philosophy and social criticism

Armand&Antoinette, un amore politico: “La duchessa di Langeais” di Jacques Rivette

Giulia Zoppi

La duchessa di Langeais

Titolo originale: Ne touchez pas la hache

Regia: Jacques Rivette

Sceneggiatura: Jacques Rivette, Christine Laurent, Pascal Bonitzer dal racconto La duchessa di Langeais di Honoré de Balzac

Fotografia: William Lubtchansky

Montaggio: Nicole Lubtchansky

Scenografia: Emmanuel de Chauvigny

Costumi: Maira Ramedhan Lévy
Musica originale:Pierre Allio

Interpreti: Jeanne Balibar, Guillaume Depardieu, Michel Piccoli, Bulle Ogier, Remo Girone, Barbet Schroeder
Produzione:Martine Marignac, Maurice Tinchant, Elisabetta Olmi

Distribuzione:  Mikado

Origine: Francia, Italia

Anno: 2007

Durata: 137′

Chi dipinge sulla base di un progetto fa una pittura piatta. Bisogna uccidere un pò alla volta le idee che si sono avute.  Jean Paulhan

Un film, secondo Rohmer, doveva assomigliare a un romanzo di Balzac dove il rapporto più importante è quello tra i personaggi e l’ambiente in cui si muovono. E’ stata questa affermazione a spingermi a venire a Parigi per conoscerlo, cosa effettivamente avvenuta la sera stessa in cui sono arrivato, ma per caso.                                              Jacques Rivette

Il Romanzo

La duchessa di Langeais, secondo dei tre romanzi dedicati all’esoterica associazione criminale di mutuo soccorso definita dal numero dei suoi componenti, i Tredici (i rimanenti due sono Ferragus e La fanciulla dagli occhi d’oro), fu concepito in un momento particolarmente delicato nella vita di Balzac. Egli infatti stava attraversando, non senza amarezza, una delusione sentimentale e una delusione politica.

Dietro il nome della protagonista del romanzo, Antoinette, duchessa di Navarreins, si suppone si nascondesse una giovane aristocratica molto conosciuta nell’Europa della Restaurazione: Claire- Clémence-Henriette de Maillé de la Tour-Landry, discendente dagli Stuart, di tre anni più grande di Balzac. Ella nel 1816 aveva sposato Edmond de la Croix, marchese di Castries, ma come tutte le nobildonne dell’epoca, non disdegnava affatto la corte di aristocratici e di uomini di potere, tra cui lo scrittore, già conosciutissimo e alla moda.

Uomo di mondo ed intellettuale ambizioso Balzac, sensibile come era ai lussi araldici, divenne assiduo frequentatore dei salotti più ambìti, dove spesso si intratteneva con lo zio della nobildonna, il duca de Fitz James, tra i fondatori del partito legittimista. Questa prestigiosa amicizia, corroborata da una passione amorosa per l’affascinante donna, avevano instillato in lui, la convinzione che presto avrebbe conquistato una visibilità politica e l’apprezzamento del prestigioso faubourg Saint-Germain.

Balzac prese coscienza della reale impossibilità di veder realizzati i suoi sogni di potere, quando capì che gli avvertimenti di Mme de Berny sull’inevitabile rifiuto di accoglierlo come pari, da parte dell’aristocrazia parigina, erano sinceri, quanto l’incapacità della marchesa de Castries (da notare che, nel romanzo di Balzac, la nostra protagonista assume il titolo di marchesa e di duchessa indifferentemente, a seconda che la si descriva nubile o maritata. Nel primo caso la signora in questione è duchessa, in quanto discendente da un duca, e marchesa, quando la si riferisce coniugata al marchese di Castries) di cedere definitivamente all’amore.

