philosophy and social criticism

Il cinema di Pedro Costa. Intervista a Michael Guarneri

Giulia Zoppi

Michael Guarneri è dottorando in storia del cinema italiano presso la Northumbria University (Newcastle upon Tyne), e collabora in qualità di critico cinematografico a riviste cartacee/online come Film Comment, MUBI Notebook, BOMB Magazine, débordements e La Furia Umana. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la genesi del suo saggio monografico dedicato al cinema di Pedro Costa. Un lavoro documentato, denso e rigoroso su un cineasta la cui cifra é unica e conturbante e sulla quale ombre e verità trovano rari equilibri e magie.

Per iniziare vorrei chiederti come mai, tra tutti i cineasti di culto presenti e passati, italiani e stranieri, hai scelto di scrivere una monografia proprio sul filmmaker portoghese Pedro Costa.
Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costanasce da un precedente progetto intrapreso con Bébert Edizioni. Nel 2014 Bébert Edizioni inaugura la collana dedicata al cinema “24fps” con il volume Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, scritto da Marco Grosoli. Per Armonie contro il giorno, io ho curato un’appendice di interviste con il regista Béla Tarr, il direttore della fotografia Fred Kelemen e il compositore Mihály Víg. L’editore è rimasto molto soddisfatto del mio lavoro e mi ha proposto di scrivere un libro su un cineasta di mia scelta, al che io ho scelto Pedro Costa, un vero e proprio gigante del cinema a mio avviso, ma su cui non esisteva ancora uno studio monografico. Per me il cinema di Pedro Costa è un tesoro, un patrimonio dell’umanità, e con il mio libro spero di farlo conoscere al pubblico italiano, cinefilo e non.

Per introdurre Pedro Costa fai cenno, seguendo il filo dei suoi ricordi, ad alcune note biografiche relative alla sua infanzia e alla sua adolescenza. Leggendo il tuo libro veniamo a scoprire che il cinema non è stata una passione immediata, ma un approdo a cui Costa arriva quando gli studi di storia all’Università di Lisbona sembrano non dargli gli stimoli che andava cercando. Abbandonata l’infanzia silenziosa infatti, Costa si avvicina al movimento punk e al marxismo e, nel pieno della Rivoluzione dei Garofani dell’aprile 1974, mentre il regime dell’Estado Novo viene abbattuto da un colpo di Stato militare, comincia ad indirizzare il suo interesse verso la musica e la fotografia. Un periodo felice, per stessa ammissione di Costa… l’inizio di un percorso lungo e complesso. Ce ne puoi indicare i momenti più salienti?
La cosiddetta Rivoluzione dei Garofani dell’’aprile 1974 pone fine al mondo grigio, notturno e sorvegliato in cui Costa (classe 1959) è cresciuto, quello della dittatura clerico-fascista-colonialista dell’Estado Novo. Nel clima di euforia rivoluzionaria, l’adolescente Costa scopre il rock and roll, la politica, le ragazze, e si costruisce una seconda famiglia, una gang di giovani arrabbiati di ambo i sessi, il cui obiettivo è, per dirla con Fernando Pessoa, “perturbare gli animi” e “disorientare gli spiriti”: maoismo, sindacalismo anarchico, Sex Pistols… tutto è buono per il giovane Costa e la sua gang, a patto che sia eccessivo. Il sogno è quello di una rivoluzione permanente che dia finalmente un corpo allo spettro che dal 1848 si aggira per l’Europa, ovvero il comunismo. Purtroppo ogni fase rivoluzionaria è invariabilmente seguita da un riflusso normalizzatore e, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il Portogallo rientra nella sfera d’influenza del grande capitalismo imperialista occidentale. Per Costa, come per migliaia di altri sognatori giovani e meno giovani, all’ebbrezza del radioso aprile subentra la “ressaca”, ovvero “i postumi del giorno dopo” – un carico di sogni infranti che, come spiego nel libro, Costa tematizza nel corso di tutta la sua carriera, dal lungometraggio d’esordio O Sangue (1989)fino alla sua opera più recente, Cavalo Dinheiro (2014).Quindi, sì, un periodo felice, ma di una felicità agrodolce… “Una gioia già perduta ancor prima di essere raggiunta”, per citare una frase di Costa che mi ha particolarmente colpito. E cosa fai quando muoiono i tuoi sogni? O ti tagli le vene, o ti tagli i capelli e ti trovi un lavoro “serio”… Dal canto suo, Costa molla gli studi storici all’Università di Lisbona e si iscrive a una scuola di cinema. Il che non ho ancora capito se fu un tentativo di suicidio o un tentativo di mettere la testa a posto.

