philosophy and social criticism

Fuori cliché: passaggi di genere tra identificazione e scelta

«Il Reale, da parte sua, conosce solo distanze, il Simbolico maschere; solamente l’Immagine (l’Immaginario) è vicina, solamente l’immagine è vera (può produrre l’eco della verità)»[1] .

Partendo da questo assunto teorico, la scelta di affrontare una pellicola per trattare il tema di questo convegno sulla questione maschile è sembrata la più confacente, dal momento che nessun linguaggio come quello cinematografico è oggi in grado di intercettare e di analizzare questioni urgenti per la comprensione del mondo e delle società.

A tal proposito il film Les garçons et Guillaume, à table! opera prima prodotta nel 2013 dall’attore teatrale Guillaume Gallienne, membro dell’autorevole istituzione dell’Académie Française, si presta ad un’interessante analisi delle tematiche inerenti alla discussione qui affrontata, partendo dal presupposto che dibattere sul genere sessuale non può più essere una questione immanente, alla luce degli studi sul genere e la differenza che hanno caratterizzato la disputa negli ultimi trent’anni.

Gallienne ha esordito nel cinema partecipando alla sezione del festival di Cannes Quinzaine des Réalisateurs nel maggio del 2013 dove la sua opera è stata accolta durante la proiezione per il pubblico da un’ovazione interminabile, cui sono seguite recensioni molto lusinghiere. Successivamente la pellicola ha vinto cinque premi César di cui quattro solamente per la regia e l’interpretazione di Guillaume.

Con il medesimo titolo, l’opera aveva calcato il palcoscenico per tre anni consecutivi raccogliendo un notevole successo di pubblico e di critica.

Il film ha venduto ben due milioni di biglietti solo in Francia, annoverandosi tra le commedie più viste negli ultimi anni e la ragione di questo successo è da ricercarsi nel fatto che raramente si era riusciti nelle commedie transalpine a commuovere e a divertire il pubblico, raccontando una vicenda in cui il protagonista si spoglia di ogni inibizione e in prima persona mostra, senza censure, la propria esperienza di bambino e di adolescente, alle prese con l’incessante ricerca della propria identità, in un contesto familiare sui generis.

Gli elementi narrativi della storia sono molto semplici: Guillaume è membro di una famiglia dell’alta borghesia parigina, la madre Mélitta è un’aristocratica russo-georgiana, il padre (il cui nome non viene mai citato tanto nel film, quanto nel libro Les Garçons et Guillaume à table! Les Solitaires et Intempestifs, Éditions, 2009; pubblicato nel 2014 in Italia da Frassinelli) è un facoltoso uomo d’affari francese.

Intorno a loro si muovono i suoi due fratelli, la nonna materna Lyla e due zie. Tutti ruotano intorno al giovane Guillaume tra le mura del lussuoso appartamento del XVI arrondissement, i castelli e le amene ville campestri di proprietà.

Guillaume cresce con il desiderio di esaudire ogni capriccio della madre adorata, in primis quello di avere una figlia, e non importa se Mélitta non dichiari mai questa sua predilezione nel film, per Guillaume è scontato che la figlia ideale, quella che la madre non ha partorito ma che lui ha deciso di interpretare nella vita e nel suo particolare e personale palcoscenico domestico, sia e debba essere solo lui.

Gli elementi caratterizzanti di quest’opera cinematografica, realizzata con lo scopo di esaltare la personalità materna al meglio, più di quanto non sia stato possibile ottenere a teatro, sono l’incessante volontà di Guillaume di esternare il proprio amore alla madre e la ricerca di forme espressive adatte a realizzare questo scopo.

Se sul palcoscenico Guillaume interpretava contemporaneamente tutti i personaggi dell’intreccio, al cinema si sdoppia nella rappresentazione di se stesso e di Mélitta, il cui carattere, il piglio e la voce assumono per compensazione toni e caratteristiche maschili, per rafforzare le movenze tipicamente femminili e quindi aggraziate, che l’attore vuole donare al suo personaggio, a rimarcare una differenza tra i due che in realtà è funzionale alla resa comica di una storia che si snoda su piani drammaturgici diversi, abbracciando la leggerezza delle situazioni, spesso al limite della caricatura, e liberando qua e là momenti di intimo e mai troppo esibito dolore e smarrimento.

