philosophy and social criticism

Illusioni di autonomia. Note su desiderio, cinema e capitalismo.

di Alessandro Simoncini

Introduzione

Difficilmente il cinema potrà restituire un’immagine sintetica del capitalismo, perché questo “non è un oggetto fuori dal Sé, ma è un tutto che circonda il Sé, che lo sovradetermina e lo abbraccia”[1]. La narrazione cinematografica sembra impossibilitata a mettere in immagini quel tutto. Non riesce infatti a mostrare la “totale internità dell’occhio al proprio oggetto”[2]. Per sua natura, insomma, il cinema tende a concepire il capitalismo come un “oggetto gettato fuori dall’occhio” e, proprio spostandolo fuori dal punto di vista, riproduce “l’illusione che il punto di vista [stesso] ne sia escluso”[3]. Escluso, cioè, dalle ambizioni totalizzanti della sua astrazione reale o di quella che Mario Pezzella ha definito la “natura teologico-astratta del capitale”[4].

Con il suo linguaggio di immagini, il cinema non giunge a mostrare una simile astrazione “che – se compresa profondamente – sfugge al campo del sensibile e del visibile”[5]. Anche nelle sue prove recenti più riuscite – come Cosmopolis di David Cronenberg o The wolf of Wall Street di Martin Scorsese – la rappresentazione cinematografica sembra così forzata ad abbandonare la pretesa di produrre un’immagine sintetica del capitale finanziario e a ripiegare sulla necessità di “adeguarsi a uno statuto di traccia simbolica, di sospensione e vertigine del senso”, nel tentativo di mettere in forma “una costellazione di tracce che indicano ciò che non può essere mostrato direttamente”[6].

Un lavoro importante sulle tracce del capitale, quello svolto da registi come Cronenberg e Scorsese. A questo il cinema può affiancare l’impresa di mostrare come il processo di produzione dei desideri soggettivi sia sempre immanente ai dispositivi socio-economici, e come un simile processo acquisisca rilevanza strategica per la tenuta dei sofisticati congegni della “macchina capitalistica”[7].  A questa, infatti, non basta dotarsi di un modo di produzione e di una struttura economica funzionali allo sfruttamento dei flussi di ricchezza e di lavoro. Simultaneamente deve costruire anche un modo di assoggettamento, i cui imperativi siano capaci di stimolare alla performance e al godimento, neutralizzando al contempo le potenzialità critiche[8]. In altri termini, il capitale deve sapersi costituire, di fatto, “anche soggettivamente”: deve sapere cioè “sviluppare i desideri e gli habitus necessari per la sua auto-perpetuazione”[9].

È questo il nodo teorico-politico che sta sullo sfondo delle pagine che seguono, nelle quali verranno analizzate alcune delle modalità con cui il cinema ha tentato di cogliere non tanto l’essenza del capitale quanto la sua forza: forza di dare forma alla vita e al desiderio umano. Il desiderio non sorge prima, nell’interiorità del soggetto, per poi estrinsecarsi in un altrove a partire da ciò che gli manca. Piuttosto esso si dà fin da subito nella relazione con un fuori al quale è già da sempre concatenato produttivamente e sinteticamente[10]. Fornendo il materiale per le modalità produttive della nostra soggettività, quel fuori tende con sempre maggior forza a farsi dentro e a disegnare così i profili del desiderio dei viventi, canalizzandone i flussi e mettendolo al lavoro nella macchina capitalistica. Generando, al contempo, l’illusione compensativa che al suo interno il desiderio possa auto-valorizzarsi in divenire e aumentare l’autonomia dell’individuo a cui appartiene. Il cinema critico-espressivo ha spesso saputo visualizzare, nella sua ambiguità, proprio questa complessa dinamica di cattura dei mondi della vita, mostrando bene il tentativo di ricodificarli come semplici funzioni dell’“assiomatica capitalistica”[11]

The Crowd. Alla ricerca dell’autonomia nel capitalismo ruggente

Nato in provincia il 4 luglio del 1900 sotto la buona stella dell’indipendenza statunitense, John Sims – il protagonista di The Crowd di King Vidor (1928) – viene consegnato al mondo da una profezia paterna che, ben presto interiorizzata, fungerà da guida per la sua intera vita: “quest’ometto farà stupire il mondo!”. Dovrà farlo – è l’implicito dell’enunciato paterno – distinguendosi radicalmente dal mondo stesso e dalla folla di uomini ordinari che lo popola. Per questo il ventunenne John approda nella New York degli anni ruggenti, dove – ne è certo – si renderà padrone del suo destino grazie a quella volontà e a quei talenti (immaginari) che lo  renderanno autonomo e sovrano rispetto alla massa eteronoma che lo circonda.

È l’illusione di sovranità che guida nella metropoli questo “piccolo Rastignac” – “archetipo della particella elementare della società degli individui” – alla ricerca di un’autonomia fondata sul senso di differenza istillatogli dal padre e dalla famiglia[12]. Ma la presunzione di autonomia di John verrà sistematicamente smontata, passo dopo passo, e la traiettoria esistenziale che egli immaginava eccezionale ed unica finirà per confondersi con quella delle dozzine di impiegati subalterni e mal pagati assunti dalla compagnia di assicurazioni per cui anche lui lavora.

