philosophy and social criticism

Bambole

Francesco Paolella

In un palazzo storico di Imola (palazzo Tozzoni, oggi un museo), si può vedere, appena restaurato, un manichino che raffigura a grandezza naturale il volto e il corpo di una contessa, Orsola Bandini, morta nel 1836. A farlo realizzare, fu il marito di Orsola, nonché padrone di casa: il conte Giorgio Barbato Tozzoni[1]. Si tratta di un vero e proprio simulacro, voluto dal vedovo per avere sempre davanti a sé, a casa sua, l’immagine della moglie. In seguito, il conte si risposò e visse molto a lungo (fino a 90 anni e oltre), ma non si sarebbe mai separato dal suo manichino funebre.

Il corpo del manichino è fatto di stoppa, mentre il volto e il busto sono di stucco. La parrucca è fatta con i capelli di Orsola e così i vestiti a corredo del manichino appartenevano a lei. Il conte Giorgio non si accontentò di un normale monumento funebre. Voleva qualcosa di più: allestì un vero e proprio set teatrale, collocando il manichino «nelle stanze solite essa di abitare [sic], ora ritta, ora assisa, e bene spesso presso d’una Culla, ove giacente pose lo stesso Loro Sandrino, riprodotto dormiente in terracotta»[2]. Non si sa molto sul conto contessa Orsola – se non che ebbe una vita non facile: la perdita di un figlio, una salute precaria e un carattere nervoso e irritabile. Gli studiosi che si sono interessati del suo breve matrimonio, non lo definiscono come felice.

Eppure quel giovane vedovo sentì il bisogno di una seconda Orsola, di un doppio che in qualche modo la tenesse in vita. Una scelta eccentrica senza dubbio, ma portata avanti con rigore per così dire: l’allestimento fu curato fin nei dettagli e, soprattutto, l’artigiano incaricato del lavoro dovette combattere con il committente, che non si accontentava di una vaga rassomiglianza. E, d’altra parte, il rischio di trovarsi di fronte una figura grottesca o mostruosa, quasi una caricatura, era molto forte.

Un altro dato che emerge da questa vicenda indubbiamente originale e dall’esito ancora oggi perturbante, è il fatto che il manichino di Orsola, nonostante le inevitabili ammaccature causate dal tempo, sia arrivato fino a noi. Impolverato e forse dimenticato, ma tutto intero. Se pensiamo ad altri casi del genere (simulacri creati realmente o soltanto frutto di fantasia in racconti letterari o in pellicole cinematografiche) è quasi sempre una brutta fine quella che tocca al manichino in questione: decapitato, bruciato, fatto esplodere. Come se non fosse possibile “gestire” la presenza di quel finto corpo; come se non fosse facile convivere tranquillamente con un fantoccio (un corpo morto) con cui si voleva tenere in vita, tenere vicino chi non era più con noi.

Statue, bambole, manichini, automi, marionette: sono mille e mille le storie (vere o di fantasia) che hanno per protagonisti o comprimari questi manufatti, i quali, anche se destinati ad adulti che vogliono spesso tornare bambini grazie ad essi, hanno uno strano potere e sembrano la stessa materializzazione di forze primitive e sovrumane, e la sintesi impossibile di morte e vita, separazione e desiderio.

Anche nel caso del manichino di Orsola, abbiamo un persona morta che sembra essere sul punto di tornare in vita: esso presenta in sé la coesistenza di vita e morte. Ha scritto di questo tema anni fa, in un bel libro dedicato a De Clérambault e alla sua passione per stoffe e manichini, Alberto Castoldi[3]. Un simulacro come quello della contessa imolese non fa che ricordarci, con la sua presenza inerte e silenziosa, una assenza, sempre più lontana ma ancora presente. Rappresenta una celebrazione della morte, della dissoluzione, ma al contempo la sua sospensione.

Ogni bambola è di per sé non soltanto un oggetto dell’infanzia, ma rappresenta anche e soprattutto la possibilità di un viaggio a ritroso verso la mancanza di vita, verso il tempo prima del nostro tempo, verso una assenza assoluta. La bambola è un oggetto assolutamente manipolabile: non va tanto guardata, ma usata. Può essere vestita, pettinata, sistemata in ogni posizione. E’ un corpo morto che rimanda alla vita. Di più, la sua radicale ambiguità rimanda continuamente a un erotismo rimosso. Gli automi poi, le bambole dotate di un proprio movimento e magari della parola, raggiungono l’apice di questa ambiguità e di una sorta di erotismo macabro: pensiamo soltanto al Casanova di Fellini, il quale vede in un automa danzante, dalle sembianze femminili, un oggetto prepotente di desiderio. E pensiamo, soprattutto, ad Olimpia, la ragazza-automa di cui Hoffmann ci racconta ne L’orco insabbia e che Freud utilizza per descrivere cosa sia il perturbante[4].