Il film si apre nel camerino di un teatro dove il Nostro si specchia e si deterge il viso coperto dal cerone prima di calcare la scena. L’atto in sé è irrituale e contrario alla prassi teatrale.

A teatro è la maschera ad andare in scena e non la persona (questo gesto sembra voler ripristinare l’etimo della parola “persona” per come era in uso nelle società greco-romane ad indicare la maschera di legno che gli attori indossavano a teatro e che successivamente è stata sostituita dal termine “personaggio”), ma l’operazione che ha avuto modo di dichiarare Gallienne in numerose interviste, ha il carattere di una confessione in cui si cerca, entro l’ambito regolamentato di regole e procedure consolidate dalla messinscena, di raccontare la propria versione dei fatti e la propria verità.

Al cospetto del pubblico teatrale che è accorso per lo spettacolo e che ricorda agli avventori della sala cinematografica che stiamo assistendo ad un’opera che si snoda tra palcoscenico e vita reale (ovvero le magnifiche dimore di famiglia, alcune scene girate in Spagna, dove Guillaume si reca in una vacanza-studio, e infine i college dove studierà nei mesi estivi) ha inizio la vicenda, al cui centro un solo attore agisce e pensa per due (persone/personaggi), intrattenendo i membri della famiglia incarnati da figure secondarie ma funzionali all’azione, per un fittizio pubblico teatrale e per noi pubblico in sala.

Il rapporto che lega Mélitta e Guillaume è un rapporto simbiotico ma non convenzionale. Mélitta non è in nessun aspetto una donna e una madre comune, al contrario porta in sé le caratteristiche di una personalità fuori dalla “norma” anche per il contesto altoborghese in cui vive ed è cresciuta. Il suo appartenere all’aristocrazia russa e non francese la rende diversa: se da una parte trascorre le sue giornate tra letture e ospiti, dall’altra intrattiene con i domestici un rapporto di disinvolta consuetudine, non facendo loro pesare il diverso status di provenienza trattandoli alla pari, incrementando semmai le caratteristiche eccentriche che vigono nella sua famiglia di origine e che riguardano tanto lei quanto sua madre Lyla e le sue sorelle.

Nonostante questo, ella ha un carattere ispido, cinico e poco conforme alle regole della buona convivenza:

«Mia madre è molto pudica, non le piace aprirsi e sfogarsi».

(…) «La mia mamma è super intelligente. La mia mamma è un genio! Secondo me non ha nemmeno un difetto… la mia mamma».

«Ecco, forse l’unico è il cattivo umore che dura da trentacinque anni. Da quando sono nato, sì».

«Ma allora, sarei io la causa? no, eh!».

«Esempio: quando risponde al telefono ha sempre un tono irritato, tipo: ” sì! prontoo?” e aggiunge sempre un sospiro per far capire bene a chi chiama che disturba, e tanto, anche. Il motivo è che trascorre le giornate senza far nulla e perciò usa il tono irritato per far sembrare che l’hanno disturbata e che quindi sta facendo qualcosa. È o non è super intelligente?»[2].

«Oscilla di continuo fra un immenso calore e una freddezza glaciale. E passa dall’uno all’altro senza posa, ma, soprattutto, senza una via di mezzo. Per esempio, proprio l’altro giorno si è seduta sul divano dicendo: ah, finalmente si riesce a mangiare una volta da soli, mi sono proprio rotta di avere gente per casa».

Nemmeno il tempo di finire la frase che la cuoca è entrata in salotto per annunciare che i genitori del piccolo Fabien, compagno di classe di uno dei miei due fratelli, erano in cucina.

«E che cacchio ci fanno qui?».

«Il signore li ha invitati a pranzo, signora».

