philosophy and social criticism

A futura memoria

Ivo Barnabò Micheli

Riprendo il discorso di Renzo Renzi, quando si domandava come mai Pasolini parlasse così poco del suo fascismo, di come lo visse, di come visse quell’esperienza in quel periodo, perché a sentire l’immagine ricca, talvolta ironica, di Renzi, sembrava che insieme avessero vissuto un’epoca felice tra cinema, partite di calcio, il GUF, e così via. Credo invece che per Pasolini quello della sua adolescenza sia stato un periodo tragico, e che Casarsa abbia rappresentato la sua prima fuga da Bologna e da tutto quello che era l’aria chiusa, accademica, delle scuole e dei testi. Penso che a Casarsa ritrovasse un attimo di quella gioia di vivere, che nella realtà a quel tempo non gli era concessa.

Per tutta la vita Pasolini è stato un uomo in fuga e Casarsa è solo la prima fuga: era un nomade che andava in terre lontane, senza prendere l’autostrada, per arrivare dove voleva, attraverso sentieri scoprendo man mano se stesso, la sua diversità, e anche il paese in cui viveva e che non era un paese felice.

Prima si diceva che l’omosessualità di Pasolini è un tema che lui non aveva affrontato. Io credo che non lo avesse mai fatto perché non c’era né la situazione, né la possibilità; perché l’omosessualità era scandalo, e lo sarebbe ancora oggi, se pensiamo che un preside in una città del sud punisce due ragazzi soltanto perché si sono baciati. Figurarsi se oggi si parla di omosessualità in una scuola!

Quando nel mio film A futura memoria ho affrontato con Nico Naldini questo discorso, abbiamo riflettuto a lungo su come proporlo, perché non era facile per la prima volta davanti ad una macchina da presa parlare di omosessualità. Tanto più che Nico Naldini, scrittore pure lui, omosessuale pure lui, aveva accanto la mamma, che stava a sentire i discorsi che facevamo. Sua madre intervenne ad un certo punto, mentre Naldini diceva che la famiglia Colussi – quindi Pasolini – apparteneva ad un ceppo contadino, dicendo: “No, mai stati contadini”.

Se io facessi questo film, noi avremmo davanti agli occhi ciò che Pasolini ha visto e vissuto. Chissà che un giorno non lo faccia e chissà che il Comune o la Provincia di Bologna non siano interessati a fare un documentario su Pasolini!

Vorrei inserire di Pasolini un’immagine sola, quella che ho messo nelle Ceneri di Pasolini, cioè Pasolini a 15 o 16 anni [nella foto a lato, Pasolini nel 1938, a sedici anni]. Perché Pasolini era un uomo di 16 anni quando è morto, non ne aveva 53. Era rimasto adolescente, disperato e combattivo come un adolescente, non era cresciuto. Vi ricordate quando Biagi gli chiese: “Quali speranze ha perduto? quali sono i valori?”, “Ma io ho conservato tutto. Io credo in tutto. Io sono un adolescente”. Questo si capisce anche da quella vocina che aveva. Era la voce di un adolescente e questo spiega probabilmente anche l’omosessualità, forse da mettere in relazione con la morte del fratello Guido.

Gianni D’Elia mi ha detto che c’è una straordinaria assonanza tra Pasolini e Leopardi, in particolare nel punto in cui Leopardi dice in una lettera: “Non leggere solo le parole, leggi il sentimento, cerca di capire”. Allora mi veniva in mente che forse la sua omosessualità non è nata così presto come si pensa. Quel racconto del tavolo da cucina, il padre, il collirio, gli occhi, è troppo freudiana. Io penso che l’omosessualità di Pasolini si sia costruita in rapporto alla morte del fratello, quando lui ha cominciato a capire che per sostituire il fratello doveva fare di sé un grande intellettuale, un poeta. Il poeta solitamente è uno che si ostina a non crescere e rimane un ragazzo.

E Naldini invitò la mamma ad andare sul terrazzo a prendere aria.
Vorrei riprendere il discorso sul fascismo nel senso che Pasolini non ne ha mai parlato, perché lo ha vissuto in prima persona. Ma non il fascismo politico o in chiave politica, ma proprio il fascismo che si tocca con mano, quando uno è diverso dall’altro. Quel fascismo che uno vive addosso, ad esempio a Casarsa, quando viene denunciato la prima volta e la seconda volta negli anni Sessanta quando rilascia la famosa intervista a Sabaudia, dove dice che il vero fascismo non era quello di Mussolini, era bensì quello degli anni Sessanta, del nuovo potere che aveva distrutto quella civiltà contadina, arcaica, dalla quale lui proveniva.

