philosophy and social criticism

Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini

"Pier Paolo Pasolini"

Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini

Francesco Paolella

Più che sull’amore, il film-inchiesta del 1963 di Pasolini è incentrato sugli inevitabili giri di parole usati per parlarne (e per non poterne parlare davvero). E’ una inchiesta sui luoghi comuni e sulle mode imperanti in campo sessuale e familiare. Si tratta di una serie di interviste, di provocazioni, tagliate e montate non per mostrare verità nascoste, quanto piuttosto l’imbarazzo e l’assenza di spontaneità che dominavano in tutti; una ricerca fatta per raccogliere le parole (false) utilizzate per non raccontare ciò che conta davvero, quello che tutti sanno e su cui tutti si regolano.

Pasolini, nella laboriosa storia creativa di questo film, si è inoltrato fra i “misteri del sesso”, dei suoi eccessi, delle sue anormalità e delle sue mediocri imprese. Al sesso il poeta-regista finiva per attribuire una importanza perfino eccessiva; al sesso attribuiva niente meno che il potere di determinare la vita di un uomo, premiandolo o condannandolo.

Così, specie nella fase preparatoria del film, Pasolini intendeva rappresentare le vittime dell’istinto, coloro che avevano perduto la scommessa con il proprio sesso, in primo luogo attraverso immagini di internati nei manicomi, di persone cadute sotto il potere dell’alcol e della droga, o ancora di criminali. Ossia: mostrare chi aveva perduto la “lotta della vita” con se stesso, con il proprio corpo. In tutti, anche fra la gente “normale”, ritrovava uno iato irrimediabile fra sesso e storia, fra orgasmo e cultura.

Pasolini non dava peso alle risposte in sé da parte della gente – o almeno alla maggior parte di esse, frutto di un secolare, ineliminabile perbenismo e di ipocrite inibizioni; piuttosto, voleva far dialogare – in un dialogo dove in realtà si comunicava molto poco – chi sapeva e che non sapeva, i “saggi” (scrittori e poeti, psicoanalisti e giornalisti) e il popolo conformista. Da cui ricavava un unico auspicio: che chi amasse potesse avere coscienza del proprio amore.

Dunque era importante mostrare l’imbarazzo, i silenzi, le perifrasi, le risposte a un tempo elusive e ufficiali, mentre dai sorrisi, dagli sguardi degli intervistati emergeva semmai comunque la vita, con i suoi desideri.

Alla fine, nel film non ci sono sorprese: ognuno interpreta il suo ruolo. La vera protagonista è l’ossessione per la normalità (ambita o disprezzata), il dongiovannismo obbligatorio, il sesso vissuto come dovere e usato come arma, i quali sono tutti temi che, come ognuno sa, hanno segnato buona parte delle riflessioni del Pasolini dagli anni Sessanta in avanti.

Questa inchiesta “dal basso e dal profondo” riconferma l’idea di una inconsistenza della borghesia italiana, un centro vuoto che attraeva irresistibilmente e distruggeva chi stava ai margini. E ritroviamo qui, come giustamente notava anni fa Vincenzo Cerami (che per Comizi d’amore lavorò come aiuto-regista), il lavoro di Pasolini svolto attraverso l’osservazione degli strati linguistici e non partendo da un punto di vista sociologico.

Le differenze tradizionali, che pure emergono anche qui, le diverse Italie (il nord e il sud, gli uomini e le donne, i giovani e i vecchi) finiscono pure per non essere davvero decisive. E’ evidente che una ragazza calabrese del 1963 non ragionasse (in pubblico almeno) come una ragazza lombarda: d’altra parte, era più decisivo, più vincente il bisogno universale di normalità e di conformismo. La liberazione sessuale avrebbe presto confuso tutti in un unico modello.

In altre parole: nonostante tutto il perbenismo, non riusciva a emergere se non raramente un vero scandalo, una vera rottura, una parola pura.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 29, issue no. 32, january 2016
issn: 2037-0857
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