«E che cacchio! Va bene, tu vai ad avvisare tuo padre… che palle! E tu falli accomodare, non possono certo restare in cucina! Che rottura! Mai che possa stare un po’ tranquilla! Ma buongiorno! Tutto bene? Che bello ritrovarsi, eh? Ne sono davvero lieta. Quanto tempo, eh?

Ma prego, accomodatevi. Gradite qualcosa da bere?… Gradite qualcosa da bere?».

«!!!»

«EHI! PRONTO?!?! Gradite qualcosa da bere? Forza amico, dai che ce la fai, dillo! Tre ore per che cosa, un deca e una Perrier? Attenti a non esagerare! Vai a preparare un deca e una Perrier per i signori, qui»[3].

Guillaume nutre per la madre un amore che non ha mai superato la complessa fase di dis-identificazione che ogni bambino deve attuare per crescere e appropriarsi della propria identità.

Quello che lega Guillaume a Mélitta, nonostante sia oramai diventato adolescente, è una profonda identificazione che gli fa assumere movenze e abitudini uguali a quelle materne, incrementando in lei la convinzione che per quel figlio non esisterà mai un’altra donna all’infuori di lei; cionondimeno, non sarà mai una madre smaccatamente possessiva e inibente, al contrario ella permetterà al figlio di attraversare tutte le fasi della sua personale crescita emotiva, lasciandolo libero di agire e di scegliere a suo piacimento le esperienze da vivere.

A tal proposito abbiamo selezionato un passaggio della relazione dello psichiatra e psicoanalista Ralph Greenson presentata in occasione del XXV Congresso internazionale di psicoanalisi organizzato a Copenhagen, nel luglio 1967:

«The male child ability to dis-identify will determine the success or failure of his later identification with his father. These two phenomena, dis-identifying from mother and counter-identifying with father, are interdepender and form a complementary series. The personality and behaviour of mother and father also play an important and circular role in the outcome of these developments (Mahler and La Perriere, 1965). The mother may promote or hinder the dis-identifying and the father does the same for counter-identification»[4].

Come si diceva precedentemente infatti, la figura paterna nella storia di Guillaume è secondaria anche se non invisibile.

In una scena iniziale del film vediamo Guillaume abbigliato da principessa Sissi grazie ad un travestimento posticcio creato con un piumone messo a guisa di gonna e un maglioncino per capigliatura.

Nel bel mezzo della messinscena, il padre irrompe nella camera da letto e vedendo il figlio così acconciato lo apostrofa malamente con questa domanda:

«Ma che cavolo combini? Cos’è ‘sta roba?»[5].

«Che cosa, questo?».

«Sì, questo!».

«Sì ecco. È che quando dormo, la notte, mi agito un sacco e poi mi sveglio per il freddo perché la coperta mi scivola via, allora se me la lego con la cintura sono sicuro che resta al suo posto. Capito come?»[6].

Da quel momento in casa sarà attivato il riscaldamento su una media di 28° …!

Sulla scia di questo episodio si inserisce un altro quadretto asburgico dove Guillaume impersona Sissi e l’arciduchessa Sophia mentre parlano dell’amato Francesco Giuseppe.

In quel frangente Guillaume prende le sembianze della sua eroina Elisabetta (detta Sissi) e contemporaneamente dell’arcigna suocera Sophia, che per durezza e stile potrebbe assomigliare (nelle intenzioni di Guillaume stesso) a Mélitta.

In altre due situazioni il padre interviene polemicamente verso Guillaume: al ristorante, quando il ragazzo con incedere da mannequin indossa una stola e viene redarguito dal genitore che lo apostrofa con un commento poco lusinghiero nel silenzio generale dei familiari e infine, quando in un momento di ilarità Guillaume, approfittando della situazione di debolezza del padre (davanti allo specchio del bagno e seminudo), imita a meraviglia la voce di Mélitta, ingannandolo completamente.

Questo episodio segna un momento topico. Quando il ragazzo si accorge di aver fatto credere a suo padre di essere sua moglie, scappa nella camera dei genitori e di fronte alla madre sdraiata e sotto le coperte esulta per la felicità di averla finalmente imitata alla perfezione, anche al cospetto dell’uomo che la conosce intimamente, sostituendosi a lei.