Fin dall’inizio dell’avventura, e progressivamente sempre di più, la sua presunta unicità è letteralmente assorbita dalla potenza della vita capitalistica urbana, dove domina il principio di “serializzazione delle esistenze ordinarie”[13].  La vita di John, pur sempre spinta da un forte desiderio di autonomia, scorre tra mille big ideas abortite e l’ideazione di slogan pubblicitari dal risibile valore di mercato. Si snoda, di fatto, lungo i sentieri tracciati ed ordinari di quel mondo impiegatizio in via di razionalizzazione e meccanizzazione del quale Siegfried Kracauer ha restituito al meglio i tratti antropologici, così funzionali al capitalismo dell’epoca. Qui, ipnotizzati dall’ideologia del ceto medio ma proletarizzati nei fatti, gli impiegati non sono più “sottoufficiali del capitale” ma soltanto suoi “soldati semplici e interscambiabili”[14].

E John, uomo senza qualità, è l’idealtipo di questo impiegato-massa a cui si richiede solo  di “portare anche il proprio cervello a un ‘numero di giri’ corrispondente” a quello delle macchine di ultima generazione[15]. Tutt’al più, mentre erogano il lavoro in maniera spontanea, si concederà loro di deviare i propri pensieri dalla monotonia verso oggetti privati: le inimicizie personali, la fidanzata, la moglie e i figli, l’immaginaria affermazione individuale in società, nel caso degli uomini come John, o “romanzi sentimentali, drammi cinematografici o fidanzamenti”, nel caso delle donne che, come la moglie Jane – anch’essa impiegata -, passeranno presto al lavoro riproduttivo nello spazio disciplinato della famiglia[16].

Sono piccoli uomini e piccole donne – quelli raccontati da Vidor – che vivono una “dolorosa normalità […], accanitamente intenti a raccogliere e costruirsi frammenti di dignità per reggere una vita manifestamente indegna”[17]. Ma lo fanno, secondo l’acuta intuizione di Benjamin, per il tramite di “immagini alimentate con ricordi e desideri borghesi”, assecondando più o meno consapevolmente il “lato inumano dell’ordine esistente ”[18].  Così John, come tanti altri impiegati-massa, cerca la sua “redenzione dalla realtà fisica”[19] nel viaggio di nozze alle cascate del Niagara, nelle fughe estemporanee da un matrimonio in crisi o nell’illusoria affermazione di sé come eccellenza individuale. È la stessa società del capitale a stimolare in lui la distrazione e “l’impulso a vivere in modo brillante e disperso”[20].

Ma, come suggerisce Kracauer, tutta la luce che lo inonda, irradiandosi nella grande città, “serve non da ultimo ad accrescere il buio”[21]. La miseria di John – Vidor vi allude – sta proprio nel fatto di non percepire quel buio, soggiacendo ai bagliori in virtù dei quali persegue le più infondate illusioni di autonomia. Così, come quella dei più, la sua vita è simile ai giochi d’acqua che si eseguono al lunapark: si fa “illuminare dai bengala e si dissolve nel vuoto notturno, immemore della propria origine”[22]. E le immagini di sogno a cui quei lampi di bengala metaforicamente alludono non sono altro che apparati di cattura del suo desiderio, la cui attività produttiva resterà sempre concatenata alla macchina capitalistica.

Per tutto il corso del film, John mimerà le qualità da imprenditore di se stesso che dovrebbero condurlo alla vittoria nella competizione di mercato. Ma fin dall’inizio, con un magistrale piano-sequenza che termina con un movimento di macchina dall’alto, Vidor ce lo mostra curvo al lavoro schiacciato tra i vinti in un ufficio topologicamente analogo alla fabbrica taylorista[23]. All’inizio del piano “la macchina da presa avanza controcorrente nella folla, si dirige verso un grattacielo, si arrampica fino al ventesimo piano”[24]. Poi “inquadra una delle finestre, scopre una hall piena di uffici, vi penetra, avanza e arriva sino a una scrivania dietro alla quale c’è il protagonista”[25]. Vidor parte dal tutto-della-folla, se ne allontana, ma ben presto lo ritrova all’opera in John, parte indistinguibile di quel tutto e sua espressione più emblematica: da quel tutto John proviene e al suo interno è forzato a restare in qualità di soggetto produttivo. O, se si vuole, di soggettività prodotta dalle istituzioni disciplinari del suo tempo perché sia produttiva[26].

Ben presto, però – a causa del trauma seguito alla morte incidentale di uno dei figli -, John diverrà improduttivo e verrà licenziato. Le stesse leggi di mercato, in cui continua comunque a credere ciecamente, lo rigettano nella precarietà disvelando il suo progetto di auto-affermazione per quello che era: pura illusione di autonomia, ma anche tecnologia del sé necessaria all’accumulazione capitalistica. Come si sa, infatti, non si dà accumulazione del capitale senza “metodi per gestire l’accumulazione degli uomini”[27]. O senza una massa di uomini medi e normalizzati che, come John, si ostinino accanitamente a “flirtare con un’autonomia fantasmagorica, restando convinti che riusciranno a torcere il collo al destino e a mostrare ai loro contemporanei di che pasta sia fatto il loro valore unico e singolare”[28].

