philosophy and social criticism

Cli-fi. Riscrivere il mondo con l’eco-narrativa

Marco Dotti

Quando avete eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa rimanga, anche se improbabile, avrà il sapore della verità. Parola di Mack Reynolds. E forse le cose stanno proprio come le vedeva Reynolds.

Militante del Socialist Party of the United States of America, Reynolds fu tra i pionieri della science-fiction di matrice sociale. Il disastro, per lui, accanto a quel sapore di verità conservava sempre un retrogusto politico o economico: povertà, fame, crack finanziari, colpi di Stato e conseguenti stati di polizia. L’ambiente era sovrastruttura o, tutt’al più, scenario dove collocare e dispiegare sintomaticamente gli effetti della “vera” catastrofe.

Il fatto che la letteratura – da Lucrezio a Mark Twain, da Plinio a Jules Verne – “pensi” e prefiguri la catastrofe climatica non è una novità. Ma il fatto che, oltre a prefigurarla, tenti di anticiparla e, attraverso i suoi strumenti, tenti di farsi carico di quei processi di cambiamento che, un tempo, avrebbe reputato non pertinenti al suo campo o al suo orticello, segna  un importante cambio di registro.

Toccare il limite

Nel XX secolo è toccato alla science-fiction l’ingrato compito di confrontarsi con una plausibile, ancorché improbabile apocalisse ambientale. Surriscaldamento, alluvioni, scarsità di acqua e di cibo, deflagrazioni nucleari. Tutti gli elementi, acqua, aria, terra, fuoco, hanno contribuito ad alimentare un immaginario distopicamente o utopicamente imbevuto di futuro.

Poi qualcosa è successo. È successo che le lancette si sono spostate e l’Ecological Debt Day (EDD) ha consumato le tacche sul calendario. Immaginare non serviva più, bastava guardarsi attorno.

Se nel 1987 il giorno in cui si considerano esaurite su scala globale le riserve energetiche dell’anno e si inizia a vivere a debito rispetto alle generazioni future è caduto il 19 dicembre, per il 2015 l’Earth overshoot day è stato raggiunto con quattro mesi di anticipo, il 13 agosto.

Non bastasse, ci informano i climatologi, il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, da quando la temperatura del pianeta viene monitorata. Come dire: non c’è più bisogno di profezie, basta guardarsi attorno.

Anche la fantascienza è rimasta indietro rispetto a un mondo che ha inevitabilmente confermato le più amare previsioni di un Dick o di un Ballard ma, così facendo, le ha al tempo stesso depotenziate.  Nessun altro Ballard è possibile: l’improbabile è diventato probabile, l’impossibile ha assunto la concretezza del possibile.

A chi appartiene il futuro?

Come parlare, allora, di futuro? Come parlarne se abbiamo già i piedi nel disastro? Già, ma quale futuro? Senza la capacità di riscriverlo, qui e ora, non ci sarà futuro. Ci saranno solo tanti piccoli baronetti di Münchausenche tentano di levarsi dagli impicci melmosi tirandosi per i capelli. La chiave di un genere emergente come il climate-change fiction, sorto con forza dalle macerie dellascience fictione spesso confuso tra fantasy, romanzi young adulte distopie 2.0, è qua: cercare una via d’uscita partendo da dove non te l’aspetteresti, dalla letteratura.

C’è chi contesta il fatto che il “cli-fi” possa definirsi a stretto rigore un genere. Di certo è un trend dal 2010 in fortissima crescita, in termini di presa di coscienza, non solo di consumo librario.

Ai confini della realtà

Certo, anche nei primi anni Sessanta del secolo scorso c’era poi chi prefigurava maree alte come l’Empire State Building, glaciazioni post atomiche, mostri transmoderni che si risvegliavano dal ventre della terra per le macchinazioni dei nipotini di Mabuse e Stranamore. E poi c’era chi, pensiamo a quel gran pioniere di Rod Serling, aveva già capito tutto.

