philosophy and social criticism

Artaud, il teatro e il mondo Intervista con Sylvère Lotringer

Mauro Pala

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Sylvère Lotringer (photo t ysm)

Sylvére Lotringer, allievo di Roland Barthes, amico di Deleuze e Guattari, insegna letteratura francese e comparata alla Columbia University di New York. Universalmente considerato uno fra i più autorevoli studiosi dell’opera di Artaud e del teatro d’avanguardia del ventesimo secolo, ha curato e tradotto lavori di Bataille, Baudrillard, Virilio e Kristeva. Lo abbiamo incontrato a Cagliari, dove ha tenuto un ciclo di lezioni all’Università e una conferenza al Teatro Alkestis.

Mi pare che le sue riflessioni su Artaud possono dare luogo a intuizioni o suggestioni su temi molto vasti. La prima di queste riguarda la possibilità di un teatro impegnato. Si può avere oggi un teatro impegnato?

Beh, Artaud era sicuramente impegnato… nel senso del silenzio. In un mondo come quello contemporaneo dominato dal sistema capitalistico e dunque non dalla ragione, ma dalla follia, noi tutti, in un certo senso, siamo costretti al silenzio. Il modo in cui Artaud crea un teatro impegnato nasce in primo luogo dalla sua scelta di creare uno spazio sicuro, separato dall’esterno, un sito che risulta totalmente inaccessibile alle spinte che arrivano dall’esterno. In questo vuoto il pubblico dovrebbe assistere a una serie di eventi che potrebbero impressionare e aprire le menti degli spettatori, in senso positivo.

Tutto ciò va, mi pare, in una direzione analoga a quella tracciata da Adorno, per il quale, dopo Auschwitz non c’è alcuna possibilità per l’arte e l’unica opzione praticabile resta il silenzio.

Sì, per quanto si tratti di un silenzio di diversa natura. Il silenzio è, in primo luogo il silenzio di chi durante tutto il periodo nazista non volle sentire, e al quale fa seguito il silenzio di quanti, più tardi, non erano in grado di esprimere la mostruosità dei campi, e in questo caso c’è una chiara affinità con Artaud. Tuttavia, la differenza fra i due tipi di silenzio risiede nel fatto che Artaud voleva creare un teatro religioso, un teatro pregno di simboli, ma senza religione. Un teatro radicato in una tradizione che noi potremmo anche disconoscere, ma dove si tratta di seguire comunque delle regole inflessibili. Il termine crudeltà si riferisce al fatto che tutto era calcolato per le azioni degli attori, non esisteva una via d’uscita, e questo tipo di teatro si caratterizzava per una sorta di elemento fatale e ineluttabile. Per questi aspetti il teatro di Artaud ricorda la disciplina interna dei campi, dove tutto era regolato, inflessibile, dove regnava l’irrazionale in una veste razionale e l’esito ultimo era la morte. Da questo punto di vista si può affermare che il teatro di Artaud costituisce un’anticipazione dei campi di sterminio.

La differenza fondamentale risiede nel fatto che il teatro di Artaud acuisce la consapevolezza, magari di una vita dominata dalla morte, ma in un senso positivo; si tratta cioè sempre e comunque di un teatro con uno scopo curativo, mentre per ciò che riguarda i campi, beh, la crudeltà viene esercitata senza uno scopo costruttivo, era gratuita, finalizzata esclusivamente a degradare l’individuo. Con lo strumento dell’abîme, Artaud sta cercando di mettere in guardia l’umanità del suo essere umana, troppo umana, mentre i campi puntano a qualcosa di completamente inumano. Gli individui che erano sottoposti alla regola del campo erano degradati, ridotti a creature, oggetti. Ciò non significa dunque che non esistano dei punti di contatto tra i campi e il teatro della crudeltà, ma il senso era completamente diverso. Artaud stava cercando di creare qualcosa con i mezzi a sua disposizione, facendo affidamento su una tradizione della sofferenza che aveva ereditato dalla Cristianità. Cercò dunque di creare un laboratorio della sofferenza che avrebbe avuto un effetto di redenzione. Anche nei campi abbiamo qualcosa di simile a un laboratorio ma sarebbe ingiusto anche solo cercare un’analogia perché non abbiamo a che fare con vittime sacrali ma piuttosto ciò che i campi mettono in atto, con il gesto imperativo fascista, è ciò che Bataille definisce come abiezione. Bataille, nel suo studio sulla psicologia del fascismo, è tra i primi a cogliere la componente sadica nell’ideologia fascista, totalmente priva però della componente di piacere.

