philosophy and social criticism

Dalí, salvatore romanziere

"Marco Dotti"

Gioco o guerra?

di Marco Dotti

Quattro mesi di isolamento letterario, passati a «scrivere senza sosta, anche quattordici ore al giorno» nella quiete e al freddo delle montagne del New Hampshire furono più che sufficienti a Salvador Dalí per portare a termine il suo primo e unico romanzo, Volti nascosti, ripubblicato da Mondadori, direttamente in economica. È bene precisare ai lettori esigenti, visto che i redattori della Mondadori hanno pensato bene di non aggiungere alcuna nota informativa in merito, che la versione di Annamarcella Falco Tedeschi, riproposta nella collana «Oscar scrittori del Novecento», è la stessa apparsa per l’editore Rusconi nel 1974. Solo il titolo è stato cambiato. La Tedeschi, che traduceva dall’inglese, rese allora il titolo Hidden faces con un elegante Visi celati, che teneva conto dell’ambiguità insita nell’aggettivazione dell’originale Visages cachés.

Il recupero di traduzioni fuori diritti, neppure riviste su edizioni critiche, o i cui detentori risultino «provvisoriamente dispersi» sta ormai diventando una pratica comune tra gli editori di grosso calibro e non sembra giustificata da una mera logica di contenimento dei costi, del tutto comprensibile quando si tratta di editori, per dir così, minori. Se sia questione d’incuria, di mancanza di buona fede o, peggio ancora, di radicale assenza di idee non è facile dirlo. «Siamo in mano alle dattilografe!», si lamentava Bianciardi.

Ora anche quelle sono sparite, come le lucciole, sostituite da stuoli di esperti di settore e di intollerabili affabulatori formatisi in qualche corso per aspiranti venditori di salamelle. Esperti, va detto, che non sono neppure in grado di evitare storpiature elementari, come quelle sui nomi degli autori. Dalí, che alla questione dell’«accento antimperialista» sul proprio cognome, al pari della tendenza antigravitazionale dei suoi baffi, ha dedicato pagine irriverenti e di esemplare comicità, avrebbe riso per quel accento acuto che, nella copertina, nella quarta e ogni volta che nell’edizione Mondadori se ne presenta l’occasione, diventa irrimediabilmente grave, in barba alla biografia (e questo passi) e alla forma (e questo passa un po’ meno).

Detto delle sviste, che ormai sono un malcostume tipico della merce editoriale nostrana, occorre però tornare al romanzo, che merita di essere preso in considerazione per più di una ragione. Terminato nell’inverno del 1943, ma apparso solo un anno più tardi direttamente in traduzione inglese, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare Volti nascosti è un romanzo nel senso generico, quasi classico del termine. «Puro» secondo le parole dell’artista catalano che, a maggior conforto delle proprie doti narrative, ricorda come García Lorca, oltre ad avergli dedicato un’ode appassionata, già molti anni prima gli avesse predestinato una brillante carriera nel mondo delle lettere.

Con la consueta, sfacciata, supponenza nella nota introduttiva l’autore ci ragguaglia ampiamente sugli strabilianti risultati del suo non comune apprendistato da romanziere. «Perché ho scritto questo romanzo?», si chiede Dalí, che ovviamente ha bella e pronta una risposta in totale accordo col personaggio che si è sempre divertito a ricamarsi addosso. «Io trovo il tempo per fare tutto quello che voglio e volevo scrivere questo romanzo» e poi «la storia contemporanea offre una struttura eccezionale per un romanzo sull’evoluzione e i conflitti delle grandi passioni umane, e perché la storia della Seconda guerra mondiale, e in modo più specifico la storia del fortunoso dopoguerra, doveva fatalmente essere scritta».

Romanzo «di atmosfera, di introspezione, di rivoluzione e di architetturalizzazione delle passione», dunque, condotto secondo un registro, manco a dirlo, «daliniano», tanto che non sarà difficile anche per il lettore meno attento alle vicende artistiche del pittore scoprire «sotto la struttura la presenza familiare, permanente e vigorosa, dei miti essenziali della mia vita e della mia mitologia personale». Scritto in un francese bizzarro, ricco di immagini verbali, il suo interesse, come osserva in una breve nota Haakon Chevalier, traduttore inglese del volume, si rivela proprio nella ricca «trasposizione operata dall’autore nella creazione letteraria di valori sovrani nelle arti plastiche». Perché se è vero che la pittura di questo «maestro della metafora disperata» è figurativa al punto da essere quasi «fotografica, la sua opera è innanzi tutto visiva».

La trama del libro, quanto mai intricata, narra di strambi personaggi, figli di una nobiltà in declino, che scorazzano per l’Europa degli anni Trenta, inconsapevoli che il loro destino ricco di amori, lusso e bellezza è ormai legato alla stessa miserevole sorte del mondo da cui nascono e che assai degnamente rappresentano. «La trilogia passionale inaugurata nel secolo diciottesimo dal divino marchese de Sade», avverte Dalí, era rimasta incompleta: «sadismo, masochismo… bisognava inventare il terzo termine, quello della sintesi e della sublimazione».