Davanti a un manichino ben fatto o davanti a una statua di cera, resta sempre in chi osserva un sottofondo di incertezza: ma è un vivo che fa la statua o è un oggetto che sembra vivere? Questa indistinguibilità fra ciò che è solo cera, ovatta e meccanismi, e ciò che respira e pensa, ingenera appunto un disagio può diventare persino spavento o terrore.

Morte e desiderio. Una bambola, e soprattutto i manichini iper-realistici, ha un evidente significato feticistico: è anche, almeno in potenza, un oggetto sessuale. Ciò che oggi è ormai un prodotto banale nel mercato dei gadget erotici, è anche un classico letterario, a partire da Pigmalione in avanti. Quella di conquistare, di possedere una “persona artificiale”, è una ossessione senza dubbio ricorrente. Nataniele, il giovane protagonista de L’orco insabbia, si innamora perdutamente di una ragazza, Olimpia, di cui non conosce la vera natura, e finendo per dimenticarsi totalmente della fidanzata. Olimpia non si muove per ore e non parla quasi mai. Olimpia non si innervosisce, non si distrae e non si stanca, e neppure sbadiglia: sembra davvero la compagna ideale: l’incarnazione di una devozione assoluta e pura ai gusti e ai voleri dell’innamorato:

Nataniele «viveva solo per Olimpia con la quale passava ore intere fantasticando del suo amore, della simpatia che si accende e diviene vita, dell’affinità fisica – ed Olimpia ascoltava tutto con la più grande devozione. Dai più profondi ripostigli della sua scrivania Nataniele tirò tutto quello che aveva scritto in vita sua; poesie, fantasie, visioni, romanzi, racconti; e tutte queste opere aumentavano giornalmente con ogni sorta di sonetti, stampe, canzoni, che spaziavano nell’azzurro, e leggeva per ore intere di seguito, ad Olimpia, senza stancarsi mai. Ma mai ancora in vita sua aveva avuto un’ascoltatrice così magnifica. […] Insomma per ore intere essa fissava ininterrottamente senza batter ciglio gli occhi dell’innamorato, senza muoversi, né alzarsi, ed il suo sguardo diveniva sempre più acceso, sempre più vivace»[5].

Eppure, questa “perfezione” e questa armonia non possono che rivelarsi ben presto una illusione anche agli occhi del più ingenuo degli innamorati. Non può durare, perché non è reale; perché ha in sé la propria distruzione. Amare un manichino significa condannarsi a doverlo distruggere, prima o poi. Da questo punto di vista, non c’è esempio migliore dell’amore impossibile fra Gogol e la moglie (100% gomma) Caracas, amore creato da Tommaso Landolfi[6]. Quest’ultimo immagina che lo scrittore russo avesse un segreto: una moglie artificiale, gonfiabile a piacimento, tanto da poterne avere molte versioni diverse (magra, prosperosa, obesa ecc.). Un corpo perfettamente manipolabile ed anatomicamente del tutto realistico. Gogol cambia il colore dei capelli e persino la posizione dei nei sulla pelle: ha a disposizione un perfetto oggetto sessuale. Ma la situazione gli sfugge di mano: Caracas sembra diventare sempre più autonoma, arrivando addirittura a parlare; essa diventa sempre più inquietante e odiosa. Gogol convive con un fantoccio per cui prova al contempo disgusto e gelosia. Caracas diventa una «vecchia libertina», insopportabile. Così egli decide di eliminarla, gonfiandola fino a farla esplodere e bruciandone anche i piccoli frammenti di gomma rimasti. Landolfi alla fine ci fa sapere che nel fuoco finisce anche il figlio (sempre di gomma) di Caracas e  frutto di  quella unione ingestibile.