Nel sopracitato saggio di Ralph Greenson i casi di bambini che indossano abiti femminili (cross-dressing) sono frequenti nei nuclei familiari dove il materno assume un riferimento di maggior attrazione e dove la figura paterna appare debole, assente o fortemente criticata dalla madre stessa.

In questo caso, Mélitta è il perno su cui Guillaume fa ruotare la sua esistenza, mentre il padre non è che una figura di contorno.

«Sono bravissimo a imitare mia madre… quel suo modo di parlare! che forza! sono così bravo che posso anche chiamare la cuoca per cambiare il menu del giorno, perché al telefono mi prende per lei».

«Sì, prontoooo? Maria!».

«Mi dica, signora».

«Dimmi, oggi cos’è che hanno da mangiare?».

«Fegato di vitello signora, come ogni giovedi».

«Ah già! no, no, senti, meglio se fai una sogliola, va bene? Ai ragazzi piace un sacco e poi Guillaume ha bisogno di fosforo».

«Sì, signora».

«Grazie Maria»[7] .

Il mondo di Guillaume infatti è un gineceo nel quale tutte le donne sono elementi da imitare: la nonna Lyla che sta attraversando una fase di demenza senile (esilarante la scena a tavola dove la signora sbaglia le parole senza accorgersene, innescando una serie di imbarazzanti e divertenti equivoci), la zia che lo vorrebbe invitare alle sue feste mondane per divertire gli ospiti (chi meglio di questo ragazzo delicato e inconsapevolmente comico?) e l’altra zia che lo invita al gay pride di Los Angeles, credendo così di liberarlo dalla paura di compiere un liberatorio coming out).

Questo momento delimita un ulteriore cambiamento nella vita di Guillaume. Egli infatti non è più soltanto la figlia prediletta (il titolo della piéce si ispira ad una frase pronunciata da Mélitta quando Guillaume ha appena cinque anni e indica la profonda differenza di rapporti che vigono tra lei e i suoi tre figli. Guillaume è talmente diverso da meritarsi un trattamento speciale: les garҫons et Guillaume à table! è ciò che infatti ripete la madre per richiamare la loro attenzione…) ma ormai cresciuto, viene definito e accettato in quanto omosessuale da tutti i componenti della casa.

«Sei talmente gay, che sembri una lesbica!»

sbotta Mélitta in uno dei suoi momenti di ironico cinismo.

Come avviene nelle prime sequenze del film, dove vediamo Guillaume decidere di studiare lo spagnolo direttamente in Spagna, per ovviare al senso di angoscia che lo fa sentire diverso e sminuito al cospetto dei fratelli sportivi e molto virili, e per questo altamente considerati dal padre, anche in questo cruciale snodo esistenziale.

“Il viaggio mi allontana dalla depressione”, afferma durante una seduta di psicoterapia.

Egli decide con l’ampio consenso di Mélitta di frequentare il collegio, dando modo alla donna di liberarsi di una presenza ingombrante e a se stesso di “scalare” le avversità della sua condizione di replicante.

E se nel primo collegio in Piccardia, è vittima di bullismo da parte dei compagni che ne ravvedono modi e gusti femminili, nel secondo il Nostro si innamora di Jeremy confermando a se stesso quell’omosessualità che tanto viene citata in famiglia (con grande scherno da parte dei fratelli, con benevola accettazione da parte della componente russofona, dedita alla conservazione di regole e galateo eccentricamente differenti dal conformismo benpensante della borghesia parigina).

Nel bucolico contesto inglese dove il numero dei cliché utilizzati a definirne il clima culturale e geografico è cospicuo, come già era avvenuto nella descrizione del “periodo spagnolo” di Guillaume, durante le prime scene del film, il nostro personaggio accumula esperienze e azioni che hanno tutta l’intenzione di descriverlo non più solo, timido e impacciato, ma già conforme alla maniera con cui si usa connotare e rappresentare un giovane gay alle prese con una cotta non corrisposta.