Questo scopo di redenzione del teatro di Artaud mi fa pensare a Wilhelm Reich. Il piacere come energia liberatrice cui l’individuo tende naturalmente.

Non esattamente, perché nel caso di Artaud c’è paura piuttosto che piacere. Nel suo caso dobbiamo pensare piuttosto a una forma di terrore sacro.

Pensa, sotto questo aspetto, che possa essere in relazione a Girard e alla sua teoria della violenza sacra?

Sì, anche in questo caso ci sono analogie, nel senso che anche per Girard esiste una vittima sacrificale, e dunque un ente capace di operare tale redenzione, ma la differenza rispetto ad Artaud consiste nel fatto che quest’ultimo, diversamente dagli antropologi, non riconosceva un dio capace di operare una redenzione. Artaud esclude quel livello: egli presupponeva piuttosto una forma di esistenza metafisica, che si inverava simbolicamente attraverso il teatro, capace di riproporre una forma di esistenza perduta una volta che la cultura aveva divorziato dalla vita, e da qualsiasi altro fattore che la potesse rendere vitale. A proposito del piacere, vorrei aggiungere che Artaud non presenta alcun legame con il piacere né con la sessualità, visto che egli aveva anzi una reazione di orrore dinanzi alla sessualità, ritenendo che Dio avesse attribuito all’uomo la sessualità per soggiogarlo, per sottoporlo a una forma di controllo. Creando un insieme di bisogni che si traducono, in ultima istanza, in un degrado. Sotto questo aspetto egli era più di un Cristiano, era un Cristiano integralista. Tornando proprio alla logica di piacere e ai campi di sterminio, i nazisti che gestivano i campi erano in un certo senso dei sacerdoti di morte, erano addestrati a non provare nulla. Distacco totale, mancanza assoluta di piacere. Per questo motivo Bataille descrive il gesto di abiezione in un modo tale che molti non hanno colto: quando infatti il gesto imperativo del nazista è diretto a uomini che non possono difendersi e vengono assimilati a oggetti, è il gesto stesso ciò che crea l’abiezione. Ma la trasformazione delle persone in oggetti, in qualcosa di inumano, è il contrario di ciò che Artaud mette in atto, perché egli vuole che le persone siano in-umane in quanto sono troppo umane. In questo caso c’è un’identificazione con la vittima sulla quale si esercita la violenza, mentre per i nazisti non c’è nulla che assomigli a questa identificazione, essi sono dei semplici esecutori. Ciò corrisponde a quanto sostengono Bataille e Deleuze, secondo i quali esistono due tipi di sadici: c’è infatti un sadico che pratica il sadomasochismo per il quale l’obiettivo è trattenere ogni tipo di sentimento in modo tale da mettere in atto con la massima esattezza ciò che è necessario che entrambi provino; in questo caso la vittima non è una vera vittima, nel senso che è in controllo e ciò che viene testato è il sadico, che viene sfidato dal masochista a eseguire ciò che deve nel modo giusto. Se non è all’altezza del compito, il suo potere svanisce. Il suo potere dunque dipende esclusivamente dalla vittima. Nel caso dei campi, non c’è nulla di tutto questo perché non c’è alcun riconoscimento nei confronti delle vittime. Per cui, più in generale negli anni Trenta assistiamo ad un fenomeno di “Cristiani estremi” che arrivarono a uccidere Dio per conservare la religione. Artaud, Bataille, Simone Weil, per certi versi Céline erano dei Cristiani integrali e mi limito qui alla Francia. Pensavano che qualcosa stesse succedendo alla cultura, riflettevano su un evento che la cultura non aveva ancora assimilato, la morte di Dio, e cercavano di operare in questa nuova condizione. Anche il fascismo si sviluppa in circostanze analoghe: si tratta infatti di un movimento che si diparte dal Cristianesimo e cerca di giustificare la superiorità di una razza nell’ambito del genere umano: nessuna forma di identificazione con l’Altro, ma anzi una presa di distanze.

Può questo giustificare le manifestazioni di destra di una parte della cultura del tempo, come avviene nel caso di Céline?