Un destino simile toccò – ma per davvero stavolta – al fantoccio-simulacro fatto fare da Oskar Kokoschka circa un secolo fa per consolarsi della perdita di Alma Mahler (che non era morta, ma aveva semplicemente cambiato aria)[vii]. Quel manichino, costato chissà quanto, rappresentava una nostalgia infinita per la donna amata, ed anzi una vera e propria ossessione per il suo corpo. Kokoschka inseguì per mesi – ci sono rimaste le lettere scritte all’artigiana tedesca che lavorò al fantoccio – una compagna che fosse allo stesso tempo reale e irreale. Passò mesi ad allestire una specie di teatro privato dove dare forma alla propria idea fissa: essere finalmente di nuovo con Alma, possederla senza dover più avere paura di perderla; avere una compagna totalmente docile e disponibile. Kokoschka voleva una copia perfetta, in ogni dettaglio, tale da poter illudere la vista e, soprattutto, il tatto. Mario Praz ha parlato del bisogno, da parte del pittore, di una «compagna metafisica, eppure attingibile ai sensi»[viii]. Il simulacro di Alma non parlava, non rimaneva neppure in piedi: anche in questo caso, Kokoschka voleva un consenso assoluto, una assoluta dedizione al suo desiderio: «Un Pigmalione alla rovescia, insomma, il quale anziché desiderare che s’animasse la statua in una creatura viva, volesse evitare ogni spiacevole reazione umana da parte della sua compagna metafisica»[ix].

Kokoschka prese molto sul serio il suo progetto e, anche se all’arrivo del fantoccio a casa sua, la delusione fu comunque grande, decise di provare a vivere per e con la sua nuova Alma. Andò a teatro con lei, la presentò agli amici, ma l’incantesimo durò poco. Come il Gogol di Landolfi, Kokoschka finì per decapitare il manichino e, immolandolo, riuscì in qualche modo a liberarsi della sua ossessione.

Un vero simulacro è anche quello voluto dal protagonista de La camera verde, il film del 1978 di François Truffaut. Qui un uomo, Julien Davenne, divenuto vedovo, non riesce a liberarsi dalla presenza-assenza della giovane moglie morta e, anzi, si consacra a lei. La camera verde è appunto la stanza di casa dedicata alla defunta, piena di ritratti e di “reliquie”. Davenne decide di non voler dimenticare e di non voler coltivare speranze: «chi piange i suoi morti, vuole rivederli subito», dice a un prete che cerca di consolare un altro neo-vedovo. Davenne vive per la moglie una disperazione lucida e, ancora a distanza di anni, non ha fatto nessun passo avanti. Vive per i morti, contro i vivi e contro se stesso. Quando la camera verde va a fuoco, il protagonista, che di mestiere fa il giornalista (specializzato, va da sé, nello scrivere necrologi), decide di fare qualcosa in più per proteggere la memoria della moglie: si rivolge a un fabbricante di manichini per avere un suo simulacro. Anche Davenne, come il conte imolese, pretende molto dall’artigiano. Nel suo caso, però, si lascia prendere troppo dall’illusione di poter riabbracciare la moglie: non appena vede l’opera finita, la rifiuta ed esige anzi che sia distrutta davanti a lui. Nel film di Truffaut, a differenza che nella storia del manichino di Orsola, non c’è stato nessun, paradossale, lieto fine.

Note

[1]Cfr. In tutto simile a lei. Giorgio Barbato e Orsola in palazzo Tozzoni, a cura di Marta Cuoghi Costantini e Claudia Pedrini, Musei civici di Imola, 2016. Desidero ringraziare Oriana Orsi per le informazioni ricevute.

[2]Ivi, p. 52.

[3]Cfr. Alberto Castoldi, Clérambault: stoffe e manichini, Moretti & Vitali, 1994.

[4]«Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» (Sigmund Freud, Il perturbante in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, 1991, p. 270).

[5]E. T. A. Hoffmann, L’orco insabbia in Racconti notturni, Einaudi, 1994, p. 30. Cfr. Francesca Serra, La morte ci fa belle, Bollati Boringhieri, 2013, in particolare pp. 99-101. E’ interessante notare che pressoché tutti i manichini descritti in libri e film siano femminili: rappresenta un’eccezione il romanzo Il fantoccio di David H. Lawrence (L’Argonauta, 1989).

[6]Tommaso Landolfi, La moglie di Gogol in Ombre, Vallecchi, 1954.

[vii]Cfr. Andrea Camilleri, La creatura del desiderio, Skira, 2013.

[viii]Mario Praz, Il patto col serpente. Paralipomeni di «La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica», Leonardo, 1995, p. 534.

[ix]Ivi, p. 535.

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, july 2016
issn: 2037-0857
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