philosophy and social criticism

Buio in sala

di Barbara Corsi

BUIO IN AULA- RASSEGNA DI CINEMA E PSICOANALISI / Cinema Stensen- 16 ottobre – 13 novembre 2015

Stefania Nicasi, psicanalista e membro del Centro Psiconalitico di Firenze, è la curatrice, insieme al cinema Stensen di Firenze, della rassegna Incontri di Cinema e psicanalisi Buio in sala, ribattezzata Buio in aula per la sua XI edizione. Il tema centrale di quest’anno è infatti la scuola con le sue problematiche vecchie e nuove, raccontate nei 6 film che forniranno lo spunto alla riflessione condotta da psicanalisti e psicoterapeuti.

L’imminente inizio della rassegna, in programma dal 16 ottobre al 13 novembre, è l’occasione per anticipare, insieme dott.ssa Nicasi*, alcuni degli argomenti che verranno affrontati nell’aula cinematografica.

Nella società di oggi, che ha allargato i suoi confini, l’insegnante riveste spesso anche il ruolo di mediatore culturale, come nel film La classe di Cantet. Che lavoro deve fare il docente, prima di tutto su se stesso, per affrontare questa nuova funzione?

Credo che il lavoro più importante che l’insegnante debba fare su se stesso sia un genuino riconoscimento della propria posizione nei confronti dei “diversi”, degli “stranieri”. Questo comporta, ovviamente, guardarsi dentro per vedere se ci sia un’accettazione incondizionata quale si avrebbe nei confronti di qualsiasi altro bambino o piuttosto anche solo una leggera vena di non piena accoglienza se non di razzismo. Dopo di che si tratta di riuscire a fare l’insegnante e cioè:

  • non confondere il proprio ruolo con un ruolo paternalstico; alcune volte il “buon cuore” fa perdere di vista agli insegnanti che i bambini devono imparare e non solo essere benvoluti; la buona relazione è una base imprescindibile, ma deve rimanere sullo sfondo. Il bambino, o il ragazzo, a scuola è contento se vede che riesce non solo se sente di essere benvoluto: perché la scuola è il banco di prova del proprio Sé competente.
  • trovare le risorse perché nella classe il bambino, che non conosce o non padroneggia la lingua, sia facilitato quel tanto che lo aiuti ad andare avanti nell’apprendimento: quanto gli insegnanti sono supportati in questo compito?

Due film della rassegna (Monsieur Lazhar e Class Enemy) affrontano il tema dell’elaborazione del lutto da parte degli allievi di una classe. Qual è l’importanza formativa di una simile esperienza vissuta collettivamente e quali i rischi?

E’ importante che il dolore, il disorientamento e lo sgomento che segue un suicidio che coinvolge direttamente la scuola, possa avere un’elaborazione collettiva. Il rischio opposto a quello del silenzio è che l’elaborazione equivalga in realtà alla ricerca di un colpevole, con un’attribuzione di colpe reciproche tra i diversi ruoli istituzionali, insegnanti, genitori o allievi. Tuttavia una classe è fatta di alunni e professori, ha un obiettivo formativo, è un gruppo di lavoro e non può esaurirsi nella condivisione dei fatti emotivi.

La particolarità del film Monsieur Lazhar è che abbiamo a che fare con il suicidio di un’insegnante e non con quello di un allievo. Il suicido di uno studente, anche a scuola, è relativamente avvenimento più frequente, soprattutto nella scuola superiore. Questa disgrazia porta a organizzare interventi in classe di rielaborazione, detti di postvention, che sono normalmente gestiti da psicologi: occorre una certa esperienza nel gestire l’emotività di un gruppo, altrimenti la situazione può scappare di mano.

Nella cronaca i casi di suicidio dei ragazzi sono spesso collegati a vicende legate alla scuola (un brutto voto o il bullismo). Ogni caso è diverso, naturalmente ma, a Suo parere, qual è il peso effettivo del disagio scolastico?

L’insuccesso scolastico è sicuramente una delle aree dello sviluppo che può essere alla base di fantasie o di progetti di suicidio, accanto alle delusioni d’amore e agli abbandoni o alla vergogna per un orientamento sessuale inconfessabile. E’ chiaro che il fattore di rischio non è in sé l’insuccesso scolastico, ma il significato affettivo che assume per una persona. Spesso ciò che è intollerabile, infatti, non è l’insuccesso, ma la vergogna, frutto di uno smascheramento dell’immagine che uno studente ha voluto dare di sé, il più delle volte ai genitori, che ritiene non siano in grado di tollerare il suo fallimento. In ogni caso, se il suicidio viene imputato a un brutto voto, bisogna prendere in considerazione più di un elemento: il clima familiare, la personalità del ragazzino che si è suicidato e un eventuale clima persecutorio da parte degli insegnanti.

Un discorso a parte merita il “bullismo”. Non si ha idea di quanti “bullismi” ci sono, spesso non visti o ignorati dagli insegnati di tutti i gradi di scuole (elementari, medie e superiori) che si configurano come “traumi cumulativi”; a questo si aggiungono gli aspetti competitivi di certe scuole. I “bullismi” piccoli o grandi, subiti tutti i giorni e passati superficialmente per innocue prese in giro, sono di gran lunga più dannosi dei brutti voti.

In Whiplash e anche in Class enemy la durezza del metodo educativo ha l’obiettivo maieutico di liberare le potenzialità creative e far uscire di forza gli adolescenti dal loro limbo. Ha senso il ricorso a un metodo che si potrebbe riassumere nel solito motto de “ il fine giustifica i mezzi”?

