philosophy and social criticism

Invenzioni nella psicosi

Marco Dotti

Chiara Mangiarotti – Céline Menghi – Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould (Quodlibet, Macerata 2008).

Nel 1908, Gaëtan Gatian de Clérambault aveva trentasei anni. Un’età non troppo giovane per un medico che, ossessionato dalla fotografia e dal disegno, impiegato presso la Prefettura di polizia, già da un decennio si dedicava smodatamente alla ricerca di malanni e sintomi nascosti nei luoghi più impervi del costume umano e del commercio sociale.

Clérambault frequentava gli ambulatori giudiziari, non sdegnava le carceri o i reparti in cui si confinavano i derelitti e, nel corso della Prima guerra mondiale, prese infine servizio come medico di campo nel duplice intento di studiare i traumi del conflitto sugli individui e fotografare le conseguenze sul territorio dell’esplosione delle mine. Nel 1908, comunque, alcune delle future teorie di questo insolito psichiatra un po’ conservatore e forse troppo legato agli schemi dell’ereditarietà troveranno in nuce il loro primo sviluppo e il primo accenno negli “Archives d’anthropologie criminelle de Médecine légale et de psychologie normale et pathologique “. Gli “Archives” ospitarono infatti la prima parte di una sua singolarissima relazione dedicata al drappeggio e intitolata La passion érotique des étoffes chez la femme. La passione femminile per le stoffe era stata indagata proprio in quegli anni, che grosso modo coincidevano con il boom di aperture di Grandi Magazzini, da scrittori e giornalisti incuriositi soprattutto da un nuovo fenomeno in rapidissima diffusione come il furto “femminile”, legando in forma un po’ ingenua la cleptomania alla fascinazione esercitata dalla moda e dal prêt-à-porter. Pur non trascurando affatto l’elemento del “passionale” del furto, più che lanciarsi in voli romantico-pindarici o in esercizi di moralizzazione sulla “donna delinquente”, Clérambault preferì concentrarsi sulla descrizione delle stoffe intese come veri e propri corpi e come tali dotati di pulsioni, generatori di passioni, capaci di trasformarsi in veicolo del più smodato erotismo femminile e di una perversione specifica molto diversa da quella riscontrabile negli uomini. Attraverso l’interrogatorio di tre detenute «che hanno provato un’attrazione morbosa per certe stoffe, in particolare per la seta», Clérambault giunse a circoscrivere un preciso fenomeno di feticismo in tono minore, tutto femminile, determinato da «iperestesia al contatto con la seta». In mancanza di concretissima seta rubata, notava però lo psichiatra, le donne non sognavano immaginarie «sete sontuose» e il loro rapporto appariva dunque carnalmente e concretamente simile a quello di un «buongustaio solitario mentre assapora un buon vino».

Le intuizioni di Clérambault, sviluppate nei successivi lavori sulle psicosi passionali, sull’automatismo mentale e, soprattutto, sull’erotomania arriveranno fino a Lacan che nel 1966 lo designerà esplicitamente come «unico maestro» (in psichiatria), suscitando una particolare eco e in alcuni, c’è da supporre, persino un certo imbarazzo. Che cosa aveva da condividere Lacan con l’eccentrico e disattento Clérambault, che non si mostrò proprio un estimatore di Freud, era un aperto avversario del surrealismo e per giunta morì suicida con una mise-en-scène così sfacciatamente teatrale che il 20 novembre del 1934 ispirò a “Le Figaro” un commento tanto sfrontato, quanto celebre? Il giornale testualmente scrisse: «Sembra che le malattie mentali siano contagiose. Non si vive impunemente a contatto con i pazzi».
Già nei suoi primi testi, in particolare nello studio del 1931 dedicato alla Structure des psychoses paranoïaques, Jacques Lacan aveva mostrato il proprio debito nei confronti di Clérambault. Nonostante un rapido allontanamento dalla sua “scuola”, Lacan ebbe il merito indubbio di individuare nel’«erotomania» e nell’automatismo mentale descritti da Clérambault altrettanti elementi chiave per comprendere la strutturazione dell’inconscio come linguaggio. Ma Lacan non era il solo. Pochi anni dopo- nel ’37 per la precisione – toccò a Gaston Ferdière riprenderne un po’ più schematicamente le tesi e sintetizzarle in un lavoro non privo di conseguenze, anche se poco noto: L’érotomanie ou l’illusion délirante d’être aimé edito da Doin & C. e dedicato, appunto, alla cosiddetta «sindrome di Clérambault» o erotomania. Non è singolare, pertanto, che anche il nome di Gaston Ferdière – figura complessa, noto ai più solo in quanto “sfortunato” psichiatra di Antonin Artaud – ritorni assieme a quelli di Clérambault e, ovviamente, Lacan nel volume bello e ricco di aperture che Chiara Mangiarotti, Céline Menghi e Martin Egge hanno dedicato alle Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould.