Scrittore e poi ideatore, sceneggiatore e infine produttore di una delle serie televisive più longeve quanto a influenza sull’immaginario, Twilight Zone (Ai confini della realtà), Serling descrisse a dovere un pianeta devastato dal surriscaldamento climatico. La prospettiva di Reynolds ne usciva al tempo stesso capovolta e confermata. L’ambiente era al cuore di qualcosa che non poteva essere classificato né come utopia, né come distopia. Il disvelamento nasceva dalla comprensione che non ci sono altri mondi possibili, né un futuro da decolonizzare, ma un presente da comprendere a scanso di equivoci e di guai.

Per il Rod Serling del raccolto Il sole a mezzanotte il surriscaldamento genera in sé e per sé mostri sociali. Almeno finché permette a alcuni di sopravvivere e ad altri di ben vivere, a discapito dei sopravviventi. Furti, divisioni, crimine e stati di eccezione. In sostanza, un paradossale – ma non troppo – ritorno allo stato di natura, se è vero che, già Hobbes lo insegnava, stato di natura è la condizione di puro terrore in cui rischiamo sempre, costantemente di cadere.

Sceneggiato e mandato on air il 17 novembre del 1961 come settantacinquesimo episodio della terza serie di Twilight Zone, il Sole a mezzanotte è in qualche modo antesignano di un sottogenere, “cli-fi”, nick name per climate-fiction, che dal genere-madre, la “sci-fi” o science-fiction, stava per muovere i primi passi, fino a reggersi in piedi – ma questa è storia recente – per conto proprio.

 

La morte del sole

Cinquant’anni dopo Searling, nel 2010, il sole e il cambiamento climatico si trovano al centro di uno dei più noti romanzi del “cli-fi” o eco-fiction, come alcuni amano chiamarlo. Un romanzo se non proprio di genere, firmato da un autore certamente non di genere, quanto meno un romanzo che al genere “cli-fi” ha dato una grande visibilità. Parliamo di Solar (Einaudi, 2010) di Ian McEwan

Il punto chiave del romanzo di McEwan è presto detto. È il protagonista, un fisico, Michael Berd, a rivelarcelo: «o rallentiamo e infine interrompiamo il consumo, o una catastrofeumana ed economica di enormi proporzioni si abbatterà sulla generazione dei nostri nipoti.Il che ci conduce alla domanda cruciale, all’interrogativo scottante. Come possiamodiminuire e far cessare i nostri consumi continuando a sostenere la civiltà, sottraendo allamiseria milioni di individui? Non certo con comportamenti virtuosi, non certo differenziandolo smaltimento del vetro, abbassando il termostato in casa o acquistando un’auto più piccola. Tutto ciò può giusto rimandare il disastro di un paio d’anni. Ogni proroga è utile,intendiamoci, ma non rappresenta la soluzione».

In sostanza, ci ricorda McEwan, non basta marciare, sfilare uniti e colorati, produrre hashtag o disegnarsi arcobaleni sugli zigomi, perché

«la faccenda coinvolge qualcosa che va al di là della sola virtù, perché la virtù è limitata,passiva. Può essere di incentivo per il singolo, ma quando si tratta di gruppi, di sistemisociali, di una civiltà intera, allora è una forza insufficiente. Le nazioni non sono mai state virtuose, sebbene si possano a volte convincere del contrario. A livello di massa, l’avidità ha la meglio sulla virtù. Ecco perché dobbiamo integrare di buon grado nelle soluzioni alproblema il nostro incontenibile impulso all’egoismo, oltre che festeggiare la novità, ilbrivido dell’inventiva, il piacere di ingegno e cooperazione, le soddisfazioni del profitto.Petrolio e carbone sono vettori energetici e, in teoria, lo è anche il denaro. Perciò, la rispostaa quell’interrogativo cruciale è ovviamente là dove il denaro, il vostro denaro, deve scorrere:in un’energia pulita e accessibile».

Un bel problema, insomma.

Genere e sotto genere

Lo sci-fi è un genere o un quasi-genere che si rivela non solo capace di descrivere il contingente, ma di riscrivere e, per questa via, scongiurare l’imminente. Almeno ci prova e, visto come stiamo messi a filosofia e militanze varie, non è cosa da poco.