 

Il suo primo lungometraggio O Sanguesi distingue per la scelta di un poetico  bianco e neroin cui la sceneggiatura lambisce onirismo e mistero, dando prova di una sensibilità estetica già molto personale, ma ancora in nuce. Nel film successivo Casa de Lava(1994), dove approda a Capo Verde, luogo geografico e sentimentale che segnerà la sua scelta estetica nelle opere a seguire, il senso del mistero espresso nella sua opera prima e una propensione all’ermetismo, prendono una piega esotica tra i risvolti di una storia ricca di simbolismi e richiami ancestrali, che evocano atmosfere animiste e magiche. In Ossos (1997), Costa decide di partire da un fatto di cronaca (che funge da pretesto), per seguire un progetto cinematografico che nasce nel perimetro del quartiere lisboneta di Fontaínhas dove vive una comunità di immigrati africani provenienti dalle ex-colonie portoghesi, in condizioni di estrema povertà, nel quale sono giunti anche molti migranti di Capo Verde in cerca di una fortuna mai conquistata. Il film parla di Tina e della vita miserabile che ruota intorno a lei. Ossosè il primo approccio di Costa con quel martoriato quartiere della città. La pellicola si conclude con Tina che chiude la porta della sua baracca e lascia fuori la cinepresa, trasmettendo un senso di sgomento tanto nel regista che in noi spettatori che non saremo più testimoni di niente. In relazione a Ossos, Costa ha detto: “Il mio cinema è una porta che si chiude e che ci lascia intuire”. Vorrei che ci spiegassi meglio il significato di questa frase e che aggiungessi cosa hai intuito e visto tu, dietro a quella porta chiusa.
Cosa ho (intra)visto io dietro la porta chiusa del finale di Ossos? Come dice la borghese Irene visitando una fabbrica in Europa 51(1952) di Roberto Rossellini: “Ho creduto di vedere dei condannati”. Per quanto riguarda la frase “Il mio cinema è una porta che si chiude e che ci lascia intuire”, credo sia una perfetta sintesi non solo di Ossos, ma di tutto il cinema di Pedro Costa, basato più sulla suggestione che sulla spiegazione. Prendi O Sangue: a Lisbona, Clara appare a Nino prima come voce incorporea, poi come presenza sia sonora che visiva: è uno scherzo dell’immaginazione di Nino? Oppure, se di presenza in carne e ossa si tratta, come ha fatto Clara a rintracciare Nino al centro commerciale, all’Acquario Vasco da Gama e in un vicolo oscuro della metropoli? Non lo sapremo mai. Così come non sapremo mai perché “lo zio di Lisbona”, dopo aver rapito Nino e averlo portato nel suo appartamento, dice alla governante che “il nostro piano è riuscito”. “Quale piano?” chiede Nino poco dopo. Nessuna risposta. Prendi Casa de Lava: appena l’infermiera Mariana giunge al villaggio natale del suo paziente capoverdiano Leão, si trova immersa in un’atmosfera strana, quasi soprannaturale. I capoverdiani la chiamano per nome prima ancora che ella si presenti, e tutti sembrano sapere tutto di lei, mentre la giovane – e noi con lei – non riusciamo a capire nulla di nulla: a chi appartiene il grosso cane nero che attende Mariana e Leão appena sbarcati dall’aereo? Chi lo uccide pochi giorni dopo, e perché? Chi porta ogni mattina un cesto di mele a Mariana, e perché? Nessuna di queste domande trova una risposta chiara ed esplicita nel film. Parlando a più riprese con Costa durante la fase di ricerca, preparazione e stesura del libro, ho capito quanto lui vada fiero dei segreti custoditi nei suoi film; di quanto vada fiero di essere l’autore di un cinema che “invita lo spettatore al lavoro più che al piacere, o, per essere più precisi, al piacere del lavoro” (Alberto Seixas Santos). Per questo, nel mio libro, ho soprattutto cercato di aprire una serie di “interstizi” attraverso i quali, sotto la scorza di una prospettiva materialista dura e pura (la cronaca della lotta del “lavoratore” Pedro Costa per appropriarsi dei mezzi di produzione e creare uno studio cinematografico a conduzione familiare, in cui lavorare fianco a fianco con i suoi amici), possano infiltrarsi la magia nera, il voodoo, i demoni e tutte le strane creature della notte che rendono i film di Costa tanto misteriosi e speciali.