Un’assai resistibile pretesa di cui, nell’ultima sequenza del film, “l’impietoso pubblico-giudice sembra prendersi crudelmente gioco”[29]. Ordinario tra gli ordinari, John si ritrova insieme a Jane al centro di una sala cinematografica dove una folla di spettatori indistinguibili ride sguaiatamente di un filmetto sciocco. Ma – sembra suggerire Vidor – la folle ride anche di John, forse proprio e soprattutto di lui, ingoiandolo mentre tutti – soli – sembrano ridere di tutti, fuorché di se stessi.

La forza del film di Vidor consiste proprio nel presentare con rigore le condizioni dell’eteronomia di John – e della maggioranza della popolazione – “nella sua relazione con le illusioni di autonomia”[30]. Sono queste, in ultima analisi, a garantire l’interiorizzazione dei valori del sistema e l’autodisciplinamento che lo sorregge. Nonostante gli accenti sarcastici, però, non vi è alcuno sprezzo elitario nello sguardo di Vidor sui tanti Sims che popolano la metropoli capitalista. Al contrario, egli sembra esortarli empaticamente a porre in questione il modo di produzione della loro soggettività. Li invita a riflettere sul modo in cui il loro desiderio viene concatenato ai dispositivi individualistici della metropoli capitalistica, convertito nella pulsione auto-affermativa che fa da collante alla società degli individui e infine ricacciato puntualmente nella folla, con buona pace del sogno americano. È solo desiderio privato, quello dei tanti Sims che fanno proprio il “Sii autonomo” intimato dal regime di mercato[31].

Lo è sembra dirci Vidor – perché è separato e incapace di qualsiasi concatenamento alternativo che sia in grado rimettere in discussione gli assetti fondamentali della società che lo cattura e lo tradisce. Ma quei concatenamenti desideranti alternativi, necessariamente collettivi, Vidor non può vederli. Maestro di un realismo psico-sociale articolato dall’interno del sogno americano, può mostrare come lo spettacolo diffuso assoggetta i suoi spettatori – alla maniera degli spettatori ridanciani nell’ultima sequenza del film – ma non è attrezzato ad immaginare il superamento della società del capitale.

Reality. “Descrivere il no della luce che ci acceca”

Il cinema non ha mai smesso di interrogarsi sulla consustanzialità strutturale dell’illusione di autonomia ai dispositivi capitalistici di produzione della soggettività. Esempio felice ne è  Reality  di Matteo Garrone (2012). Una sequenza decisamente felliniana apre il film. Dall’alto dei cieli – come in Vidor – dopo aver inquadrato la sagoma imponente del Vesuvio, la città di Napoli, le sue case e le sue strade (percorse da una carrozza dorata stile Versailles che si muove sullo sfondo di una musichetta fiabesca), un lungo piano-sequenza ci precipita all’interno del giardino di una villa sontuosa dove si tiene un grottesco ricevimento nuziale.

Confuso nel caos di un popolo festoso e danzante – una moltitudine popolare e proletaria che poco a poco lascerà la scena al solo protagonista – c’è Luciano Ciotola, giovane pescivendolo napoletano la cui massima aspirazione è diventare come Enzo, il vincitore del Grande Fratello ospite d’onore della festa e idolo dei più. Specchio appena deformato della soggettività di quei più – di cui porta all’estremo desideri e miserie incarnandoli emblematicamente – lo spazio mentale di Luciano è il vero oggetto del film, che ad ogni sequenza ne segue la metamorfosi. È uno spazio letteralmente colonizzato dallo schermo televisivo e dal modello di chi, al suo interno, è riuscito ad affermarsi conquistando fama e denaro.

Grazie a un tranello, Luciano avvicina Enzo e lo convince a procurargli un’audizione per il Grande Fratello. Si convince da allora che può farcela. Entrare nello schermo diventa l’ossessione che ridisegna integralmente la sua forma di vita. L’attesa della telefonata che lo invita a far parte della “Casa” marca le sue giornate con l’euforica illusione di potersi svincolare dalla folla, di divenire autonomo e famoso. Come John Sims, ma in una società del capitale che ha nuove forme e vecchi obiettivi. Intanto – come in un rovesciamento farsesco del destino di Irene in Europa 51 di Rossellini[32] -, Luciano si libera francescanamente di tutto ciò che ha, mettendo a repentaglio la tenuta della famiglia pur di aderire all’“astratto modello di simpatia che reputa idoneo alla Casa”[33].

La telefonata però non arriva e Luciano sprofonda lentamente in una nera depressione. Alla fine, fingendosi rinsavito agli occhi dei famigliari, parte per Roma con il pretesto di assistere alla Via Crucis pasquale. Qui riesce a individuare quasi casualmente la casa in cui vivono i suoi idoli televisivi e vi si addentra furtivamente. È tra loro che, completamente dissociato dalla realtà, lo ritroviamo ad aggirarsi nelle ultime sequenze del film. Ha un sorriso ebete stampato in volto, che diventa risata isterica quando Luciano riesce a trovare un angolo nascosto del set in cui sistemarsi. Allora si stende su uno sdraio illuminato e continua a godersi lo spettacolo, finché, con un movimento dal basso all’alto opposto a quello del piano-sequenza iniziale – che già sembrava alludere allo scacco finale – la macchina da presa si allontana da lui, restituendocelo come un puntino luminoso risucchiato dal buio nel cielo della notte profonda.