Ella infatti non disdegnava la sua compagnia, si faceva accompagnare ora qui ora là, ma sempre, si dice, negando ogni intimità, ogni aperto avvicinamento. Quando la duchessa pareva abbandonarsi ad una maggior confidenza, e il gioco sembrava fatto, si negava, intrattenendo con il suo corteggiatore, un intrigante gioco di cedimenti e di fughe, degni di un grande romanzo. La loro relazione sembrava dunque incarnare alla perfezione quel femminile altamente desiderabile e spocchioso che Balzac seppe trasportare, non senza una punta di acida misoginia, nel romanzo di cui scriverà più tardi, con lo scopo, probabilmente, di vendicarsi.

La signora Langeais imparò, ancora giovane, che una donna poteva lasciarsi amare ostensibilmente senza rendersi complice della passione, senza approvarla e senza ricompensarla se non con le più magre rendite dell’amore; e parecchie false ingenue le rivelarono i mezzi per queste commedie pericolose. La duchessa ebbe perciò la sua corte e la quantità dei suoi adoratori e corteggiatori fu una garanzia della sua virtù; ella era civetta, divertente, seducente sino alla fine della festa, del ballo, della serata; poi, calato il sipario, si ritrovava sola, fredda, apatica, pronta però a rivivere il giorno dopo per altre emozioni altrettanto superficiali. V’erano due o tre giovani completamente presi di lei, che l’amavano sul serio e di cui ella si prendeva giuoco con perfetta insensibilità. Diceva a se stessa: “sono amata, egli mi ama!” e questa certezza le bastava. Come l’avaro contento di sapere che i suoi capricci possono essere soddisfatti, ella non giungeva neppure più al desiderio (p. 157). [1]

Il Film

L’adattamento cinematografico compiuto da Jacques Rivette, fedele al romanzo come mai prima (pur avendo citato l’opera dello scrittore già altre due volte in precedenza nei film Out 1 del 1970 con un inedito Rohmer nei panni di uno studioso di Balzac e, nel 1990 nell’adattamento del testo Le Chef d’Oeuvre Inconnu, in italiano Il capolavoro ritrovato, ovvero il film La Belle Noiseuse), è uno dei rari casi di traduzione cinematografica, di assoluto pregio e di valore poetico indiscutibile, per autonomia di espressione e completezza, come non capita spesso di vedere sugli schermi.

L’operazione di traduzione quasi letterale che il cineasta francese adotta in questo caso, assume un tono che appare come una vera e propria dichiarazione di poetica. Sollecitato a spiegare su come egli abbia affrontato la traduzione da opera letteraria ad opera cinematografica, Rivette dichiara, in un’intervista rilasciata a Radio France, che il lavoro di scrittura affrontato in collaborazione con Pascal Bonitzer, si è regolata su un principio che risultasse fedele:

non seulement à l’esprit mais également à la lettredès le départ, ce qui nous intéressait, même si cela peut paraître chimérique, était de transposer en termes cinématographiques l’écriture de Balzac. Cette écriture joue sur des forces contradictoires, qui génèrent comme un système d’explosion contenue : les longues phrases coupées par des incidentes, les changements de vitesse surprenants, cette façon de dire presque en passant les choses les plus importantes…Voilà pourquoi il faut effectivement lire Balzac mot à mot. C’est une écriture à trois dimensions. [2]

Rimanendo coerente ad uno stile che privilegia il teatro inteso come trasposizione “artificiale” di una realtà geometricamente descritta ma attraversata da continui tradimenti, anche questa volta Rivette, attratto dal confronto serrato tra amore, religione e Storia, si appoggia alla vicenda balzachiana spremendola nei minimi dettagli (con un’accurata scelta dei costumi, della scenografia e del linguaggio dell’epoca), restituendola forte di una modernità e di una segreta e beffarda ironia, in linea col miglior Balzac.

Campo di battaglia del serrato scontro tra la duchessa Antoinette e il generale Armand de Montriveau, come si diceva, è la Parigi del 1818, o meglio la Parigi dei salotti del faubourg Saint-Germain, che vide nascere e morire la passione folgorante e distruttiva tra una donna appartenente alla migliore aristocrazia cittadina e l’avventuroso e ambiguo militare, entro le mura asfittiche e composte della dimora di lei, quando non in qualche salotto del bel mondo.