Se alla morte di Clérambault “Le Figaro” ironizzava forse involontariamente sulle potenzialità di contagio della follia, Lacan ribadiva che no, «non diventa pazzo chi vuole» e un organismo fragile, «un’immaginazione sregolata, conflitti che superano le forze non bastano» per spiegare il mistero complesso della follia. Sono precisamente queste parole – nota Céline Menghi nel saggio che apre il volume – a far posto alle «parole del folle nel campo della psicoanalisi». Ma sono ancora queste parole a riproporre drasticamente la questione in tutta la sua rischiosa complessità, dovese è vero che i rischi aumentano in proporzione alla seduzione e al fascino del tema e dei soggetti trattati.

Il punto centrale che muove e lega in uno schema unitario i tre lavori presentati nel volume (Egge sul “dialogo senza parole” di Gould, Menghi sulla scrittura di Nijinsky e Mangiarotti sulla poesia anagrammatica, sul segno e il disegno di Unica Zürn) è quello della “supplenza” e dell’invenzione nella follia. Per continuare a vivere, alcune persone decidono di porsi non solo idealmente al confine fra la vita e la morte: il bisogno di equilibrio, ordine e protezione forse non nascondono altro che il desiderio di coltivare una passione che salva e permette – a loro, ma non soltanto – di affrontare l’angoscia dell’esistenza. Se ne ricava un dialogo intenso, fortemente articolato fra le figure chiamate in causa e i problemi – non pochi – che mano a mano affiorano nella disamina delle singolarità del lavoro con e sul pianoforte di Gould, in quel vero testo di rottura e di vita vissuta che sono i Diari di Vaslav Nijinski, e nelle mille vicissitudine di Unica Zürn nella sua volontà di essere scrittrice e in seguito nella sua incapacità di esserlo in ogni circostanza, soprattutto dopo l’incontro con Hans Bellmer e Gaston Ferdière (che la prese in cura).

È proprio nella figura della Zürn, affrontata nel lungo saggio critico di Chiara Mangiarotti (Unica Zürn. Una Unica supplenza), che vita, “follia” e strategie di esistenza si muovono e si incontrano sul crinale di un equilibrio particolarmente fragile. La Zürn, infatti, sembra incarnare perfettamente il tipo affetto da «sindrome di Clérambault» e animato, come sosteneva Ferdière, da una delirante illusione di essere amati. Ma il suo equilibrio – e questo Ferdière non lo comprese mai – è tale, pur nella precarietà che gli fa da sfondo, proprio perché integralmente inscritto nella storia di uno «stato passionale». Una stato continuamente sovreccitato, un’invenzione appunto nella psicosi, come ricorderà nell’autobiografico Oscura primavera. Storia, quella di Unica, che è anche un capitolo importante nel rapporto spesso distorto fra genialità, femminile e follia. Termini quasi sempre assunti – ma non è questo il caso – come altrettanti luoghi comuni.

Nel 1970, poche settimana prima di togliersi la vita, Unica Zürn scrisse un testo che ha tutti i canoni dell’appello, seppure tardivo. Nel testo – intitolato MistAKE, recante la dedica «a Jacques Lacan» – Unica parla di un «uomo chiamato amore». In questa figura l’autrice berlinese condensava il tema di tutto il proprio lavoro di scrittura: la possibilità di un amore a distanza, anche quando impossibile. «Soltanto chi ama senza speranza», scriveva infatti la Zürn, «ha la possibilità di amare sempre, e sempre con la stessa intensità». E forse questo Clérambault l’aveva capito.