Anche senza spingersi a sostenere che Reality “è il film definitivo sul potere biopolitico contemporaneo”, è certamente vero che Garrone prova a dirne radicalmente una delle verità più amare: “la fascinazione dello schermo e la cattura della mente sono irreversibili”[34]. I lumi più potenti di quello hanno fabbricato il buio più profondo di questa: “gli esseri umani non sono nulla, lo schermo è tutto”[35]. Apparentemente fuori sincrono nell’affrontare il cuore di tenebra del tempo presente attraverso lo schermo televisivo – la cui potenza è stata troppo spesso considerata al tramonto -, Garrone evita la tentazione iper-attualizzante di restituirci un apologo sul mondo digitale e i suoi “bio-ipermedia”[36].

Di questi, però, tiene presente l’impatto progressivo sulle mutazioni del funzionamento cognitivo mediante un “assedio dell’attenzione [che] causa una contrazione del tempo disponibile per l’elaborazione emozionale del’info-stimolo e per la decisione razionale”[37]. Insomma, i personaggi di Garrone vivono nel tempo in cui, tra l’impero di Google e la diffusione microfisica della connessione via smartphone, si affinano gli strumenti che puntano a fare dell’intelligenza e dell’immaginazione collettiva una semplice “funzione dipendente della produzione di valore”[38]. Tutto questo però sta sullo sfondo e, praticando questo “scarto” e questo “anacronismo”, Garrone ci appare veramente contemporaneo proprio perché “inattuale”[39].

Non aderendo perfettamente al suo tempo, infatti, il regista si rivela più capace di altri di afferrarlo e neutralizzarne il superficiale bagliore, piazzando la camera da presa “nella tenebra del presente”[40]. Mostra così che il “buio speciale” della società della merce e del capitale, sempre illuminata a giorno, non dipende da una semplice assenza di luce, ma al contrario sorge come per accecamento dall’abbagliante luminosità della trasparenza mediatica. Il buio della mente separata di Luciano è infatti generato dalla malia iperluminosa dello schermo, nel quale le immagini si autonomizzano come “simulacri privi di riferimento […] che conducono quasi una vita propria […] e non gettano alcuna luce nella tenebra”[41].

Dotati di una formidabile capacità di cattura dei territori mentali, quei simulacri danno vita ad una nuova modalità dell’assoggettamento che non si dà più “nella forma di un attacco alla libertà”[42]. Piuttosto, le immagini-simulacro governano la libertà concatenando i desideri soggettivi alle illusioni di autonomia in base a cui, come Luciano, le moltitudini finiscono per sincronizzare sinotticamente i propri occhi sulle immagini spettacolari, consegnandoli così volontariamente allo sguardo accecante di vecchi e nuovi media: “spazi di libertà” che prontamente si convertono in dispositivi di “controllo”[43].

Garrone, come Vidor, è dunque ottimo regista del buio che avvolge il tempo presente. Lo racconta, per di più, senza alcuna condanna moralistica dei personaggi, descritti con empatia, a tratti con evidente affetto[44]. Ma in quelle tenebre il regista romano, come il maestro Pasolini, non scorge più i tenui segnali luminosi emessi dalle lucciole[45]. Negli spazi sociali e nei mondi vitali dell’ultimo capitalismo non si intravedono più linee di fuga. Il popolo di impotenti in cui Reality ci proietta fin dalla prima sequenza non può sottrarre il proprio desiderio di autonomia al comando del “semiocapitale”, nel quale la realtà “si fonda sull’illusione ottica, l’ipertrofia dell’immagine, l’inflazione proliferante di flussi linguistici e la manipolazione predatoria dello scambio”[46]. È in questi spazi dell’assoggettamento – sembra dirci Garrone – che il popolo dei più si dimena, gioisce, soffre, balla, ride, piange o spera.

Ed è qui che, reiterando l’illusione di un autonomia sempre a venire – nel tentativo di raggiungere un pieno che inevitabilmente li conduce a franare nel vuoto -, i molti indossano  più o meno docilmente gli abiti nuovi della propria servitù volontaria, accecati dalla “feroce luce del potere e dei suoi media, che annulla ogni barlume di contropotere”[47]. Garrone non può “dire nella notte attraversata da bagliori” e si accontenta “di descrivere il no della luce che ci acceca”[48].

Bling Ring e Blue Jasmine. Fantasmagorie, desiderio, godimento nell’ultimo capitalismo

Anche Sofia Coppola sembra dimenticare che “noi non viviamo in un solo mondo, ma almeno tra due”, e che se “il primo è inondato di luce” il secondo è pur sempre “attraversato da bagliori”[49]. Con Bling Ring (2013), Coppola mette in immagini solamente il primo, in cui – con la loro polvere di stelle – le trash-stars di Hollywood ammirate alla tv e su Facebook abbagliano le giovani protagoniste. È il nitore totalizzante dello spettacolo a spingerle fin dentro le loro ville per saccheggiare le merci di lusso che presto sfoggeranno in strada, alle feste e nei social network, con l’illusione di costruirsi una forma di vita luminosa distinta da quella grigia e ordinaria dei più.