Il film inizia in campo aperto, tra l’ abbagliante chiarore di un cielo azzurro e l’increspatura di un mare profondo. Tra la linea divisoria a fare da orizzonte infinito, debolmente spruzzato da un accenno di nuvole e dal passaggio dei gabbiani, si staglia in lontananza un edificio bianco, solenne e austero, irto tra le rocce. Siamo nel 1823, a Cadice.

In una città spagnola situata in un isola del Mediterraneo c’è un convento di carmelitane Scalze nel quale la regola dell’Ordine fondato da Santa Teresa viene osservato con tutto l’originario rigore della riforma compiuta da quella illustre donna: cosa che, per quanto straordinaria possa apparire, è nondimeno vera. (p.125)

La concomitanza con la spedizione di Cadice non è casuale, anche il generale Armand de Montriveau si aggira da quelle parti, ansiosamente. Non sappiamo perchè, ma il suo incedere incerto, segnato dall’evidente (e reale) zoppia di Guillaume Depardieu (un Armand torvo, cupo e perennemente trattenuto in un senso di continua frustrazione esistenziale… in poche parole, magnifico) tradisce un senso di inquietudine che mal si accorda con l’atmosfera tersa e pacificata del luogo. Nel varcare la soglia di una piccola cappella barocca, durante la messa, l’uomo è accigliato, teso. Ritornerà in quell’alveo scuro e benedetto poco più tardi, dopo che l’ascolto del Te Deum, lo ha certamente turbato e indotto ad uscire.

Dietro una grata, nella cappella del convento e su richiesta dell’interessato, il giorno seguente appariranno finalmente due monache, Suor Teresa e la Madre Superiora.

Se all’aria aperta il generale riesce ad assumere un’autenticità documentaria che aggiunge alla sua azione un tono di realismo, nel chiuso degli ambienti invece, la sua presenza appare sempre circoscritta entro limiti gestuali dal tono drammaturgico molto ripetitivo, costruiti come nella migliore mise en abîme. La messinscena lo getta improvvisamente entro un punto di non ritorno, nell’antro segreto dell’indecifrabile mondo balzachiano dei rapporti umani…

Le due religiose poste dietro alla grata e in posizione leggermente rialzata, osservano il generale che, seppur libero di andarsene, pare invece ingabbiato, sequestrato.

Suor Teresa è dunque la sua amatissima Antoinette. Ella tradisce la madre Superiora con una menzogna e lo presenta come il fratello, ma quando tra i due si consuma un dialogo amoroso tra i più disperati e melodrammatici, la nobildonna sin troppo emozionata dall’insperato incontro con l’amore perduto, soffoca in un dolore troppo prepotente e svela la verità. Quell’uomo è il suo amante; e, indegna per aver mentito, ancora una volta si sottrae all’incontro.

Cinque anni prima

La sottile Mme de Castries, moglie del marchese de Langeais, anche questa sera partecipa ad una festa da ballo. Elegantemente abbigliata secondo i dettami dell’epoca e orgogliosamente sola, come spesso avviene alle aristocratiche del faubourg Saint-Germaine, donne indipendenti e civettuole, butta uno sguardo veloce verso i convenuti.

Probabilmente è un ritrovo tra amici, dal momento che basta un solo sguardo al salone da ballo, per incrociare in breve tempo lo sguardo intenso e sconosciuto di un uomo in abiti militari, l’unico volto interessante tra presenze ormai scontate.

Una donna come lei, quando avesse voluto smettere i panni della creatura più ammirata, al braccio di quel corteggiatore o di quell’altro che fosse, poteva interessarsi solo ed esclusivamente a colui che, per ragioni imprescrutabili, attirasse l’attenzione di tutta la buona società.