Qui ritorna l’immagine del sentiero che lui attraversa, che lui ha quasi come immagine costante di fronte a sé. Tant’è vero che il suo sguardo è sempre periferico e da questo scopre immediatamente “il Palazzo” e inventa quella bellissima metafora usata dalla stampa quotidiana.

Questa visione, questo sguardo periferico (una volta da Casarsa verso il centro di Roma, una volta dalla periferia romana verso in centro storico di Roma, poi dall’Africa verso l’Europa) gli permetterà di fare una serie di osservazioni critiche rispetto alla storia del nostro Paese, così come alla cultura, come noi l’abbiamo vissuta in questi ultimi quarant’anni. Cioè, una cultura sia di destra, ma più ancora di sinistra, piuttosto conformista; una cultura che non è capace di rompere in maniera netta con il passato o anche con quelle abitudini piccolo-borghesi nelle quali siamo cresciuti.

Ciò permette a Pasolini di sviluppare quello che Pasquale Misuraca definiva prima “un occhio diverso”. Cioè, quell’occhio da antropologo, al punto tale che, se noi andiamo a vedere tutti i film di Pasolini togliendo il sonoro e le battute, otteniamo una storia d’Italia attraverso le facce. Possiamo ottenere una storia d’Italia dagli anni Sessanta fino al ‘75: il suo cambiamento, la sua trasformazione, soltanto attraverso lo sguardo di Pasolini senza dialoghi, musiche, ecc. Con questo voglio dire che è stato un testimone, un antropologo talmente presente che si ha quasi l’impressione che lui, quando fa cinema impressioni la pellicola con qualcosa che aveva in testa fin dall’inizio. Questa, secondo me, è la visione di un poeta che non ha mai voluto crescere, come sosteneva Misuraca, è un poeta che vuole essere innocente e ritrova l’innocenza, in ogni gesto e in ogni atto che compie.

L’ultima cosa che vorrei sottolineare è la radicalità di Pasolini. Quella radicalità che pochissimi intellettuali italiani hanno avuto, perché hanno sempre delegato il loro essere poeti, scrittori e intellettuali, ad un partito (come diceva Zavattini, erano “organici ad un partito”). Questa definizione che io ho sempre trovato ridicola, “essere organici ad un partito”, non era lottare o scrivere in prima persona, cosa che invece ritrovavo nelle mie esperienze, conoscenze in Europa. Non ho mai conosciuto intellettuali che delegassero se stessi, il proprio pensiero ad un partito! Potevano collaborarci, ma delegare o essere omologhi ad un partito mi sembrava un po’ impossibile.

La radicalità di Pasolini ha fatto sì che lui fosse l’unico intellettuale in Italia, scrittore, cineasta, poeta, che facesse scandalo per qualsiasi cosa scrivesse. E faceva ancor più scandalo nel campo della sinistra. Questo atteggiamento deve far riflettere, perché credo che il compito di un poeta o di un intellettuale non sia quello di scoprire l’omosessualità o di parlarne o di scoprire il femminismo.

La questione è un’altra: se Pasolini non ha capito o non ha potuto affrontare il problema del femminismo, aveva invece capito bene quello che era l’universo delle madri: aveva capito benissimo la repressione che proveniva dal mondo delle madri stesse, quando in una poesia drammatica dice rivolgendosi alla madre: “è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”. Io penso che già da questi versi si potrebbe spiegare qualcosa del movimento femminista in questo Paese.

La radicalità di Pasolini ha fatto sì che più che disperato, fosse solo. Tant’è vero che un’altra poesia dice: “bisogna avere buone gambe” per affrontare il proprio essere soli in mezzo al mondo.

Quella solitudine che alla fine lo porta ad Ostia è preceduta da un’altra consapevolezza di Pasolini, quando dice che la morte non consiste nel fatto di non poter più comunicare, ma nel non poter più essere così compresi. Quella non comprensione che Pasolini ha vissuto non soltanto nell’ultimo periodo della sua esistenza, ma io penso in tutti i trent’anni in cui lui ha agito e vissuto.


[Intevento tratto dagli atti del Convegno tenutosi a Bologna nel dicembre 1995 per iniziativa dell’Istituto Gramsci, dell’Associazione “In forma di parole”, dell’Associazione “La casa dei Pensieri” e della Cineteca comunale di Bologna. Gli atti sono stati pubblicati a cura di Davide Ferrari e Gianni Scalia nel volume Pasolini e Bologna, Edizioni Pendragon, Bologna, 1998. Fonte: http://www.pasolini.net/notizie_morteBarnaboMicheli.htm]