philosophy and social criticism

Il testamento di Ivan Illich

Alberto Ghidini

Ivan Illich, David Cayley, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità, a cura di Fabio Milana, traduzione di Aldo Serafini, Quodlibet, Macerata 2008.

«Per un quarto di secolo ho cercato di evitare di usare il microfono… Mi rifiuto di trasformarmi in un altoparlante…». Così Ivan Illich, nel corso di un incontro pubblico nel 1990. Il grande pensatore austriaco era convinto che fosse quantomai necessario salvaguardare il «luogo del parlare» dall’offensiva della comunicazione di massa, alla quale si sentiva particolarmente ostile per quella sua sciagurata capacità di sequestrare, codificare e normalizzare il discorso. Per questo, due anni prima, non aveva accolto di buon grado il progetto di un «ostinato» giornalista canadese di nome David Cayley, che si era messo in testa di «analizzare» il suo pensiero attraverso uno schema di interviste da destinare alla radio. Interviste che, del tutto imprevedibilmente, Illich arrivò ad accordargli con un «atto di obbedienza» che – per quanto «refrattario» – lasciava intendere il nascente senso di amicizia nei confronti dell’autore della Canadian Broadcasting Corporation, suo grande estimatore sin dalla fine degli anni Sessanta.

I due, per la verità, divennero amici proprio a partire da quella certo non facile «sperimentazione filosofica», cui seguì la messa in onda sulla CBC Radio di cinque puntate della serie «Ideas», sotto il titolo, ispirato da un verso del poeta cileno Vicente Huidobro, Un po’ luna, un po’ commesso viaggiatore. Conversazioni con Ivan Illich, e, poco più tardi, l’uscita dello straordinario Ivan Illich in Conversation, un libro magistralmente «assemblato» da Cayley utilizzando la trascrizione delle registrazioni del programma, apparso in Italia da Elèuthera nel 1994 e riproposto lo scorso anno dalla stessa editrice milanese (Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, a cura di Franco La Cecla, traduzione di Stefano Stogl, nuova ed. 2008, pagg. 220, euro 18).

Da allora il legame tra Illich e Cayley divenne sempre più stretto e «conviviale», tanto da portare Illich – che nel frattempo non aveva superato la sua avversione per i microfoni – ad accettare di registrare, tra il 1997 e il 1999, una nuova serie di interviste, anche queste trasmesse (non a caso) nei primi giorni del 2000 sulle frequenze della radio pubblica canadese, e la cui trascrizione è stata pubblicata da Quodlibet nella collana «Verbarium», attiva dal 2007 per volontà di Michele Ranchetti, che prima della scomparsa predispose l’allestimento del volume intitolandolo Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità (a cura di Fabio Milana, traduzione di Aldo Serafini, 2008, pagg. 155, euro 18).

Già dal titolo si intuisce la radicalità della lettura proposta, che illustra l’idea secondo cui le società moderne tradiscono l’annuncio evangelico nella sua essenza. Anche in questo caso il «montaggio» di Cayley è impeccabile e getta una luce nuova sui temi più «classici» della ricerca illiciana, qui integrati nell’indagine sul nucleo religioso «perverso» delle istituzioni moderne: istituzioni che, applicando scrupolosamente il messaggio cristiano «distorto», non fanno che aumentare ed aggravare, nella dimensione sociale e politica, quella «spinta patologica» – per dirla con un’espressione utilizzata da Gregory Bateson in un saggio del 1978 intitolato Sintomi, sindromi, sistemi (pubblicato nella raccolta Una sacra unità, trad. di Giuseppe Longo, Adelphi, 1997) – che dovrebbe indurci, più che ad «accusare il sistema», a esaminarne e a discuterne i presupposti epistemologici.

Del resto Illich lo aveva già denunciato nei suoi precedenti lavori: la scuola invece di educare blocca l’apprendimento, gli ospedali invece di guarire fanno ammalare, la prigione e le misure repressive aggravano la criminalità, e così via. Nulla di più vicino alla realtà che ci riguarda, con il prepotente ritorno di tutte quelle idolatrie legate all’«istruzione», al «potere medico», alla «sicurezza» eccetera.