Da diciotto mesi la duchessa di Langeais viveva questa vita vuota, dedicata completamente ai balli, alle visite fatte in occasioni dei balli, a vani trionfi ed effimere passioni, nate e morte in una serata…Al suo arrivo in un salone raccoglieva gli sguardi di tutti, mieteva lusinghe ed espressioni ardenti, incoraggiate da un suo gesto o da un suo sguardo, ma che restavano a fior di pelle. In lei tono e modi erano autoritari; e viveva così in una specie di febbre di vanità, di gioia perpetua che la stordiva. (p. 157)

Antoinette, appresa l’identità dello straniero, con eleganza e perentoria sicurezza nel difendere la sua integrità di donna risoluta, dolce e sorridente, attraversa il salone e sotto gli occhi di tutti, mostra al consesso la sua prossima preda, affermando un diritto di prelazione che la terrà al sicuro da possibili ingerenze femminili prossime venture.

L’azione, divisa in quadri e realizzata allo scopo di incorniciare il racconto in paragrafi di commento (di sapore metacritico) da questo momento, prevederà l’alternarsi di scene tra cui compaiono Antoinette e Armand, Antoinette da sola o in compagnia della servitù, Armand in solitaria attesa di incontrare la sua amata, sempre ed esclusivamente entro le mura decorate di palazzi patrizi e l’abitazione della duchessa. Ambienti ricostruiti come se fossero scenografie teatrali.

Se lo spazio è circoscritto entro ambienti uguali e di modesta grandezza (nonostante si tratti di abitazioni aristocratiche, come ampiamente detto), la durata del confronto tra Antoinette e Armand si dilata in attese quasi interminabili e mai conclusive. Si potrebbe ritenere che, la fissità degli ambienti eguagli la fissità dell’azione, proprio a decretare che, quanto si sta segretamente consumando tra i due personaggi, attenga più ad una serrata battaglia psicologica che ad un vero e proprio corteggiamento scandito da inevitabili passaggi rituali quali: approccio, timida confidenza e infine, intimità.

Pare strano anche ad una sensibilità contemporanea come la nostra, accettare la velocità con la quale Antoinette la sera stessa in cui conosce Armand, si spinga a darle un appuntamento per la sera successiva, direttamente a casa sua e non in un giardino o in un salotto parigino aperto all’aristocrazia. Ed anche qui, con precisione cartesiana, veniamo a sapere che da quel giorno in poi i due si vedranno ogni sera alle 8.00 o al più tardi alle 10.00, senza discontinuità.

Il primo incontro del resto, mostra una volta per sempre, movenze e abitudini che vedremo ripetersi ad ogni appuntamento e che si riassumono in pochi e precisi gesti:

Armand che attende di essere ricevuto dalla duchessa, agitandosi nell’andìto della casa camminando in su e in giù nervosamente, con passo marziale.

Antoinette che dopo essersi accuratamente pettinata e truccata, aver controllato il vestito, si pone sdraiata su una dormeuse, cala sul volto un velo e si sistema, attenta ad assumere un’espressione e un tono degni della sua personalità e del suo ruolo.

Armand e Antoinette che seduti vicini o prossimi ad un abbraccio, parlano, affrontando discussioni ora ispirate alle gesta militari del generale e ai suoi innumerevoli successi in battaglia, ora all’amore che Armand nutre per lei (sentimento che dichiara al loro primo incontro, senza nessun preambolo), suscitando nella signora un sistematico pudore nell’accettare la passione di un uomo che non è il marito, furbescamente celato da una disponibilità al gioco delle parti che non cessa di provocare in Rivette, e in noi con lui, un certo sorriso di scherno.

