuno di loro è stato per me «essere umano» (o «altro») ma volta per volta Francesca, Pietro, Elisa… Qualcosa che non definirei «uomo» o «donna» ma, ripeto, mi sembrano meglio definiti dal loro nome e da una specie di alone che fa che ciascuno sia quel che è (ma soprattutto niente di «umano»).

Debbo concludere che sono un cattivo maestro. Ho avuto frequentazioni di verità orribili e mentre ne facevo partecipe qualche altro, ne avevo pena. La battuta di David Friedrich Strauss che in un mondo in cui nulla va bene, anche il maestro non può che essere pessimo, va salvata.

da Annuario di Filosofia, “Micromega”, marzo 1997

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tysm literary review, Vol 7, No. 12,  March 2014

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