Non penso che il fine giustifichi i mezzi. Non penso che un insegnante “duro” possa avere un effetto positivo. Invece un insegnante rigoroso, che non faccia troppi sconti e che insegni bene può avere un effetto decisamente salutare proprio in virtù di quello che dicevo prima: la scuola è anche il luogo della messa alla prova delle competenze, della forza dell’Io, della capacità di cavarsela al di fuori del nido familiare.

Il patto educativo che a volte vacilla è quello fra insegnanti e genitori, che non riconoscono in pieno l’autorità dei primi e spesso sono incerti perfino della loro. Cosa comporta questa incrinatura dei rapporti scuola-famiglia?

Oggi si ama dire che il patto educativo vacilla: non ho abbastanza esperienza per giudicarlo e tendo a diffidare di quelle affermazioni che diventano un ritornello. Tuttavia mi sembrano vere due cose, soprattutto la seconda:

  • è vero che in alcune situazioni i genitori prendono posizione alleandosi con i figli contro gli insegnanti: però mi riferisco a fatti di cronaca, non accertati personalmente. Dove questo accade, in assenza di elementi che lo giustifichino (ad esempio se c’è un insegnante che fa ingiustizie, che prende di mira un ragazzino…), è un brutto errore da parte dei genitori perché invalida l’autorità dell’insegnante.
  • è vero che, in questa fase culturale, i genitori tendenzialmente o non sanno dare regole e limiti o li danno ma non li sanno tenere o si illudono di tenerli perché discutono molto con i figli finendo per invalidare quanto hanno stabilito. Questo fenomeno è il risultato di più variabili: l’assenza da casa di entrambi i genitori perché lavorano; l’idealizzazione della spontaneità dei bambini; il piacere narcisistico di vederli intraprendenti e svegli ma, soprattutto, il piacere di stare in una buona relazione con i figli. Molti anni fa i genitori godevano meno direttamente della bella relazione con i propri figli: questo è un guadagno per l’umanità ma rende più difficile dire dei “no” e tenerli fermi.

Uno dei maggiori rischi oggi è delegare la conoscenza ai molti mezzi tecnologici a disposizione dei ragazzi. Come si può gestire questo passaggio epocale dall’unicità alla molteplicità delle fonti d’informazione nell’educazione scolastica?

I mezzi tecnologici non solo non sono un problema, ma possono essere una risorsa, come ogni volta che nella storia dell’umanità si è fatto un passo avanti nelle forme della comunicazione, per esempio il passaggio dai gesti alla parola, dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura alla stampa. Il punto sta nella didattica e cioè nel modo in cui gli insegnanti utilizzano i mezzi tecnologici con i ragazzi e insegnano loro ad usarli. Credo che quello che vada soprattutto evitato è che i bambini vengano esposti ad una sovra stimolazione.

La Scuola è la prima istituzione con cui il piccolo cittadino viene in contatto e il senso dello stato che acquisirà deriva in gran parte da questa esperienza fondamentale. Quali sono i valori condivisi di base che deve trasmettere in primo luogo la scuola primaria? A questo proposito, pensa che la scuola italiana sappia adempiere oggi al compito di ascensore sociale e quindi dare fiducia ai ceti più deboli?

Mi sembra che il difetto più grave della scuola sia la mancanza di attenzione alle questioni relazionali. Si dovrebbero introdurre materie e soprattutto laboratori esperienziali in cui i bambini-ragazzi possano sviluppare la solidarietà, la collaborazione e la comprensione degli altri. Tutta la scuola è troppo incentrata solo sui contenuti di apprendimento. Un tempo, le reti familiari e amicali erano più esperite e i bambini imparavano automaticamente, mentre oggi i bambini, in città soprattutto, sono pieni di attività pomeridiane e sviluppano molte competenze cognitive ma poche competenze emotivo-sociali.

Quanto all’ascensore sociale, l’ultimo rapporto OCSE ci colloca al penultimo posto (23°) nella lista dei Paesi interessati. Occorre un potente investimento di pensiero, di energie e di danaro per rilanciare la Scuola italiana.

La figura dello psicologo scolastico che esiste in alcuni paesi esteri si è rivelata utile? La sua assenza in Italia è da considerare una delle molte lacune di un sistema arretrato, deriva da una sottovalutazione del suo ruolo o dall’idea che questo compito debba essere svolto dall’insegnante?

La presenza a scuola di altre professionalità, oltre a quella degli insegnanti, è auspicabile. Nella scuola italiana non si è mai arrivati a una definizione legislativa di un servizio di psicologia o psicopedagogia scolastica, come avviene in sistemi scolastici di altri Paesi, benché siano stati presentati di volta in volta diversi disegni di legge che si sono sempre arenati.

In realtà, in molte scuole sono presenti centri di ascolto psicologico, ma queste iniziative sono gestite direttamente dalle scuole nel quadro dell’autonomia scolastica. L’utilità dell’ascolto psicologico è limitata, anche perché normalmente non va al di là di pochi incontri, ma può essere una prima occasione di riflessione su di sé. E’ uno spazio normalmente più usato dalle ragazze che dai ragazzi, soprattutto da quelli che tendono ad avere problemi di comportamento e per questo a volte gli insegnanti possono pensare che ricorrano a questo servizio gli studenti che in realtà ne hanno meno bisogno.

* Con la collaborazione di Giuliana Barbieri, Alfio Maggiolini, Paolo Chiari, Roberto Goisis.

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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