Il pianoforte, la religione e il gotico

Se la Storia consegna ai posteri, in larga misura, una visione macroscopica del suo fluire, nel contesto di questa vicenda e non banalmente, occorre dare un’occhiata alle minuzie, foriere anch’esse di verità interessanti all’interpretazione di un periodo, con lo scopo di comprenderlo meglio. Lungo la Restaurazione, momento buio per l’aristocrazia francese, ormai chiusa in se stessa e incapace di migliorarsi (Balzac insiste su questo punto) poteva anche succedere che strumenti come il violino e l’arpa fossero messi al bando per le nobildonne dell’epoca, in quanto giudicati indecenti alla morale repressiva in vigore. Si suppone che fossero ritenuti tali per un motivo semplice e sorprendente (per noi): tali strumenti necessitano di assumere posture “scandalose”. L’arpa, perché lo strumento deve stare lievemente tra le ginocchia per essere suonato, il violino perché le braccia si alzano verso l’alto per solleticare le corde…Antoinette, suona il pianoforte, uno strumento accettato dalla buona società, e lo fa sia per l’esecuzioni di brani religiosi che per l’ intrattenimento (per ragioni di ordine strettamente personale, Balzac dedica questo racconto al grande pianista e compositore Franz Listz). Il pianoforte ha una precisa funzione sociale: saperlo suonare rivela il possesso di doti estetiche oltre alla buona educazione ricevuta e rientra, in ambito borghese, in una precisa strategia matrimoniale. Tuttavia c’è un legame più misterioso tra lo stesso e il mondo femminile. Esso è in realtà ritenuto anche una sorta di “haschish delle donne”, uno strumento che evoca la pratica masturbatoria e favorisce l’espressione di energie represse e censurate che invece Antoinette continua a soffocare.

Tra le scuse che Antoinette accampa nel tentativo arduo di respingere gli assalti passionali di Armand, ve n’è una di ordine religioso. Un donna il cui marito è fuori casa, timorata di Dio, come si conviene alle signore di rango, deve essere devota e pia. Sia nella preghiera, che nella condotta pudica e controllata. Armand dal canto suo, desideroso solo di possedere il corpo dell’amata, appropriandosene via via sempre e solo “a piccoli pezzi”, con il baciamano, il bacio sul collo, quello sulla fronte, comincia a dare segni di insofferenza e, una sera, mancando all’appuntamento del ballo, la fa rapire dai misteriosi Tredici.

L’elemento gotico presente in tutto il film (basti pensare al titolo originale dell’opera: Ne touchez pas la hache, monito pronunciato da Armand ad Antoinette – relativo ad un aneddoto che vuole che il custode di Westminster pronunciasse questa frase a chi volesse avvicinarsi alla scure che aveva decapitato Carlo I – lanciando in verità, un ambiguo avvertimento alla riottosa amante, con lo sguardo rivolto al suo esile collo) e che prevarica sul sentimentale e il romantico, in questo punto si fa prepotente e in una certa misura necessario, come uno disvelamento improvviso ed eclatante. Non solo il gioco d’amore tra i due non è il semplice contraddittorio tra amanti soddisfatti e goduriosi, ma si palesa in tutta la sua forza mortifera e oscura. Se da un lato la passione di Armand nell’inibirsi giorno dopo giorno, incrementa in lui un accresciuto sentimento di possesso al limite del cannibalismo (il suo solo scopo è quello di possedere ciò che Antoinette continua a negargli, ovvero il corpo), in Antoinette risveglia e rafforza, per educazione e per esaurimento, un sentimento di rassegnato cedimento, di resa incondizionata al sacrificio definitivo.

La scena in cui il generale impugna un ferro incandescente con lo scopo di marchiare a fuoco la fronte della donna, infatti, decreta la fine di una lunga battaglia e il compimento di un desiderio che nel palesarsi, perde ogni suo significato…non a caso, quando la duchessa in ginocchio accetta questo gesto estremo dichiarando tutto il suo amore, riconoscendogli finalmente tutto il potere che merita, Armand cambia idea. Non solo non la marchierà a fuoco, ma la restituirà alla buona società intonsa e sola, abbandonata. Un corpo inerte e inetto, senza valore (da notare come la perfezione del tocco rivettiano riesca a controllare la materia incandescente di questo passaggio, senza cedere nel patetico, tenendo fermo un rigore formale ed espressivo privo di sbavature, come nel suo miglior cinema). Questo risultato è tanto vero quanto sottile, se pensiamo ad Antoinette che rientra nel salone da ballo, nella casa di amici, dopo l’episodio sconvolgente. L’unico gesto che le preme è trovare uno specchio per risistemarsi i capelli e riacquistare un decoroso sorriso.

