philosophy and social criticism

Dante, la lingua cambiata

di Corrado Bologna

Una volta Jac­que­line Ris­set chiese a Fede­rico Fel­lini, suo ammi­rato ammi­ra­tore: «Farai qual­cosa su quell’amico mio, che è anche un amico tuo?». Il terzo amico di quel grup­petto geniale di arti­sti, «sul quale» occor­reva «fare qual­cosa», era Dante. Le pagine di L’Incantatore. Scritti su Fel­lini (Milano, Libri Schei­wil­ler 1994) dimo­strano quanto la poe­sia dan­te­sca ron­zasse come l’oistrossocra­tico nella mente del regi­sta. «La Divina Com­me­dia in film? Non lo farò mai», rispose Fel­lini, «per una ragione sem­plice: que­sto film, Dante lo ha già fatto. È unvisivo così geniale, così pre­ciso attra­verso le parole, che non vedo quale senso potrebbe avere il fatto di aggiun­ger­gli delle imma­gini».
Cogliendo e ana­liz­zando la visi­vità e visio­na­rietà astratte, asso­lu­ta­mente ver­bali, di Dante, la sua resi­stenza a venir tra­spo­sto in imma­gine, Fel­lini e Ris­set scri­ve­vano una pagina non pic­cola di erme­neu­tica sulla Com­me­dia.

Le tappe del viag­gio dan­te­sco scan­di­vano per entrambi il per­corso della crea­ti­vità: la catà­basi allu­ci­nante nell’inconscio, l’impasse della ste­ri­lità e la lotta per uscirne, la resur­re­zione alla luce. E Fel­lini rico­no­sceva in quel cam­mino alle­go­rico di Ogni Uomo (così, «Eve­ry­man», Ezra Pound defi­niva Dante) lo sfondo dell’intero suo per­corso arti­stico: «Che cosa ho fatto, in fondo, ogni volta, se non qual­che discesa agli inferi, con qual­che bagliore di Pur­ga­to­rio e di Paradiso?».

Una discesa agli inferi, con molti bagliori di Pur­ga­to­rio e di Para­diso, compì anche Jac­que­line Ris­set: da stu­diosa, da poe­tessa, da tra­dut­trice. «Tra­durre Dante è un’operazione rischiosa», scri­veva già nel 1985, pre­sen­tando il suo Inferno da Flam­ma­rion (il Pur­ga­to­rio sarebbe appro­dato nel 1988, il Para­diso nel ’90); «ma tra­durlo in fran­cese lo è ancora di più». E ricor­dava l’opinione di Antoine de Riva­rol che, nel 1783, accom­pa­gnando la ver­sione dell’Enfer, denun­ciò la sfida lan­ciata da Dante a qual­siasi tra­dut­tore, con le sue «biz­zar­rie», i suoi «enigmi», le «espres­sioni più basse»: «nulla gli sem­bra degno di disprezzo», aggiun­geva Riva­rol, «e la lin­gua fran­cese, casta e timo­rata, si sgo­menta ad ogni frase».

Jac­que­line Ris­set rifletté, più che sulla natura «cha­ste et timo­rée» della sua lin­gua materna, su quanto iso­lato sia rima­sto Rabe­lais nella tra­di­zione fran­cese, «che si è costi­tuita, sto­ri­ca­mente, come essen­zial­mente “alta” ed omo­ge­nea»; e con­cluse che con Dante «l’estetica – e l’etica – clas­sica tre­mano…».
Il plu­ri­lin­gui­smo e l’espressivismo della Com­me­dia, il passo caden­zato della ter­zina, il pul­lu­lare dei nomi pro­pri e dei neo­lo­gi­smi, insomma la pla­stica dell’invenzione linguistico-mentale che pre­siede all’edificazione del più geniale testo meta­fo­rico e alle­go­rico di ogni tempo, richie­dono un’adesione radi­cale al pen­siero poe­tante dan­te­sco, alla sua altis­sima e irri­pe­ti­bile «liai­son du lan­gage», e impon­gono di con­qui­stare quella «coin­ci­denza dei tempi forti del ritmo con i tempi forti del pen­siero» di cui par­lava Remy de Gour­mont, così caro già a Pound.

Nella Divine Comé­die di Jac­que­line Ris­set la voce di chi tra­duce coin­cide con quella di chi com­pone poe­sia: «La tra­du­zione è a sua volta scrit­tura e inven­zione, e pro­lun­ga­mento del testo. Il tra­dut­tore deve seguire e cogliere il pen­siero» dell’originale, rinun­ciando a «resti­tuire ad ogni costo la poli­se­mia. Le tra­du­zioni auten­ti­che sono più chiare dell’originale». Credo che Wal­ter Ben­ja­min avrebbe con­di­viso quest’idea, lui che nel sag­gio Il com­pito del tra­dut­tore insi­steva sulla «soprav­vi­venza del testo tra­dotto attra­verso la tra­du­zione», e rico­no­scendo la dia­let­tica tra «l’affinità delle lin­gue» e la loro irri­du­ci­bile «estra­neità» intuiva che «la legge della tra­du­zione è rac­chiusa nell’originale, o nella sua traducibilità».