Un esempio cruciale dello «snaturamento» della virtù cristiana Illich lo individua nel millenario fraintendimento della parabola del buon Samaritano. La vicenda, narrata nel Vangelo di Luca, descrive perfettamente gli orizzonti imprevisti che Gesù sperava di schiudere ai suoi ascoltatori. «Chi è il mio prossimo?», viene chiesto a Gesù, e lui risponde raccontando la storia di un uomo che nel tragitto da Gerusalemme a Gerico viene spogliato, picchiato dai briganti e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. Un sacerdote passa di lì, lo vede e tira dritto senza soccorrerlo, così anche un altro funzionario del tempio. A fermarsi ad aiutarlo è uno straniero, un Samaritano, nemico del popolo d’Israele, che lo medica e lo trasporta in una locanda per farlo curare a sue spese.

Per Illich questo racconto annuncia una libertà che non ha precedenti nel mondo antico, dove la morale si applicava soltanto all’interno di un ethnos, e cioè entro i confini di un determinato popolo, di un «noi» storicamente dato, in un determinato luogo, nell’ambito di una determinata tradizione. All’opposto, «tragicamente», le interpretazioni di questo passo sono andate nella direzione di mostrare come ci si dovrebbe comportare nei confronti del prossimo, ribaltando il messaggio che Gesù voleva trasmettere raccontando quella storia: che l’«altro», il «prossimo», non è determinato dai nostri «confini etnici», ma da noi stessi.

Questo si corrompe, dice Illich, quando viene definito come qualcosa che può essere «fatto molto meglio» da «istituzioni preposte» in primis dalla Chiesa dei moderni «preti-funzionari» o «preti-manager» – anziché da gruppi di cristiani, movimenti e comunità di base fedeli a quello che Enzo Mazzi ha reso, in un bel libro pubblicato da manifestolibri, come il «carattere ribelle del primo cristianesimo» (Cristianesimo ribelle, 2008, pagg. 190, euro 20).

Corruptio optimi pessima, recita un antico detto che Illich era solito ripetere. Il «meglio» è l’incontro tra due uomini, un Samaritano e un giudeo, che trasforma entrambi in profondità, facendoli uscire dal loro «io», plasmato dall’orientamento antropologico al quale ciascuno dei due, almeno fino a quel momento, prende parte. Il «peggio» è il risultato del processo di istituzionalizzazione di questo incontro, che attecchisce nel senso comune occidentale l’idea che gli esseri umani siano costituiti da bisogni, e, di conseguenza, che sia necessario organizzare la società al fine di soddisfarli attraverso lo sviluppo di forme di potere che dovrebbero «gestire», «assicurare», «garantire» l’amore per il prossimo. In questa ottica, il giudeo abbandonato nel fosso rappresenta un problema che soltanto una minuziosa ingegneria sociale può risolvere. Un’ingegneria concepita per soddisfare meccanicamente il «bisogno dei bisognosi» dell’uomo occidentale moderno. Del resto anche Illich, in un fulminante intervento (circolante in rete col titolo Il prossimo non è un’istituzione) tenuto a San Rossore il 18 luglio del 2001 durante un seminario promosso dalla Regione Toscana sui temi della globalizzazione convocato in occasione di quel tristissimo, per molti motivi, «supermarket di propostine» che fu il G8 di Genova, proprio in riferimento al meeting genovese, dichiarò «là sono convinti, dentro e fuori – globofili e globofobi – che il mondo resta un mondo di bisognosi».