I loro furti non possiedono, però, alcuna carica trasgressiva. Sono solo riti seriali tramite cui emulare i lumi delle stelle con cui lo spettacolo del capitale – che richiede acclamazione unanime – tiene in vita la “gloria efficace del [proprio] regno”[50]. È di quella gloria che le componenti della baby-gang vogliono essere partecipi. Diventa chiaro nel finale quando, una volta smascherate e con la vicenda giudiziaria in pieno svolgimento, una di loro, Nicki, si rivolge ammiccante alle telecamere invitando i numerosi fan a seguirne gli sviluppi sul suo sito internet.

Senza moralismi, Coppola mira a mettere in immagini l’ultimo stadio dello spettacolo per quello che è: non mero “insieme di immagini” o “supplemento del mondo reale”, ma “cuore dell’irrealismo della società reale” e “rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”[51]. Evitando flirt con la psicanalisi, la regista si concentra superficialmente su quel rapporto con “realismo medio”[52]. E mostra bene come lo spettacolo necessita strutturalmente delle soggettività che, con la loro energia vitale, alimentano senza posa la luce con cui si illumina a giorno la vasta gamma delle forme di vita reali e virtuali dominanti, quasi in una nuova variante del motto francofortese secondo il quale “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”[53].

Coppola riflette anche sullo spettacolo come dispositivo che governa le vite delle giovani protagoniste del film – e a ben vedere quelle di chiunque –, fornendo loro le immagini e i modelli a cui concatenare desideri di autonomia e libertà. Spettatrici della merce e delle sue fantasmagorie, negli inventari di quel tempo presente in cui il capitale ha raggiunto “un grado di accumulazione tale da divenire immagine”[54], esse non possono trovare “ciò che desiderano” ma solamente desiderare “ciò che trovano”[55]. La loro forza desiderante viene catturata, messa al lavoro, poi – divenuta abitudine – “si degrada in bisogno”[56]: anche l’inconscio viene occupato e, infine, “il desiderio vivente resta disarmato”[57]. Così la loro libertà, spinta ad esercitarsi in un circuito chiuso, “si degrada in sogno, diviene pura rappresentazione di se stessa”[58]. E le illusioni di autonomia crollano insieme al desiderio di felicità.

Cancellando le ultime tracce del suo perduto potenziale antagonista, lo spettacolo ha infatti concatenato quel desiderio alla “felicità feticista promessa dalle merci”[59]. Lo ha fatto attraverso l’ingiunzione a un godimento strettamente connesso al “progresso del capitale, che in realtà continua a produrre astrazione e separazione”[60]. Con i suoi rallenty, gli inserti in bianco e nero, l’alternanza frenetica di primi piani e campi lunghi, i carrelli che ci riempiono gli occhi di merci, Coppola restituisce quel “godimento monadico” in azione[61]. Anche lei, però, non scorge linee di fuga capaci di condurre verso un altro godimento possibile, frutto di concatenamenti desideranti emancipativi. Firma così un “film disturbante” che, come quelli di Vidor e Garrone, restituisce solo il “vuoto pneumatico” con cui il capitale genera nei viventi le radiose illusioni di una piena autonomia[62].

È lo stesso vuoto che percepiamo in Blue Jasmine (2013), quello in cui fin dalla prima sequenza del film Woody Allen spinge la protagonista di cui ci racconta il crollo. Splendida quarantenne, finta fin dal nome – quello vero è il più ordinario Jeanette -, Jasmine è costretta ad abbandonare il suo passato alto-borghese. Dall’Upper East Side di New York, dove il marito Hal – finanziere senza scrupoli e traditore seriale – l’ha riempita di oro e di corna (prima di suicidarsi travolto da uno scandalo denunciato per gelosia all’Fbi dalla stessa Jasmine), deve tornare a San Francisco.

La ospiterà Ginger, sorella proletaria dai rozzi compagni e dal senso di inferiorità congenito, con cui ha condiviso una infanzia di stenti. Qui, senza un soldo ma con aria sofisticata e valigie Vuitton, Jasmine tenterà di tornare a brillare come al tempo in cui – cullata dall’illusione di un’autonomia interamente disegnata dal capitale finanziario –viveva in una bolla di finzioni, inganni e autoinganni, dove – come nella moda tanto amata – l’“eterno ritorno del nuovo” si dà nelle forme del sempre uguale della merce e del denaro[63].

È questa la dimensione alla quale, per tutta la vita, le illusioni di autonomia e i desideri di libertà di Jasmine sono rimasti concatenati[64]. Con gli incisivi flashback che punteggiano il film, incastrando a forza il passato nel presente senza interromperne la progressione catastrofica, Allen ce lo racconta. Ci mostra cioè come – in una New York che non è più il ventre accogliente di tanti suoi film ma lo scenario dell’attuale catastrofe economica e antropologica – Jasmine abbia vissuto, da “vittima e colpevole”, una fede cieca nello stesso mondo del capitale che l‘ha trascinata nel baratro[65]. Nel vuoto scavato dall’implosione di quel mondo, Jasmine deve ora confrontarsi – a San Francisco – con la vita agra della classe da cui è fuggita, quel proletariato che nel film “accetta la propria sorte come se fosse scritta nel Dna”[66].