«Amor che nella mente mi ragiona. / Amour qui résonne / qui rai­sonne», scan­di­sce l’incipit di una sua poe­sia in Amour de loin (1971): in quell’inglobare la lirica di Dante nella pro­pria, e in quel gio­care sull’identità sonora e la diva­ri­ca­zione seman­tica, intra­du­ci­bile, fra «risuona» e «ragiona», traduzione-ricreazione fran­cese dell’originale, si annida la trac­cia dell’ispirazione dan­te­sca che ha sem­pre nutrito la poe­sia di Jac­que­line Risset.

Jacque­line poe­tessa e tra­dut­trice, tenendo davanti agli occhi un modello da lei già con molta intel­li­genza illu­strato, quello di Joyce che nel 1938 aveva volto in ita­liano brani del Fin­ne­gans Wake, inco­min­ciò, così, la sua lunga bat­ta­glia con­tro l’angelo, su e giù per la scala delle ter­zine della Com­me­dia: libro che tra­scrive in forma di parole, «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squa­derna» (Par., XXXIII 86–87), scon­fi­nato «Tea­tro della Memo­ria, depo­sito per l’immaginazione, riserva di imma­gini su cui l’immaginazione si eser­cita», «poema sacro» com­po­sto dal cielo e dalla terra (Par., XXV 1–2), ma bal­bet­tato dal «fante che bagna ancor la lin­gua alla mam­mella» (Par., XXXIII 107–8).

Jacqueline Risset
Jac­que­line Risset

Glo­ria e umiltà del tra­dut­tore. È ancora una volta la memo­ria di quel Joyce auto-traduttore a riap­pa­rire, nel com­mento che accom­pa­gna la tra­du­zione delle rime dan­te­sche uscite due mesi dopo la scom­parsa di Jac­que­line, nel novem­bre scorso (Rimes, Paris, Flam­ma­rion 2014, pp. 405, euro 25), a pro­po­sito della can­zone tri­lin­gue (fran­cese, latino, ita­liano) Aï faux ris. Con un rove­scia­mento sto­rico che ripro­duce il per­corso della nostra coscienza di inter­preti nove­cen­te­schi, Ris­set rico­no­sce «un côté joy­cien» nella poe­sia di Dante, ram­men­tando l’intuizione del grande scrit­tore irlan­dese: «Padre Dante mi per­doni, ma io sono par­tito dalla sua tec­nica della defor­ma­zione per rag­giun­gere un’armonia capace di vin­cere la nostra intel­li­genza, come la musica».

Durante l’immane fatica della mente e del cuore nel rime­di­tare in fran­cese la Com­me­dia, risil­la­bando nella sua lingua-madre quella sua lingua-figlia, Jac­que­line fece una sco­perta stu­penda, che ci aiuta a com­pren­dere un poco più a fondo il segreto del dan­te­sco Libro dell’Universo: «Dante, descri­vendo ai suoi let­tori il para­diso, applica il metodo che Dio ha appli­cato con lui: tra­duce. Il Para­diso è abbor­da­bile solo in tra­du­zione. La presa diretta, come il sor­riso di Bea­trice, farebbe male». Come chi lo tra­duce, dun­que, anche Dante è un tra­dut­tore. La sua parola è tra­scri­zione ver­bale di un’ispirazione segreta («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta den­tro vo signi­fi­cando»: Purg., XXIV 52–54), che spira pro­prio dall’«Amor che move il sole e l’altre stelle».

Nella sot­tile e ful­mi­nea arte della memo­ria di traduttrice-interprete dan­te­sca Jac­que­line Ris­set riu­scì (per ripren­dere un’altra idea di Fel­lini in dia­logo con lei) a «ricor­dare l’irrappresentabile, l’informulabile», cogliendo quelli che lei stessa chiamò «istanti fuori della trama».

Sono certo che pen­sava a Dante, quando par­lando dell’amico regi­sta coniu­gava l’immensità e l’agilità, lo slan­cio visio­na­rio e la paura dello spro­fon­da­mento, e scri­veva che «tutti i suoi film sono costruiti sul regime dell’apparizione», e che insomma il cen­tro di quella visio­na­rietà è «l’apparire dell’apparizione nell’istante».
«L’apparire dell’apparizione nell’istante»: una defi­ni­zione per­fetta del Para­diso, e della poe­sia. E poi, istante è una parola-chiave della poe­sia di Jac­que­line stessa, come punto in Dante.

I pen­sieri dell’istante sono gli scritti a lei dedi­cati tre anni fa da amici e allievi (Roma, Edi­tori Inter­na­zio­nali Riu­niti, 2012). Les instants, les éclairs, si inti­tola l’ultimo libro da lei pub­bli­cato, da Gal­li­mard, nel gen­naio del 2014.
È nella pagina d’apertura di que­sto libro estremo, scritto in paral­lelo alle rime dan­te­sche, che mi sem­bra di cogliere la pre­mo­ni­zione e l’addio di Jac­que­line Ris­set, ma anche, nono­stante tutto, la sua pro­fes­sione di fede nella memo­ria del futuro: «Si je mour­rais, mour­ra­ient aussi tous les autres? – Non, mais ils sen­ti­ra­ient peut-être une dimi­nu­tion d’être»; «Se io morissi, mori­reb­bero anche gli altri? – No ma sen­ti­reb­bero, forse, una dimi­nu­zione di essere». Leg­gere i suoi libri, le sue poe­sie, le sue tra­du­zioni, ci fa dono d’un aumento di essere.

da il manifesto, 10 aprile 2015

[cite]

 

tysm literary review

vol. 22, issue no. 22

april 2015

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