La crisi diCosta dopo la realizzazione di Ossos, opera realizzata in pellicola 35 mm con il noto produttore lusitano Paulo Branco, segna un momento di svolta radicale nel suo modo di girare e di pensare il cinema. Prima di tutto abbandona i fasti delle produzioni ad alto budget per un cinema povero e autoprodotto, quindi imbraccia una Panasonic DVX100 e si immerge nel secondo capitolo della trilogia di Fontainhas, No Quartoda Vanda(2000). Puoi raccontarci brevemente cosa accadedopo Ossose come nasce la trilogia che segna l’inizio di un modo di fare cinema che supera il paradigma estetico e si immerge in una dimensione politica ed etica tanto originale quanto radicale?
Per Costa la realizzazione di Ossosè un momento di rottura che egli ricorda tutt’oggi con una certa angoscia. Nel libro racconto molto dettagliatamente i vari problemi nati sul set di Ossos, un film quasi interamente girato nel quartiere di Fontaínhas, una sorta di ghetto in cui la corrente della Storia ha trascinato i poveri resti dell’impero coloniale portoghese e delle politiche agricole dell’Estado Novo. Sostanzialmente, nel quartiere di Fontaínhas il tradizionale modo di produzione cinematografica – con la sua occupazione manu militari dello spazio tramite decine di crewmen e quintali di attrezzature tecniche trasportate da mastodontici camion – non funziona. Ciò non soltanto da un punto di vista logistico-pratico (manca lo spazio per ospitare troupe e macchinari), ma anche e soprattutto morale. Per dirla con Costa: “Stavamo imponendo un sacrificio enorme a un quartiere già sfruttato da tutto il mondo, e che non aveva certo bisogno di essere sfruttato anche dal cinema. La gente di Fontaínhas aveva già un sacco di problemi: la polizia, la disoccupazione, la droga, il razzismo, il classismo… e ora ci si metteva anche il cinema!”. D’un tratto, emerge agli occhi del filmmaker la contraddizione tra la sua condizione privilegiata di artista medio-borghese, sorta di monarca assoluto protetto, servito e riverito durante le sei-otto settimane di lavorazione, e la cruda realtà di una bidonville i cui abitanti – proletari che lavorano duramente per arrivare alla fine del mese e sottoproletari che vivono alla giornata, di lavoretti saltuari, crimine ed elemosina – non hanno né il tempo né la voglia di assecondare i capricci di un flâneur-poeta-artista, dell’adolescente attardato quale Costa, per sua stessa ammissione, era all’epoca. Da qui, dopo il trionfo festivaliero di Ossos, la decisione di liberarsi di tutto l’apparato elefantiaco del cinema d’arte in 35 mm e tornare a Fontaínhas armato solo di una piccola videocamera digitale e un treppiedi. Come spiego più ampiamente nel libro, a guidare Costa in questa fase di boicottaggio del sistema-cinema è lo spirito punk della sua giovinezza. È infatti nella filiazione più nichilista e viscerale del rock che, alla soglia dei quarant’anni, l’adolescente attardato Costa trova quella energia distruttiva, quella sauvagerieche lo sprona a rifiutare tutte le stronzate e fare tabula rasa di una carriera comodamente instradata sui binari del successo, per affermare che, volendo, si può fare cinema in modo diverso… un cinema, se non migliore, almeno più umano.

 

Costa cita spesso l’influenza che i “cittadini-fotografi”, ovvero Jacob Riis, W. Eugene Smith e Walker Evans hanno avuto nella sua formazione. Sono stati loro, insieme a altri intellettuali e artisti, ad averlo condotto verso un cinema che guarda alle povertà estreme, verso quella moltitudine invisibile che non ha mai avuto nessuna giustizia da parte della Storia (tradita anche dalle rivoluzioni). Penso alla raccolta del fotografo americano Jacob Riis che con How the Other Half Livesdel 1890, ovvero il reportage ambientato nei bassifondi di New York in cui sono fotografati per la prima volta gli immigrati in condizioni disperate, segna una svolta nell’ambito della fotografia sociale. Tuttavia Costa ha molto amato anche il cinema hollywoodiano che ha conosciuto durante la sua formazione di giovane cinefilo. Ci puoi dire come Costa sia stato capace di far diventare il colosso Ventura di Juventude em Marcha(2006) e di Cavalo Dinheiroun personaggio quasi mitologico, mettendolo al centro di situazioni che egli stesso accomuna al cinema di John Ford?
Domanda cruciale, che mi è costata due anni di studio intenso durante la realizzazione del libro. Dovendoti rispondere sinteticamente, non posso fare altro che citare Costa stesso: “Il cinema non è qualcosa di rimosso, di distante dal mondo reale. Il cinema è dentro la realtà: non è solo qualcosa che accade in un regno di fiaba sulle colline di Los Angeles. […] Per fare un film, non c’è bisogno di gran soldi e grandi camion. Serve, piuttosto, ciò di cui cittadini-fotografi come Riis, Evans e Smith si servivano: pazienza, tempo, amore, osservazione, e qualche nozione tecnica. Lavora, lavora, lavora. Stai più a lungo nel posto in cui ti trovi. Stai con la persona che stai filmando un po’ più a lungo, e rifiuta questa sorta di raid militare che è diventato il lavoro di una troupe cinematografica oggigiorno: arrivare in una location, conquistarla, girare un tot di inquadrature e battere in ritirata”. Il cosiddetto genio, le cosiddette opere d’arte, altro non sono che il frutto di un lento apprendistato, di una grande pazienza, di un lungo lavoro. E dell’incontro fortuito e fatidico con persone (stra)ordinarie come Ventura.

