philosophy and social criticism

Sui sentieri di Knut Hamsun

Marco Dotti

Seduto in un parco di Kristiania, un vecchio teneva fra le mani un giornale. La pagina della pubblicità era rivolta all’esterno e, dallo strano modo con cui gelosamente la stringeva, quella carta sembrava avvolgere e custorire un oggetto carico di mistero. «Incuriosito – scrive Knut Hamsun in Sult (Fame), capolavoro che nel 1890 lo fece conoscere al grande pubblico – non riuscivo a staccare lo sguardo da quel giornale. Mi venne a un tratto l’idea del tutto folle che potesse essere un giornale straordinario, meraviglioso, unico nel suo genere. E poiché la mia curiosità andava crescendo, incominciai a dimenarmi sulla panchina». Dietro a quel giornale, infatti, potevano nascondersi «atti pericolosi sottratti a qualche archivio, e d’un tratto mi balenò l’idea di un trattato segreto o di una congiura». Fra le pagine, però, il vecchio che in un memorabile dialogo del libro si rivelerà scaltro e un po’ cinico (con «spalle disoneste e viziose» lo descrive Hamsun), ma quasi del tutto cieco e quindi incapace di leggere, nascondeva solo un po’ di pane.

Oltre la fame

Esattamente quello che mancava al protagonista di Fame, continuamente alle prese con «l’estraneità della sua vita mentale» e la degenerazione dei nervi dettata dalla scarsità di mezzi (cibo) e da abbondanzia di fini (ideali di scrittura). Il «pacchetto mistico» conteneva dunque nient’altro che cibo. Non poco, in tempi di crisi e disoccupazione diffusa, ma non tutto: «le vecchie dita dell’uomo sembravano artigli rugosi e affondavano in maniera ripugnante nei panini imbottiti e grassi. Mi sentii lo stomaco sconvolto e passai oltre, senza parlare». Cartografia interiore della perenne battaglia tra la sopravvivenza e il disgusto per la vita, tra il delirio e la ricerca di un equilibrio che, presto, si rivelerà impossibile, Sult offre anche una precisa

Kristiania alla fine del XIX secolo

Kristiania alla fine del XIX secolo

descrizione della Oslo (Kristiania) fin de siècle, «strana città che nessuno lascia senza portarne i segni». Fu così anche per l’autore che, nel tracciare il profilo dell’alter ego protagonista di Fame, uno squinternato e squattrinato flâneur in cerca di collaborazioni giornalistiche, ripercorreva ovviamente filtrandole le proprie esperienze di solitudine e miseria.

Solitudine e miseria che per Hamsun coincisero fin da subito con una precisa dimensione esistenziale e una altrettanto precisa tonalità emotiva tendente al nero. Nato centocinquanta anni fa da una famiglia molto povera, nel sud del paese, Hamsun trascorse la giovinezza lavorando come bracciante a Hamarøy, nella Norvegia settentrionale, accanto alle isole Lofoten, in un contesto in cui ogni personalità era (e per chi ci vive ancora è) segnata dal rapporto con un paesaggio imponente e una natura primordiale. Nasce certamente da qui, dal contatto con questo ambiente e questa natura, tra ghiacci e fiordi in una regione che si colloca ben al di là del circolo polare artico, il continuo gioco degli antagonismi tra «radicamento» e «sradicamento» fra modernità inquieta e apparente stabilità del mondo tradizionale, messi in campo in quasi tutte le opere dello scrittore. La prima esperienza personale di sradicamento, Hansun la visse nel 1882 trasferendosi in cerca di miglior fortuna negli Stati Uniti.

Dopo avere lavorato come agrimensore, insegnante elementare, falegname e calzolaio in patria, Hamsun si ritrovò improvvisamente in un contesto sconvolto dai grandi mutamenti industriali e dalla conurbazione. Lavorò come impiegato e commerciante, prima di trasferirsi a Minenneapolis dove tentò la carriera, rapidamente fallita, di conferenziere. Fece quindi ritorno in Norvegia, ma nel 1886 Hamsun ripartì per l’America, stavolta dirigendosi non più in Minnesota, ma nell’Illinois. A Chicago, però, non gli venne offerto impiego migliore di quello di conducente d’autobus e di controllore. Accettò, ma dopo una permanenza durata due anni – anni di continui spostamenti, segno della sua innata irrequietezza – decise che era giunto il momento di «tornare a casa» e tentare il «sogno» della scrittura. Non senza essersi tolto qualche sassolino dalle scarpe: scisse infatti un duro pamphlet contro l’american way of life che divenne il primo fra i suoi libri a trovare un editore disposto a pubblicarlo, nel 1889, col titolo Fra det moderne Amerikas Aandsliv (La vita culturale dell’America moderna, trad. di Enrica Berto, Arianna editrice, 1999).