Epilogo

Da quella notte in poi i tentativi da parte di Antoinette di riconquistare Armand non avranno più alcun esito. Il generale, nello scomparire dalla corte della nobildonna, gettandola nella più nera disperazione, ha forse ottenuto ciò che da sempre desidera: una vendetta crudele e senza sconti su tutti i piani, quello sentimentale e quello politico.

Politicamente Armand ottiene che la duchessa, smessa qualsiasi remora di classe, compia degli atti decisamente spudorati per la sua condizione e il suo rango, esponendosi di fronte al faubourg in tutta la sua nuda disperazione (lasciando che la sua carrozza resti di fronte alla casa di Armand per un’intera notte a far intendere che abbia trascorso la notte dal generale; coinvolgendo membri della sua prestigiosa casata nell’aiutarla a recapitare una mole considerevole di lettere, che scoprirà più tardi non essere mai state lette…), incurante del benché minimo giudizio.

Sul piano sentimentale invece, Armand, rompendo ogni rituale di corteggiamento, spezza una promessa d’amore, gettando discredito su quanto di più prezioso una signora della buona aristocrazia può donare: un cuore puro e un corpo inviolato.

Se la rottura di una promessa decreta la fine di un amore, un’altra rottura, questa volta sul piano formale, la seppellirà per sempre, incrinando quella consuetudine di gesti e di abitudini che, scanditi dal tempo, regnavano su questo rapporto.

Solo un destino cinico e baro, al servizio di un ordine occulto e misterioso, infatti, frapponendosi tra le pene di Antoinette e il parziale cedimento di Armand (probabilmente pentitosi da tanta crudeltà) pone la parola definitiva all’intreccio e incrina la possibilità di un ricongiungimento. D’accordo con Rivette nel dichiarare che se il cinema non toglie alla certezza di una storia, l’incertezza della realtà, fallisce…così l’ultimo tentativo della duchessa di rivederlo durante un appuntamento notturno di fronte alla dimora di lui, viene deluso a causa di una banalità fatale. L’orologio del generale si rompe e con questo piccolo incidente Armand, finirà col mancare all’importante appuntamento, cambiando in modo definitivo il corso della vicenda.

Il corpo gettato

Cinque anni dopo quel famoso 1818, Armand sbarca a Cadice per ripristinare il dominio di Ferdinando VII in Spagna. Fatalità vuole, come già abbiamo saputo, che su quel lembo di terra Antoinette abbia preso i voti per far parte dell’ordine delle Carmelitane Scalze, monache di clausura.

Dopo il fallimento del loro primo incontro Armand decide di rapirla e quindi di far ritorno sulle coste spagnole a bordo di un’imbarcazione governata dai Tredici.

A nulla valgono le strategie di rapimento, Suor Teresa giace morta, adagiata sul pavimento di una cella del convento. Nel volto già sofferente di Armand compaiono le lacrime, ma la decisione di appropriarsi del corpo, metterlo in coperta e infine gettarlo in mare, stranamente, allevia la sua disperazione.

Eliminato il corpo della donna amata, la vita riprende a scorrere. Rivette chiude sull’infinito del mare, che trapassa la sagoma imperturbabile di Armand.

Balzac invece aggiunge beffardo:

«…non c’è che l’ultimo amore di una donna che soddisfi il primo amore di un uomo».

Note

[1] Le citazioni sono tratte da: Honoré De Balzac, La duchessa di Langeais, in Id., La storia dei Tredici, traduzione a cura di Alessandro Prompolini, Sansoni, Firenze 1965.

[2]  Non solo allo spirito, ma anche alla lettera… fin dall’inizio, ciò che ci interessava, anche se può sembrare illusorio, era trasporre, in termini cinematografici, la scrittura di Balzac. Questa scrittura sfrutta forze contraddittorie, che generano una specie di continua esplosione: frasi lunghe, interrotte da proposizioni incidentali, sorprendenti cambiamenti di velocità, questo modo di dire quasi “en passant” le cose più importanti… Ecco perché Balzac va effettivamente letto parola per parola. Si tratta di una scrittura tridimensionale.

Lascia un commento