Questa logica rende avvincente il cli-fi, non solo per i lettori e la critica, ma per chiunque abbia a cuore una riflessione di più ampio respiro sul tempo presente e sull’ambiente che, in qualche modo, ci troviamo ancora a abitare. La torsione apocalittica, ben inteso, non manca: è imminente (pensiamo ai lavoro di Margaret Atwood o a certo Crichton) in progress (come nel Paese delle cose ultime di Paul Auster, anch’esso da annoverare al “genere”) o, più semplicemente, già avvenuta, come nell’influente Polar city red di Jim Laughter. 

Resta costante la denuncia della deriva tecnologica. Così, ne La ragazza meccanica (Multiplayer edizioni, 2014) lo statunitense Mario Bacigalupi racconta di una Bangkok dove le calorie sono diventate la valuta corrente, il terrorismo è bio-terrorismo e cacciatori di cibi estinti si muovono in incognito come vecchi cercatori di tesori.

Nella trilogia di Madd Addam (L’ultimo degli uomini, L’anno del diluvio, L’altro inizio tutti editi dal Ponte alle Grazie) di Margaret Atwood si arriva a prefigurare un diluvio senz’acqua, in un mondo post-secolarizzato segnato dal culto di individui trans-umani.

Tecnofobia a parte, al cuore della sci-fi risiede la messa in narrazione di un particolare tipo di catastrofe, il mutamento climatico, talmente imminente da sussumere tutte le altre.

Leggere per agire

A questa messa in narrazione corrisponde una spinta all’azione: il lettore è chiamato a capire e a intervenire, per quel che può, come può. Anche in forma di parole. Anche se non basta. Così, a guardar bene, per usare le parole con cui una decina di anni fa Robert Macfarlaneavviava il dibattito dalle pagine del Guardian: «gli effetti  del cambiamento climatico diventano percepibili nei termini del linguaggio così come lo sono in termini di gradi celsius»o centigradi.

Margaret Atwood, autrice che ha attraversato il genere, ricorda he il conio dell’etichetta cli-fiè da attribuirsi al giornalista-attivista Dan Bloom, che la usò per la prima volta nel 2007.

Proprio Bloom, in un suo articolo pubblicato nel luglio scorso su Medium, ripropone la domanda chiave che, nel corso degli anni, è stata variamente declinata ed è all’origine del nick-name che è tornato alla ribalta proprio nei giorni del Cop21 di Parigi. Una domanda che risuona anche nelle parole del protagonista di Solar di McEwan:: «Can Cli-Fi Help Keep Our Planet Livable?».

Nel 1995, un altro scrittore, Bill McKibben, dalle pagine della rivista Grist, scriveva: «ciò di cui il riscaldamento globale ha bisogno è arte».

Ed è per questa ragione, osserva Bloom, che ha pensato di creare un’etichetta, “climate change fiction novels and stories” (cli-fi), per essere da stimolo ai nuovi scrittori, affinché si impegnassero su questo terreno. Oggi, esistono corsi di scrittura “cli-fi” curriculari in molte università americane, australiane e canadesi. In Francia e in Scandinavia ci si sta muovendo in questa direzione. In un certo senso, ciò che i lobbysti dell’anti-ecologia non avevano previsto era proprio questo impegno condiviso e la capacità performativa di un nome, “cli-fi”.  Mentre trovavano facile promuovere storytelling di segno contrario sul comune terreno della divulgazione scientifica, nel mondo del novel il loro potere di persuasione, occulta o palese che fosse, è venuto meno.

 Forse il “cli-fi” non riorienterà il mondo e non condizionerà le decisioni dei vertici internazionali, ma di certo apre al grande pubblico uno spazio di reale comprensione dei rischi globali del crack energetico e rilancia una vecchia questione posta a suo tempo da Immanuel Kant: il nostro mondo ha uno scopo morale? O spetta a noi “riempirlo” di senso? Non è forse questo uno degli umili e forse ultimi compiti che la letteratura può ancora pretendere per sé?

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