È il reale del capitalismo che ora le si ritorce contro[67]. Certo, ora dovrebbe essere chiaro, per Jasmine, che il denaro non ha mantenuto le sue promesse e nemmeno le sue premesse. La crisi potrebbe condurla al “fondo cieco della verità del Capitale”, a scorgere cioè “che dietro l’impalcatura simbolica che sostiene la recita del fantasma della merce, in realtà non c’è nulla per cui valga la pena trattenersi”[68]. Ma Jasmine appare come posseduta. Non tanto dal semplice desiderio dell’oggetto-denaro perduto, ma dal suo fantasma. È il fantasma il vero “sostegno del desiderio”, e il denaro è divenuto ormai “il più reale dei suoi fantasmi”[69]: l’idolo che le gioca dentro come un “Joker universale” in grado di strutturarne personalità e desideri, degradati di fatto a “puro bisogno”[70]. Spinta dal quel fantasma, tra un bicchiere di vodka e uno xanax, Jasmine ci riprova.

Allen non la giudica e, con una certa tenerezza, ci mostra come riesce ad attrarre Dwight, ricco e brillante diplomatico in carriera. Presto però Dwight scoprirà che Hal si è suicidato e Jasmine ha un figliastro sposato, che vive proprio a San Francisco. È Il rimosso, allora, a presentarsi con le fattezze del reale: nel mondo del capitale – a San Francisco come a New York – “si vince schiacciando gli altri”, ma ora è Jasmine a provare su di sé tutto “il peso dei vincitori”[71].

Dwight la molla, Il figlio la respinge, Ginger non sembra subirne più il fascino. Simile a Norma Desmond in Viale del tramonto  (Billy Wilder, 1950), la ritroviamo nel finale a delirare da sola frasi sconnesse sulla panchina di un parco[72]. “Che mi metto, magari l’abito di Dior che ho comprato a Parigi? Sì è.. è il mio vestito nero … Beh Hal mi sorprendeva sempre con dei gioielli … pezzi importanti. Credo che li comprasse alle aste”. Il fantasma non la molla. Sulle note di Blue Moon la disperazione che l’ha accompagnata per tutto il film si fa delirante follia, a sottolineare la verità psicopatologica dell’ultimo capitalismo.

Conclusione

Come dimostrano gli esempi analizzati, il cinema può indagare i dispositivi del potere contemporaneo come veri e propri “convertitori libidici” che mirano ad imbrigliare “la macchina desiderante dentro l’illusione della propria autorealizzazione”[73]. Può mettere in immagini, cioè, la grande illusione di autonomia che si consuma negli interni mondani del capitale, mostrandone il ruolo di primo piano per il funzionamento stesso delle macchine di potere[74].

In questo modo, il cinema pone il problema politico della produzione di soggettività nel mondo capitalista, visualizzando le modalità in cui la forza di questo mira a plasmare le forme del desiderio di quella. Segnala così l’atrofia dei concatenamenti collettivi del desiderio, la “sconnessione pulsionale” di questo e la sua riduzione a mera esperienza inter-individuale, quando non completamente autocentrata[75].

Il cinema può spingersi – lo si è visto – fino a suggerire che i viventi possono e devono resistere a tutto questo, “trasformando se stessi e invertendo una condizione passiva in un processo attivo”[76]. Ma difficilmente riesce a mettere in immagini il modo per contrapporre all’esistente la produzione di nuovi concatenamenti di un desiderio comune, capace di dare forma ad una “transindividuazione politica e desiderante” all’altezza dei tempi[77]. Per farlo dovrebbe forse ascoltare i suggerimenti di Gilles Deleuze:

Non si desidera mai qualcosa di isolato. Per di più, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme. […] In altre parole, non c’è desiderio […] che non scorra in un concatenamento. […] Desiderare è costruire un concatenamento, costruire un insieme […] non è nient’altro. […] E costruire un concatenamento significa costruire una regione. […] Il concatenamento è un fenomeno fisico, è come una differenza. […] Il concatenamento è sempre collettivo. […] Sperimentate concatenamenti, cercate quelli che più vi si addicono[78].

 

Note

[1] P. Bianchi, Ejzenštein occupa Wall Street. Note sul capitalismo e la sua immagine, in “Cinergie”, 1, 2012, http://www.cinergie.it/?p=556.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] M. Pezzella, Note seminariali, inedito diffuso in rete durante i lavori preparatori di questo numero monografico. Per un approfondimento concettuale, cfr.  M. Pezzella, La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito, in “Consecutio temporum”, 5, 2013, http://www.consecutio.org/2013/10/la-teologia-del-denaro-di-walter-benjamin-il-debito/.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia I (1972), Torino, Einaudi, 1975, p. 36

[8] C. Laval, Nuove soggettività e neoliberalismo (2009), in “Commonware”, maggio 2014, http://www.commonware.org/index.php/neetwork/411-nuove-soggettivita-neoliberismo.

[9] J. Read, La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune, in E. Balibar, V. Morfino (a cura di), Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Milano, Mimesis, 2014, p. 209. Su tema, cfr. anche P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2009, pp. 402-457.