Lo vediamo impegnato in improbabili partite di rugby dove l’unica ragione della sua presenza in squadra è il contatto con Jeremy, o mentre canta nel coro della scuola ritagliandosi l’assolo finale in un falsetto ben poco virile.

Nel saggio Technologies of Gender: Essays on Theory, Film & Fiction (Indiana University Press, 1987) Teresa De Lauretis sostiene che l’esperienza svolge un ruolo cruciale nella formazione della soggettività e anzi, è proprio alla sua sfera che possono essere riportati quei tratti che definiscono la figura femminile, quali corpo, affettività, esclusione che sono alla base della sua identità di genere.

Laddove Guillaume è alle prese con un contesto in cui la sua omosessualità o presunta tale viene ignorata (Jeremy ne è consapevole e nonostante questo non rifiuta la sua vicinanza né la sua amicizia leale e tenera) il suo modo di agire è libero, naturale e rilassato.

Quando invece si ritrova in famiglia, ormai rientrato dal college, dopo una colluttazione con uno dei fratelli in piscina, in cui rischia di venir affogato, di fronte alla madre che lo vede piangere a dirotto per lo spavento appena provato, si schermisce davanti alla dichiarazione di Mélitta che lo invita a confessare la sua omosessualità una volta per tutte e senza paura.

L’esperienza familiare di Guillaume dunque è dentro l’immagine restituita dallo specchio di Mélitta, ovvero da una madre dura e tranchant, ironica, pudica, senza regole preconcette e fuori dai cliché. Quando era un bambino Mélitta lo voleva vicino a sé come la figlia di famiglia, ma quando si accorge che il rischio di simulazione può soffocarla e soffocare lui stesso, se ne libera “gettandolo” nel mondo per renderlo finalmente consapevole e maturo.

Lungi dal voler assomigliare alla madre ficcanaso e onnipresente di Sheldon nel film ad episodi New York Stories diretto nel 1989 da M. Scorsese, W. Allen, F.F. Coppola, dove nell’episodio Edipo Relitto di W. Allen, la madre scomparsa, riappare in cielo minacciosamente come un temporale oscurante, da cui sbandierare ai quattro venti le gesta del figlio (una petulante madre ebrea che perseguita il figlio insicuro).

Mélitta, che vediamo in alcune scene del film come presenza fantasmatica e silenziosa di fronte alle insicurezze di Guillaume, sembra dover essere soprattutto una sorta di testimone/guida di un ragazzo che, temendo il mondo la richiama a sé, per sentirsi meno solo e fragile.

Una sera la zia che vive a Los Angeles capisce lo smarrimento del nipote di fronte alla sua condizione di innamorato deluso (ha scoperto con grande sofferenza che Jeremy ama una ragazza) e sente di doverlo rassicurare dicendogli che capirà chi è e cosa vuole solo quando avrà amato veramente qualcuno.

La risposta a questo dramma sentimentale che la zia anticonformista regala al nipote sofferente pare essere ispirata alle teorie femministe post strutturaliste che hanno largamente arricchito il dibattito sul genere e la differenza negli ultimi decenni.

In Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (Routledge Classics, 2006) infatti, Judith Butler identifica nel corpo una frontiera materiale e simbolica inserita in una cultura che ha ormai affrontato la crisi del soggetto moderno in cui l’identità, il genere e persino la stessa materia, si disfano di ogni stabilità per divenire processo, movimento, nonché passaggio utopico ad un piano di perpetua mutazione. Una performatività corporea costruita come quella del soggetto transgender.

Invitato a capirsi e conoscersi meglio dalla madre, dall’amata nonna e dalle zie, Guillaume accetta la sfida e affronta ironicamente (e non senza paura) i locali gay più trasgressivi, alla ricerca di esperienze formative.

Ma anche questa volta, proprio come avvenne nella SPA in Baviera, i doppi sensi e gli equivoci sono la chiave per superare un’impasse evidente: nessuna di queste esperienze è quella che le appartiene.