 

Tra le molte cose di grande interesse su cui ti soffermi nel libro c’è il drammatico passaggio che vede la distruzione di Fontaínhase la conseguente nascita di Casal da Boba: un quartiere asettico e artificiale dove Ventura e gli altri reietti di Fontaínhassono gettati, per mettere in atto un progetto di gentrificazione che sortisce effetti ancora più devastanti. Il radicalismo di Costa a mio parere risiede nel suo essersi reso disponibile, da Ossos in poi, ad identificarsi con i suoi amici di Fontaínhas, persone che ha frequentato e aiutato prima, dopo e durante le riprese. Non mi vengono in mentre altri registi, anche tra i suoi preferiti (cito Robert Bresson, Andy Warhol, Jean Rouch e gli Straub, tra gli altri) che abbiano affrontato operazioni così estreme.…
Costa è estremo, hai detto bene. Non nel senso “vita spericolata”, ma nel senso che prende quello che fa molto sul serio e lo porta alle estreme conseguenze. Il cinema non è uno scherzo. Non è un pranzo di gala. Non è una sfilata sul tappeto rosso. È una scelta di vita, una missione. Per Costa questa missione è mostrarci come vive l’altra metà de mondo, nello specifico la comunità capoverdiana di Lisbona. Non parlerei però di identificazione. Affetto, rispetto, amicizia, comprensione, solidarietà… sicuramente. Ma identificazione, forse, è una parola troppo forte. Come spiego nel capitolo introduttivo del libro, Costa è un borghese agiato e privilegiato, e sa di esserlo. Al contrario dei membri della comunità capoverdiana di Lisbona con cui lavora ogni giorno per fare cinema, Costa non ha mai sofferto la fame e mai la soffrirà. Tra Costa e i suoi amici capoverdiani c’è un abisso, e tra le due sponde di questo abisso essi cercano, da vent’anni a questa parte, di costruire un ponte.

A parte la parentesi con la cantante e attrice Jeanne Balibar attraverso il documentario Ne change rienin cui Costa ritorna alla musica, suo primo amore, vorrei che concludessimo soffermandoci sul confronto di Costa con i suoi adorati Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, incontrati in occasione del montaggio del loro film Sicilia! (1999)
Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sono due filmmaker che, vivendo “non come tante persone del cinema ma piuttosto come operai non specializzati” (JMS e DH, lettera a Renzo Renzi), hanno realizzato 22 progetti personali tra il 1962 e il 1999, rientrando sempre nel budget previsto, pagando i propri collaboratori in anticipo e controllando tutte le fasi creative, da scelta del soggetto e stesura della sceneggiatura fino al taglio del negativo e alla stampa della copia campione. In breve, sono i numi tutelari di Costa e di tutti coloro che aspirano a fare un cinema personale, “in famiglia”, grande nelle ambizioni e piccolo nei costi. Il film di Costa Où gît votre sourire enfoui?(2001), dedicato ai battibecchi artistico-coniugali di JMS e DH, è un tributo a due giganti del cinema, così come il mio libro è un tributo al gigante del cinema Pedro Costa.  Non capita spesso, nella vita, di passare del tempo in compagnia dei tuoi eroi… Quando capita, sono momenti preziosi, che illuminano la tua vita per almeno trent’anni.

Il libro da cui questa intervista prende spunto si chiude con una e-mail che nel giugno 2017 hai spedito a Costa per informarlo dell’imminente stampa di Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costa. Hai qualche informazione relativa ai suoi progetti cinematografici presenti e futuri?
Una baracca nel quartiere di Cova da Moura, periferia di Lisbona. Interno notte. Vitalina Varela siede a un tavolo su cui agonizza un piccolo mozzicone di candela. Quando la candela si spegne, la stanza si popola di fantasmi…

 

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