Céline non era un fascista e non era neanche di destra. Céline era un anarchico, e anche un nazionalista, in mancanza d’altro. Come i nazionalisti del suo tempo, temeva per la razza francese e ne osservava il declino, il progressivo deterioramento, attribuendo la colpa di ciò agli Ebrei. Fece degli Ebrei dei capri espiatori e sotto questo aspetto anch’egli resta nella sfera della cultura cristiana. Come dottore si sacrificava per i suoi pazienti e ricompare in questo caso una compassione, che egli esercitava verso gli umili, le donne, gli animali e più in generale nei confronti di tutto ciò che a suo parere resta immune dalle brutture del presente. Al proposito, quando Céline visitò una fabbrica fordista nel 1933 o nel 1934 e vide come erano trattati gli operai, ebbe la stessa reazione di Artaud: questi individui – si disse – non sono umani: come nel teatro balinese, obbediscono agli stessi gesti, ripetono gli stessi movimenti programmati. Dinanzi all’inumanità della macchina, Céline ritenne che potessero trovarsi scimmie, persone intellettualmente handicappate, schiavi, e questo non avrebbe fatto alcuna differenza. La macchina, in ogni caso, li avrebbe trasformati in qualcosa di simile a se stessa. Quando si valuta l’opera di questa generazione di autori, bisogna considerare che aspiravano chiaramente a qualcosa che ancora doveva venire. Non solo: scrivevano tutti nel segno di una percezione diffusa degli anni Trenta, anni di esasperato nazionalismo e di isteria accentuata dalla crisi economica, anni in cui si percepiva che un grande evento apocalittico, una sorta di peste nera, si sarebbe potuto verificare di lì a poco e tutto questo creava attese. Tutti condividevano tale visione e in un certo senso ne erano addirittura attratti.

Ciò porta esattamente a una delle questioni che sono emerse dalla sua conferenza. Ciò che ha detto infatti circa la creazione di un evento – teatrale o non – e alla sua ricezione ruota intorno ad un più ampio quesito relativo all’esistenza di un agente storico, consapevole efficace e attivo. Si può parlare della possibilità di creare, o almeno influenzare, delle condizioni storiche, è realistico considerare che ci possa essere un intento comune e intorno ad esso si possa costituire una solidarietà finalizzata ad un’azione concertata?

Questa è in effetti una questione sociale attuale già ben prima degli anni Trenta e diagnosticata proprio dal fatto che sorge la necessità di costruire dei modelli sociali, come quelli elaborati da Durkheim. Ma proprio questa necessità segnala il fatto che nuove divisioni stavano emergendo e il concetto di società come insieme coeso e coerente era andato irrimediabilmente in crisi. Manifestazioni violente sempre più frequenti segnalavano questa crisi, cui Durkheim, i socialisti e altri cercavano di porre rimedio. Anche i fascisti intendevano reagire a quella che percepivano come una dissoluzione sociale cercando, anche se poi la loro soluzione sarebbe risultata mortifera, di suscitare entusiasmo, teso alla ricostituzione di un gruppo. La stessa idea di gruppo verso il quale bisogna tendere accomuna Artaud, Bataille, Simone Weil, e altri loro affini. Si tratta storicamente dell’ultimo tentativo di costituire un gruppo. In seguito si avrebbero avute soltanto idee come massa, società di massa o, al massimo, una società di consumatori.

Quando si colloca il punto di svolta? Forse con la scoperta degli apparati da parte di Althusser?

No, direi proprio di no. Quella di Althusser, molto più tardi, è una formula che spiega la sistematicità del sistema. Un modello esplicativo, niente di più. Ciò che volevano Artaud, Bataille, Simone Weil e gli altri loro contemporanei era un’unità di tipo organico, esattamente come i fascisti, e ciò in parte spiega la loro attrazione per il fascismo. Ma un simile anelito all’organico ha un duro prezzo: sangue, violenza, sacrificio. Lo sterminio di massa per i nazisti rientrava in questo calcolo. Per cui non mi piace la definizione che Blanchot fornisce di tale fenomeno come di una cesura epocale e radicale, nel senso che non mi piace l’idea che si possa fare del misticismo a partire da un massacro di massa. Non credo sia una cesura che segna un prima e un dopo della storia, non c’è alcuna fine della storia e, come abbiamo visto, non solo la storia va avanti ma la Shoah e lo sterminio sono stati strumentalizzati per scopi diversi. Il fatto che oggi se ne voglia trarre qualcosa di metafisico implica uno scarso rispetto per le vittime che così vengono sacrificate una seconda volta. I tragici fatti di quel periodo vennero percepiti in anticipo da Artaud e da quegli artisti oggi classificati come “high modernists”: C’è una eco nella loro opera di un oscuro presentimento, quello che nei nazisti si sarebbe tradotto in una ricerca per l’elemento ancestrale, in uno scavo oltre la storia. Nel loro caso, cercarono invece di fare del cristianesimo un baluardo contro la barbarie che avanzava senza rendersi conto che anche il cristianesimo ne faceva già parte.

