philosophy and social criticism

Il cinema del male

di Francesco Paolella

Nota su: Marco Peano, L’invenzione della madre, Minimum fax, Roma, 2015.

Davvero per un caso, mi è capitato di leggere, uno subito dopo l’altro, due libri, i quali, pur così diversi per mille ragioni, raccontano di una morte (anzi, entrambi della morte di una madre) e delle sue conseguenze. Si tratta de L’invenzione della madre, e del Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi. Ripeto, mille cose li separano: ma in tutti e due si tratta, in fin dei conti, di una storia d’amore, quasi il diario di una fusione (tra un uomo e una donna, tra un figlio e la madre), che la morte – improvvisa o lungamente sofferta – non potrà che immortalare.

Il libro di Marco Peano descrive la fine di una donna, colpita e vinta, dopo anni di cadute e di riprese, dal cancro. La malattia riesce a impossessarsi di lei, una madre di cui non conosciamo il nome: la “occupa” dall’interno, si diffonde nei suoi organi, ne fa un campo di battaglia e poi, alla fine, il proprio trionfo.

Peano ha scritto un libro crudo, a tratti crudele, ma non lo ha fatto inutilmente: quella che si dice la “miseria del corpo”, le piaghe, le disfunzioni sempre più gravi (e umilianti) delle attività fisiologiche più elementari, il diradarsi del pensiero e della memoria: tutto serve per mostrante quanto il cancro possa vincere, vincerci.

Cosa significa, essendo un figlio, assistere a questo scempio sul corpo della propria madre? E cosa significa, in seguito, diventare orfani? Non si smette, col passare del tempo, di odiare quel male che ci toglie la luce e l’aria, togliendo la vita a chi amiamo. E, odiando la malattia, può capitare (anzi, forse è inevitabile) di trascendere, di fare confusione, e non sopportare più ciò che vediamo. Il ruolo di assistenti, di familiari-curanti, di “agevolatori”, per così dire, della malattia (ossia: accompagnare il malato verso la morte), diventa intollerabile: così ci si ribella contro tutto e persino contro chi si ama così tanto.

Non ci si ribella soltanto contro il fatto di dover essere presto abbandonati – e non si è mai abbastanza vecchi da non subire il fatto di diventare orfani. Ci si arrabbia contro la malattia che ha trasformato la persona che conosciamo, cambiandola, rendendola un essere immobile e dolorante, incapace ormai di ascoltarci e aspettarci.

Mattia, il figlio che racconta l’agonia della madre, è un giovane aspirante regista. Il suo sogno è (sarebbe) quello di partecipare a una prestigiosa scuola di cinema. Per il momento, lavora come commesso in un piccolo negozio di paese dove si noleggiano film (una di quelle attività ancora diffuse pochi anni fa e che oggi appaiono già lontanissime nel passato).

La sua vita diventa una lotta, impossibile da vincere, per cercare di trattenere qualcosa della madre morente: registrandone l’immagine o la voce, riempiendo con l’aria uscita dai suoi polmoni dei palloncini… Mattia combatte per il suo, personale, “dovere della memoria”: teme più di tutto lo sfocarsi e l’irrigidirsi dei ricordi, teme il tempo del “dopo”, l’abbandono della memoria. Per questo è come se tentasse di creare per sé un fantasma della madre (qui di nuovo torna la coincidenza con il libro di Landolfi), uno spettro che possa rimanere con lui più a lungo, che ignori i tempi “umani” della morte, del funerale e del cimitero.

In questo senso, il libro di Peano sembra davvero una sceneggiatura: la sceneggiatura di un film la cui trama è tutta incentrata sulla lotta disperata tra un uomo e il cancro, che si contendono ogni frammento di un corpo e di una esistenza “posseduti”. Non può esserci liberazione reale, nemmeno con la morte: il figlio-orfano può imparare forse a convivere con il ricordo del dolore, custodirlo e, in un certo qual modo, farsi cullare da questo.

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tysm review
philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

july 2015

ISSN: 2037-0857

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