Altri vagabondi

L’America gli si mostrava come lo spettro della modernità e della tecnica in procinto di avanzare, dell’inquietudine prossima a travolgere ogni frammento di vita ordinata secondo metodo e tradizione.  La tarda deriva hamsumiana – anche se non andrebbe enfatizzata – appare già inscritta in alcune pagine di questo libro duro e sprezzante contro le «virtù civiche» americane e la sua «democrazia per tutti». Dopo il secondo fallimento americano, Hamsun tornò in Europa trascorrendo parte del tempo in una mansarda, a Copenhaghem, pronto a tutto pur di affermarsi come scrittore. Nascono da questa miscela esplosiva fatta di precarietà economica, disagio antropologico profondo, voglia di esplorare nuove possibilità e confini della scrittura, alcuni dei capolavori della sua prima fase creativa: oltre a Fame, risalgono infatti all’ultimo decennio del XIX secolo opere come Mysterier del 1892 (Misteri, trad. di Attilio Verardi, Bur, 1989) e Pan (Pan, trad. di Fulvio Ferrari, Adelphi, 2001) del 1895.

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una lunga deriva...

In questi tre romanzi modernisti, Hamsun metterà in scena un individuo lacerato in conflitto costante con la società che lo «ospita» e da cui cerca una via di fuga. In Fame, la fuga avverrà abbandonando Kristiania, mentre in Pan e Misteri seguirà dinamiche più violente (suicidio e omicidio). Il volgere del nuovo secolo, però, produce in Hamsun – oramai scrittore affermato e guardato con stima dalle nuove generazioni – un altro tipo di crisi, stemperando alcuni elementi ed esacerbandone altri. Uno scrittore, confessava all’amico Georg Brandes alla vigilia di Natale del 1898, «in fin dei conti può avere di tanto in tanto in sé anche un po’ di lirica, tanto più se per dieci anni ha scritto libri che mostravano i pugni serrati».

Dove non cresce l’erba

Dopo una parentesi «felice», il cui frutto migliore è Sværmere (Sognatori, trad. di Fulvio Ferrari, Iperborea, 1992), Hamsun si dedica a libri il cui protagonista è è ancora una volta «il viandante». Scritta tra il 1906 e il 1912, la «trilogia del viandante» comprende Under Høststjærnen (Sotto la stella d’autunno, trad. di F. Ferrari, Iperborea, 1995), En Vandrer spiller med Sordin (Un vagabondo suona in sordina, trad. di F. Ferrari, Iperborea, 2005) e Den sidste Glæde (l’ultima versione è di Ervino Pocar e risale agli anni Settanta). Il protagonista di questa nuova fase hamsumiana è un alter ego che porta il nome di battesimo dell’autore: Knut Pedersen. Pedersen è un viandante-intellettuale fuggito dalla città, «dal chiasso e dalla ressa, dai giornali e dalla gente» che sceglie la strada del ritorno alla natura e ai lavori manuali, per uscire dalla «nevrastenia» e dal dolore che sovrasta l’ «uomo nuovo e moderno». Non cerca il successo, «non legge i giornali, eppure sopravvive» e soprattutto capisce che, sradicato, gli è necessario «riradicarsi» materialmente, fuggire la modernità e riempire di senso la «vita segreta dei nervi».

È in questa fase, nel primo decennio del XX secolo, che Hamsun probabilmente dà il meglio di sé. Qui, oltre all’individuo spaesato capace comunque «di rinserrare i pugni», al centro del racconto c’è il mondo della campagna e della provincia norvegesi. Anche il ritmo della narrazione cambia e, a poco a poco, sconfina nell’epico. Il lirismo – come preannunciato a Brandes – prenderà infine il sopravvento, giocandogli però, nella vita privata e negli ultimi anni di vita, anche brutti scherzi. A volte, scriveva in Sotto la stella d’autunno, si incontrano «fiori caparbi che si rifiutano di morire». Come questi fiori e come l’anziano col giornale descritto in Fame, anche la vecchia Grunhil che apre il primo capitolo di Sotto la stella non vuole morire. «Il suo tempo è finito, ma lei non se ne vuole andare». Al pari del vecchio nel parco di Kristiania, anche la Grunhil sembra nascondere un mistero. Ma i misteri non andrebbero mai guardati troppo da vicino.
Strana autopremonizione per un autore che, morto nel 1952, ha scritto per oltre sessanta dei novantatré anni vissuti, ma che proprio nell’ultimo tempo della sua esistenza ha ceduto il passo alle forze più oscure dell’antimodernità. Forse anche per lui il tempo di andarsene era arrivato da un pezzo.

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ISSN:2037-0857