Lei ha citato Ernst Jünger. Mi pare esistano similitudini fra Artaud e Jünger, quando entrambi cercano di costruire dei miti contro la modernità. Si tratta di un fenomeno legato a quegli anni, ovvero una reazione alla modernità o può essere considerato un’opzione praticabile ancora oggi?

Mi pare si tratti di un fenomeno strettamente connesso a quel clima storico. Si tratta di un mito dinamico, diverso dalla struttura che verrà teorizzata in seguito da Levi Strauss. Parliamo di miti che inducono all’azione, che devono contribuire alla nascita di una comunità o fare in modo che la società stessa continui a esistere. Possono anche essere dei miti funzionali rispetto alla coesione sociale richiesta da una società in cui il mito serve a perpetuare il controllo sui componenti di quella comunità, o di rinvigorire periodicamente il concetto di società, come in Durkheim. Sotto questo aspetto però Durkheim costruì la propria teoria su una nozione tipica della cultura ebraica per cui il sacrificio di sé era superfluo in quanto la società già esisteva e dunque occorreva soltanto attizzare la fiamma con celebrazioni periodiche. Non si rendeva conto che la società stava collassando. Era necessario invece fondere insieme le singole individualità e sotto questo aspetto Artaud e Simone Weil avevano invece capito che la violenza sarebbe divenuta un fattore decisivo.

Si tratta della stessa prospettiva che emerge in Kerényi o in Mircea Elide, ovvero, in termini antropologici, della possibilità di fare del mito una forma di redenzione sociale? Magari di un mito che ricompare nel situazionismo?

Il situazionismo? No, non hanno miti, se non quello della rivoluzione e lo stesso mito ricompare nel libro sull’impero di Negri, dove ancora è presente l’idea che si possa sopravanzare il capitalismo e creare una giustizia sociale che lo trascende.

E la possibilità di una resistenza?

Cosa si può intendere con resistenza? Resistenza al capitalismo? Ma con il capitalismo abbiamo a che fare con una nozione molto artaudiana: è ovunque e in nessun luogo, si tratta infatti di un concetto confuso, anarchico, come Eliogabalo, ti volti e non è più lì dove si trovava. Non si ha nel capitalismo una progressione logica o prevedibile, è qualcosa di affine alla follia. E come si può pensare di combattere la follia? Ci si può solo rendere conto che non si ha a che fare con qualcosa di umano, perché non è un sistema concepito per essere al servizio dell’umanità. Tutto ciò ricorda la storia dell’apprendista stregone: il capitalismo, si badi bene, è sempre esistito, ma nelle società primitive era sottoposto a tutta una serie di limiti e costrizioni, ma noi abbiamo, per così dire, lasciato uscire il genio dalla lampada e finirà per distruggere l’intero pianeta. L’avidità di profitto, la speculazione rovinano anche le migliori intenzioni, per cui anche un’industria ecologica, nonostante i suoi obiettivi positivi, viene sovvertita dalla logica cui obbedisce, logica che finisce per rafforzare il capitalismo. Gli stessi concetti con cui si confrontavano Artaud e Bataille risultano obsoleti rispetto al capitalismo contemporaneo, che finisce per produrre degli zombie soddisfatti di sé, i quali non si chiedono neppure in che direzione procedono. Ne risulta una sorta di Grand Guignol dove nessuno ha più coscienza, ad esempio, del fatto centrale che la sua vita è limitata. C’è qualcuno che prevede ancora fasi di rivolta, come ne l’Impero di Antonio Negri, ma non condivido questa visione ottimistica poiché, nonostante vi possano essere evoluzioni inattese come imprevisto fu il maggio del Sessantotto e il mito che ne originò, oggi mancano dei miti sufficientemente forti. Il capitalismo stesso si presenta come un mito e riesce a suscitare, come tale, degli affetti ma non si tratta di affetti che posseggono alcunché di autentico.

[Intervista già apparsa su Nae, n. 23/2008]

ISSN:2037-0857