[10] Con Deleuze e Guattari, “il desiderio è sempre concatenato, è quel che il concatenamento lo determina ad essere”. E “il potere non è che una diminuzione stratificata del concatenamento” (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia II [1980], Roma, Castelvecchi, 2003, pp. 350 e 342). Ma “in quanto concatenamento il desiderio fa rigorosamente tutt’uno con gli ingranaggi e i pezzi della macchina, con il potere della macchina”. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975), Macerata, Quodlibet, 1996, p. 99.

[11] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., pp. 953, 1012 e 1019.

[12] A. Brossat, Les conditions de l’autonomie, in “Ici et ailleurs. Association pour une Philosophie Nomade”, 31 décembre 2013, http://ici-et-ailleurs.org/spip.php?article357.

[13] Ibidem.

[14] S. Kracauer, Gli impiegati (1930), Torino, Einaudi, 1980, p. 9.

[15] Ivi, p. 26.

[16] Ivi, p. 30. Cfr. anche S. Kracauer, Le piccole commesse vanno al cinema (1927), in Id., La fabbrica del disimpegno, Napoli, L’Ancora, 2002.

[17] L. Gallino, Nota introduttiva, in S. Kracauer, Gli impiegati, cit., pp. X e XII.

[18] W. Benjamin, Un isolato si fa notare, in Id., Opere complete, vol. IV (Scritti 1930-1931), Torino, Einaudi, 2002, p. 141. Si tratta di una recensione a Gli impiegati di Kracauer.

[19] S. Kracauer, Theory of Film. The Redemption of Physical Reality, New York, Oxford University Press, 1960.

[20] Id., Gli impiegati, cit. p. 89.

[21] Ivi, p. 90.

[22] Ivi, p. 98.

[23] Analisi del lavoro. Dalla fabbrica al mercato del lavoro, in “La battaglia soda. Blog marxista-mandrakista”, ottobre 2013, http://labattagliasoda.wordpress.com/dalla-fabbrica-al-mercato-del-lavoro/.

[24] G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983), Milano, Ubulibri, 1984, p. 36.

[25] Ibidem.

[26] Cfr. P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Verona, Ombre corte, 2013.

[27] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975, p. 240.

[28] A. Brossat, Les conditions de l’autonomie, cit.

[29] Ibidem.

[30] Ibidem.

[31] Ibidem.

[32] R. Silvestri, Una vita da auditel, in “Il manifesto”, 19 maggio 2012.

[33] A. Cortellessa, Reality, in “Alfabeta2”, 24, 2012, http://www.alfabeta2.it/2012/11/05/reality/.

[34] F. Berardi Bifo, Incubi e schermi. La cornice perfetta, in “Alfabeta2”, 25, 2012, p. 28.

[35] Id., Reality, in “Le strade di Babele”, ottobre 2012, http://www.lestradedibabele.it/lestradedibabele.htm

[36] Cfr. i contributi dello speciale BioIperMedia. Lo stato della mediazione tecnologica, in Alfabeta2”, 29 2013. Il curatore Giorgio Griziotti definisce bio-ipermediale “l’attuale dimensione della mediazione tecnologica” in cui “una nuova generazione di dispositivi mobili si affianca ai media tradizionali e alla generazione dei desktop nel disegnare e plasmare l’esperienza del quotidiano di vita”, coinvolgendo “l’intera esistenza […] nell’iper-realtà”. Al suo interno, infatti, “le tecnologie connesse e ‘indossabili’ ci sottomettono a una percezione multisensoriale in cui spazio reale e spazio virtuale si confondono estendendo e amplificando gli stimoli emozionali”. G. Griziotti, Sotto il regime della precarietà. Bring Your Own Device, in Ibidem.

[37] F. Berardi Bifo, Neuro-totalitarismo in Tecnomaya. La cattura digitale, in http://mattax-mattax.blogspot.com/2014/05/neuro-totalitarismo-mediatico.html, maggio 2014.

[38] Ibidem.

[39] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008, p. 9.

[40] Ivi, p. 13.

[41] Byung-Chul Han, Trasparenza, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 69-70.

[42] Ivi, p. 83.

[43] Ibidem. Cfr. anche V. Codeluppi, L’era dello schermo, Milano, Franco Angeli, 2013. Mi permetto di rinviare anche a A. Simoncini, Governare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo Novecento e ultimo capitalismo, Roma, Aracne, 2013, pp. 159-163.

[44] Cfr. E. Morreale, Dremas are my reality, in “Le parole e le cose”, 22 ottobre 2012, http://www.leparoleelecose.it/?p=7132.

[45] Cfr. G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Paris, Minuit, 2009.

[46] F. Berardi Bifo, Incubi e schermi, cit. in “Alfabeta2”, 25, 2012, p. 28.

[47] M. Smargiassi, La buona società dell’immagine. Intervista a George Didi-Huberman, in “La Repubblica”, 17 giugno 2010.

[48] G. Didi-Huberman, Survivance des lucioles, cit., p. 133.

[49] Ibidem.

[50] Ivi, p. 134.

[51] G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Milano, Baldini&Castoldi Dalai, 2006, p. 54.