Al momento, l’omosessualità che oramai gli è stata cucita addosso da tutti, ha un solo grande vantaggio: lo farà esonerare dal servizio militare!

Il film è sulla via della conclusione. Guillaume ha passato esperienze durissime con il sorriso sulle labbra e solo qualche volta, raramente, facendosi travolgere dal pianto.

Si è difeso dalle paure e dalle fragilità saccheggiando il frigorifero, come fanno molti adolescenti o si è rifugiato all’estero. Ha sognato con Sissi, imitando la madre. Ha amato Jeremy e dichiarato amore perenne alle donne, creature che ha conosciuto attraverso la madre e le donne di famiglia, piene di grazia e di candore (questa è l’immagine nostalgica e innatista che Guillaume conserva delle donne conosciute).

Una cena a casa di un’amica, quando ormai il suo cuore sembra aver preso una pausa dalla vita, lo riporta alla realtà.

Basta uno sguardo per capire che la ragazza seduta accanto è il suo futuro: Amandine, bella e gentile come lui.

Qualche giorno più tardi a casa, al cospetto della madre, Guillaume è in vena di confidenze:

«Mamma, devo dirti due cose importanti: scriverò una piéce teatrale di questi ultimi anni e… poi beh, io e Amandine ci sposiamo!».

Mélitta non vuole credere alle sue orecchie e ribatte:

«Con chi???».

«Con chi? Mamma! Io e Amandine ci sposeremo. Io e lei. Insieme!».

«Ma dài! Non mi vorrai mica dire che adesso fai il frocio pentito, eh???».

Per la prima volta Mélitta ha paura di perdere quel figlio tanto amato che ora vede dirigersi verso una donna che non è lei, dopo anni in cui ogni dubbio che lo assaliva lo riportava dietro la sua severa e al contempo bizzarra ala materna.

La scena si chiude così… sul primo piano della vera Mélitta seduta tra il pubblico del teatro che piange commossa di fronte alla bravura del figlio attore e artista e da poco tempo anche marito e padre.

Nessuna retorica. Gallienne ha sostenuto in diverse interviste che se fosse stato ricambiato da Jeremy probabilmente la sua storia sarebbe stata diversa.

Parafrasando la celebre frase che Simone De Beauvoir ha scritto nel saggio Il secondo sesso (Le Deuxième Sexe, 1949) ci troviamo d’accordo nel sostenere che:

Uomini non si nasce, si diventa.

Ma non è un destino e neppure un’ assioma costruito sulla biologia, quanto un processo che avviene dopo una serie di esperienze che attengono alla crescita dell’individuo in seno alla famiglia, al rapporto coi genitori, a scuola e dentro le istituzioni statali, negli ambienti frequentati, attraverso il linguaggio, la sessualità esperita, la condizione sociale, l’epoca storica, il contesto economico di riferimento…

Il ragazzo che amava le donne, ha trovato una donna da amare dopo varie peripezie.

Isabelle Adjani che con Gallienne ha lavorato a teatro lo ha pubblicamente ringraziato per averle mostrato “come nasce un attore”.

Questa frase più di altre, restituisce a quest’opera cinematografica, teatrale e narrativa la sua giusta collocazione: Guillaume ha formato dentro il fragile simulacro che lo conteneva, il suo estro, la sua arte.

Ha risposto con grande forza e coraggio a tutte le critiche provenienti da amici e fratelli, dal padre, dalla madre stessa, conquistando un’identità mobile, eclettica e fantasiosa, diventando un grande attore in grado di svelare segreti e dolori al proprio pubblico.

 

Note

[1] Roland Barthes, “Uscendo dal cinema”, in Sul cinema, trad. it., Il Melangolo, Genova, 1994, p. 148.

[2] Guillaume Gallienne, Tutto sua madre, Frassinelli, Milano, 2014, pp. 12 e 13.

[3] Ivi, pp. 14 e 15.

[4] Dis-identifying from mother: its special importance for the boy, in Int. J. Psycho-Anal. 49, p. 370.

[5] Ivi, p. 22.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, pp. 15 e 16.

 

[cite]

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