Dalí propone, a tal fine, di colmare la lacuna del terzo escluso, ripiegando su «cledaismo», parola coniata dal nome della protagonista del romanzo, la nobildonna un po’ esangue Solange de Cléda. Al contrario del sadismo e del masochismo, con cui si pone in rapporto di mediazione, il «cledaismo è piacere e sofferenza sublimati in un’identificazione trascendente con l’oggetto». Solange de Cléda «ristabilisce la vera passione», piegando ogni idealismo alla dura realtà dei fatti, al pari di «una santa Teresa profana» che unisce «Epicuro e Platone in un’unica fiamma».

Amore, morte e bassi umori da decadenza accompagnano le vicende di Solange, del conte Hervé de Grandsailles -sorta di coprotagonista del libro- e dei loro rispettivi amici. In apertura, si apprende che da molti anni il conte conduce uno «spietato duello di seduzione» con Solange, rincorrendola e allontanandosi, appena lei sembra cedere a un momento di tenerezza. «Nulla è più snervante di una passione di questo tipo, fatta solo di civetteria», commenta l’onnipresente narratore. Ma proprio grazie alla civetteria, al buon gusto e alle maniere discrete, il conte di Grandsailles riesce a compensare la sua scarsa fantasia in tema di relazioni, sentimenti e visioni politiche. «Come ogni buon francese» il conte «ha la politica nel sangue», anche se talvolta questo sangue ribolle fino a fargli scoppiare i nervi scuotendolo dal suo insano torpore.

Poiché sa citare le massime di Clausewitz a memoria, il conte quasi si compiace quando parla ai suoi increduli ospiti dell’approssimarsi della guerra contro la Germania. Il sei febbraio del 1934 è il giorno dell’assalto delle destre a Palais Bourbon, e questi ospiti avranno di che ricredersi. La violenza di vecchi combattenti, giovani paramilitari, monarchici del gruppo dei Camelots du Roi e fascisti dell’Action française di Charles Maurras scuote anche la tranquillità del suo salotto, miscuglio di nobiltà e alta borghesia, turbato dalla notizia delle possibili, imminenti dimissioni del capo del governo Daladier. Distogliendo per un attimo l’attenzione dalle chiacchiere degli amici, impegnati a commentare le notizie che giungono dalla radio, Hervé de Grandsailles viene rapito dalla «successione disordinata delle immagini più significative fra quelle che gli erano state raccontate».

Vede allora «il sole al tramonto scomparire dietro l’Arco di Trionfo, mentre i membri della Croix­ de Feu discendevano gli Champs Elysées in ranghi serrati di dodici uomini, con le bandiere spiegate in testa; neri, tesi, immobili». Il conte vede «gli sbarramenti dei poliziotti incaricati di respingerli cedere l’uno dopo l’altro» e la sommossa diventare guerriglia con «i paletti che circondano le basi degli alberi vengono divelti, scagliati con violenza contro il marciapiede, fatti a pezzi e trasformati in altrettante temibili armi; i tubi del gas dei lampioni sono infranti a colpi di sbarre di ferro e quando cominciano a bruciare proiettano furiose fiamme sibilanti, che divampano obliquamente». Tre giorni dopo, saranno i comunisti a riconquistare la piazza.

Frank Dan, nel suo Libertad! (traduzione di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti, 2005) studio divulgativo sulla Parigi degli anni Trenta, ci ricorda che molti surrealisti si trovavano tra loro. Non ci dice se ci fosse o meno Dalí, sempre sospettoso e impegnato in cause spesso tutte sue. Ma Dan segnala che, con Picasso, Masson e Miró, a differenza degli scrittori che su un fronte o sull’altro scelsero comunque l’impegno, egli fu tra i pochi pittori a «non disertare» dinanzi ai pericolosi fantasmi che cominciavano ad aggirarsi per l’Europa.

Lo fece alla sua maniera, ovviamente. Anche per questo, a conti fatti, Volti nascosti -giocato soprattutto sul piano storico, senza alcuna concessione allo sperimentalismo di maniera o a eccessivi, inutili virtuosismi verbali – appare un progetto riuscito, ottimo esempio dell’inaspettato «contro-impegno daliniano».

Un romanzo che forse nutriva, anche nelle intenzioni del suo autore, meno ambizioni di quante non fosse propenso a dichiararne, ma in ogni caso è capace di improvvise fiammate, di suggestioni forti, soprattutto quando mischia visionarietà e scrittura alla fiamma altrimenti tenue, ma tagliente, del ricordo.

TYSM REVIEW

VOL. 22, ISSUE NO. 22

APRIL 2015

CREATIVE COMMONS LICENSETHIS OPERA BY T YSM IS LICENSED UNDER A CREATIVE COMMONS ATTRIBUZIONE-NON OPERE DERIVATE 3.0 UNPORTED LICENSE. BASED ON A WORK AT WWW.TYSM.ORG

[cite]