Pervertimento del cristianesimo, autorevolmente definito da Cayley come il testamento di Illich, ci permette di tornare a leggere questo autore con occhiali nuovi, costituiti dai temi fondamentali che attraversano tutta la sua opera e che offrono una base molto solida da cui cominciare per contestare le aberrazioni delle istituzioni totali, ma anche le idee di «Stato», di «democrazia», lo «sviluppo» nei paesi terzi e le proposte di «rinnovamento sociale» in Occidente, il potere economico-politico delle corporations, fino al tentativo di ri-fare il mondo sulla base del principio edonista dell’infinita soddisfazione dei (falsi) bisogni dei consumatori, i «nuovi fedeli» (secondo Peter Sloterdijk, e probabilmente Illich sarebbe d’accordo) di una «nuova religione» chiamata capitalismo.

«Fuori moda», ha fatto presente La Cecla, rispetto ad alcune delle più grandi figure a lui parallele (da Foucault a Baudrillard a Debord eccetera), Illich ha saputo rintracciare l’archeologia delle nostre dipendenze attraverso una raffinatissima indagine della «struttura» delle istituzioni moderne e delle loro architravi, rappresentate dai concetti di «cittadinanza», «responsabilità», «potere», «bisogni-rivendicazioni-diritti» eccetera. Aveva intravisto il declino di questi ideali, suggerendo di intenderlo non come una minaccia per la sopravvivenza dell’«ordine democratico», ma come la «fine di un’epoca» che apre un’inedita possibilità di accesso a un nuovo spazio, che lui definì il «mondo della conspiratio» o dell’«amore powerless» (senza il potere). Un mondo che Illich scelse in prima persona come progetto di «pedagogia politica», non tanto «mettendosi al servizio degli ultimi», ma – scrive Milana nella postfazione al Pervertimento«in fila tra loro», cercando di adottarne sempre il punto di vista e assumendo un atteggiamento powerlessness, manifestamente anti-istituzionale, sin dai primi anni di sacerdozio attivo, trascorsi tra una parrocchia portoricana di Manhattan, a New York, e il Centro Intercultural de Formación, poi divenuto de Documentación, da lui fondato a Cuernavaca, in Messico, sacerdozio al quale rinunciò definitivamente nel 1969, dopo un aspro confronto con l’autorità ecclesiastica della Congregazione per la Dottrina della Fede (erede moderna dell’Inquisizione).

Aveva settantasei anni, Illich, quando morì a Brema, nel suo studio in Kreftlingstrasse, il 2 dicembre 2002: stava preparando – come testimoniato da Barbara Duden e Silja Samerski – il seminario sulla corruptio optimi, che si era deciso a tenere, nonostante le incertezze e i dolori invalidanti della malattia che da anni sopportava stoicamente e che gli aveva sfigurato quel volto che, a ragione, è stato definito «uno dei più belli del pianeta». Mai come oggi ci manca un intellettuale di questo tipo, «extra-vagante», in continuo movimento fuori da schemi di pensiero e riferimenti dati.

A Lucca, nel giugno del 2003, Samar Farage ha ricordato Illich raccontando come una volta – lui che negli anni giovanili studiò mineralogia e cristallografia a Firenze – si descrisse come uno «xenocristallo», un cristallo di natura estranea rispetto alla roccia nella quale è incorporato. La «roccia» nella quale Illich si trovava incluso era il suo tempo (il nostro tempo), con cui mantenne un dialogo costante e al quale guardò sempre con partecipazione, ma anche con quel «distacco necessario» per coglierlo e interrogarlo nella sua realtà storica, da una molteplicità di prospettive.

A Los Angeles, nel marzo del 1996, davanti a una platea di filosofi cattolici, Illich affermò di essere stato costretto, nella sua esperienza di docente, a fare «molti numeri di equilibrismo». Da questo punto di vista, se «vivere è stare sul filo», come era solito dire al termine dei suoi spettacoli Karl Wallenda, leggendario funambolo statunitense di origini tedesche, prima di lasciarci, Ivan Illich, il cui pensiero è corso fino all’ultimo sul filo (Pervertimento del cristianesimo ce lo dimostra), avrebbe senz’altro potuto confessare di aver vissuto.