[52] A. Illuminati, T. Rispoli, The Bling Ring: il lusso è un diritto. Per tutti, in “Alfabeta2”, ottobre 2012, http://www.alfabeta2.it/2013/10/04/the-bling-ring-il-lusso-e-un-diritto/.

[53] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1944), Torino, Einaudi, 1997, p. 12. Parafrasando Adorno, quelle delle giovani adolescenti del film non sono forse forme della “vita offesa” ridotte a mera appendice del processo immateriale della produzione, “senza autonomia e sostanza propria”? T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Torino, Einaudi, 1954, p. 3.

[54] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 64.

[55] Id., Opere cinematografiche, Milano, Bompiani, 2004, p. 184. Sul tema, cfr. anche M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 63.

[56] I brutti giorni finiranno, in “Internazionale Situazionista”, n. 7, in Internazionale situazionista. 1958-69, Nautilus, Torino, 1994, p. 17.

[57] G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 84.

[58] Id., Opere cinematografiche complete, cit. p. 23.

[59] M. Pezzella, Il fascino indiscreto di un altro mondo possibile, in “Il manifesto, 26 agosto 2014. “La merce è sempre agitata dal fantasma della libertà […], la promessa di libertà che la merce contiene è il suo fantasma fondamentale”. F. Chicchi, Sul rapporto tra soggettività e merce, in “Quaderni di San Precario”, novembre 2013, http://quaderni.sanprecario.info/2013/11/sul-rapporto-tra-soggettivita-e-merce-di-federico-chicchi/.

[60] M. Pezzella, Il fascino indiscreto di un altro mondo possibile, cit.

[61] P. Bianchi, Buoni o cattivi padri? Non è questa la fine. Note su psicoanalisi e patriarcato, in “S-connessioni Precarie”, giugno 2014, http://www.connessioniprecarie.org/2014/06/13/buoni-o-cattivi-padri-non-e-questa-la-fine-note-su-psicoanalisi-e-patriarcato, in dialogo critico con le posizioni neo-lacaniane e con P. Godani, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, Roma, DeriveApprodi, 2014.

[62] A. G. Biuso, Vuoto, in http://www.biuso.eu/2013/10/21/vuoto/, 21 ottobre 2013.

[63] W. Benjamin, Zentralpark. Fragments sur Baudelaire (1938-1939), in Id., Charles Baudelaire. Un poète lyrique à l’apogée du capitalisme, Paris, Payot & Rivages, 2002, p. 236.

[64] R. Chiesi, Un desiderio chiamato illusione, in “Cineforum”, 9,  2013, http://www.cineforum.it/Reviews/view/Un_desiderio_chiamato_illusione.

[65] M. Diana, Dietro il glamour lo xanax, in “L’indice”, 1, 2014, p. 40.

[66] R. Escobar, Anime perse, in “L’Espresso”, dicembre 2013, p. 174.

[67] Cfr. i contributi contenuti in A. Pagliardini (a cura di), Il reale del capitalismo, Milano, Et. Al. Edizioni, 2012.

[68] F. Chicchi, Sul rapporto tra soggettività e merce, cit.

[69] J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi (1964), Torino, Einaudi, 1979, p. 189.

[70] M. Dotti, L’idolo denaro tra bisogno e desiderio, in “Tysm. Litterary Review”, 16, 2014, http://tysm.org/lidolo-del-denaro/. Sul denaro come “Joker universale”, cfr. S. Viderman, Il denaro. In psicanalisi e al di là, Milano, Raffaello Cortina, 1993, p. 79 e S. Petrosino, Soggettività e denaro. Logica di un inganno, Milano Jaca Book, 2012, pp. 45-46 e 52-53.

[71] R. Escobar, Anime perse, cit.

[72] R. Manassero, Woody Allen. Blue Jasmine, in “Doppio zero”, 13 dicembre 2013, http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/woody-allen-blue-jasmine.

[73] F. Chicchi, Soggettivazioni, in “Commonware”, maggio 2014, http://commonware.org/index.php/cartografia/374-soggettivazioni.

[74] Quella grande illusione è stata interpretata anche come una “grande allusione”. “Un’allusione retorica […] alla libertà individuale, alla soggettività, all’autonomia di ciascuno, prodotta dal capitalismo per mascherare la [loro] negazione di fatto”. L. Demichelis, “Sii imprenditore di te stesso. Ovvero la grande allusione”, in “Sbilanciamo l’Europa”, 25, 2014, supplemento a “Il manifesto”, 18 luglio 2014.

[75] Cfr. P. Vignola, Symptomatologies du désir entre XX et XXI siècle, in “La deleuziana”, 0, 2014, http:/www.ladeleuziana.org/symptomatologies-du-désir-entre-XX-et-XXI-par-paolo-vignola e B. Stiegler, Pharmacologie du Front national, Paris, Flammarion, 2013, pp. 192 e ss.

[76] J. Read, La produzione della soggettività. Dal transindividuale al comune, cit., p. 207.

[77] Cfr. P. Vignola, Symptomatologies du désir entre XX et XXI siècle, cit..

[78] G. Deleuze, D come desiderio, in P. A. Boutang, Abecedario di Gilles Deleuze, Roma, Deriveapprodi, 2005.

[cite]

tysm literary review

vol. 21, issue no. 22

march 2015

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