philosophy and social criticism

Ironia. Su Gianfranco Cecchin

di Pietro Barbetta

Intervento al Convegno su Gianfranco Cecchin, Milano, 8 Febbraio, 2014. 
Centro Milanese Terapia della Famiglia.

Stuck system: convergenze disgiuntive.

L’ironia è descrizione e per descrivere qualcosa bisogna prenderne un po’ le distanze. L’ironia è una pratica, può essere una pratica clinica.

Descriverò la posizione terapeutica di uno dei maestri dell’ironia.

Gianfranco Cecchin praticava il paradosso della descrizione. Per lui i sistemi meravigliosi erano stuck. Come tradurre questo termine inglese – stuck – che richiama, ironicamente, la meccanica? Lui rispondeva: bloccato, inceppato. Come una serratura che non funziona più. Ma se così, come mai questa grande ammirazione? Cecchin, psicoterapeuta vicino all’epistemologia di Heinz von Foerster, riteneva che fosse quasi impossibile fermare il flusso vivente del divenire umano. Perciò gli stuck systems sono impegnati in uno sforzo eroico.

Una macchina banale – questo il linguaggio di von Foerster, che Cecchin[1] fa suo – viene costruita e riparata dall’esterno, i suoi vincoli possono essere numerosi, ma esiste sempre la possibilità che questi vincoli vengano tenuti sotto controllo.

Una macchina non banale invece non viene costruita dall’esterno e neppure può venire dall’esterno riparata. Possiede l’autopoiesi, si accende e si spegne per volontà propria, disobbedisce agli ordini, possiede sentimenti, è dotata di un linguaggio con un sistema logico ad alta indecidibilità. L’indecidibilità è quel fenomeno che costringe un sistema a prendere una decisione illogica, irrazionale. Nei momenti di indecidibilità non ci sono abbastanza risorse logiche che permettano di decidere correttamente. Ogni condizione paradossale è di indecidibilità e il paradosso è l’anticamera del doppio legame.

Ciò non accade alle macchine banali. Quando Stanley Kubrick mise in scena 2001 odissea nello spazio, costruì l’ironia di una macchina banale, sebbene altamente complicata, che tutto a un tratto diviene una macchina non banale, prende decisioni differenti da quelle dell’equipaggio della nave spaziale. Ebbene, secondo Cecchin gli stuck systems svolgono esattamente l’operazione inversa. Nel film il computer rifiuta di obbedire ai comandi e prende la responsabilità di decidere per conto suo. In consulenza un sistema umano funziona come un computer, rinuncia alla responsabilità di evolvere. Gli stuck systems sono macchine non banali che si mettono nella posizione di diventare macchine banali.

I sistemi umani non sono però uguali, ci sono sistemi divergenti e convergenti. Un sistema è tanto più divergente quanto più è congiuntivo, tanto più convergente quanto più disgiuntivo. Che cosa sia il pensiero congiuntivo lo spiegano Boscolo e Bertrando nei tempi del tempo, ora ci occupiamo soprattutto dell’opposto. Per un sistema umano essere convergente significa produrre identificazione, che si ottiene segnando confini forti con l’esterno, con l’Altro. Un sistema convergente perfetto si trasforma più o meno rapidamente in una macchina banale passando attraverso due tappe: la prima consiste nel segnalare i confini della propria identità, indicando l’Altro, la seconda nell’espulsione dell’Altro dai propri confini. La più perfetta delle macchine banali è il totalitarismo.

Ma Cecchin diceva:

Una meravigliosa digiunatrice

Il termine meraviglioso è un aggettivo ironico. Nel linguaggio esistono termini che hanno intrinsecamente un contenuto ironico e paradossale: purtroppo/per fortuna, fortunatamente/sfortunatamente, meraviglioso/mostruoso, ecc.

A parte 2001 di Kubrick e altri film del genere, è impossibile, per una macchina banale diventare non banale, ma lo è altrettanto il contrario?

No, anche se non è facile. È necessaria una condotta eroica. L’esercizio di inceppare il sistema non riesce sempre. L’eroismo della banalità consiste nella riverenza estrema (o nell’irriverenza estrema, non cambia); a tutti i costi, in qualsiasi circostanza. Cecchin la chiamava “sottomissione al verbo essere”.

cecchin

Al contrario. Tanto più i sistemi umani sono divergenti, tanto più promuovono differenziazione e il rapporto con l’Altro è congiuntivo, non identificativo o mimetico, neppure espulsivo.

Ma il rischio di questa distinzione congiuntivo/disgiuntivo è un ritorno alla prescrizione di una banale pedagogia sociale. Se i sistemi divergenti e congiuntivi sono evolutivi, i sistemi convergenti e disgiuntivi (che sono mortiferi e patologici) nascondono una quota di fascino che non si sottrae allo sguardo curioso e ironico: il loro lato eroico.

Non è nella critica che si trova la loro salvezza. Nei sistemi umani patologici è la conversazione non banale che produce terapia.

Come nel film La vita degli altri, quelli che un agente segreto comunista deve spiare. Si crea una posizione riflessiva da parte dell’agente del servizio segreto. Egli osserva il fascino di un sistema divergente e congiuntivo, immagina come sarebbe bello rientrare a casa e fare all’amore con una donna con cui si è discusso d’arte, di letteratura, di politica, dopo avere ricevuto un gruppo di amici a casa, di come sarebbe bello addormentarsi dopo avere letto una poesia di Brecht, o avere ascoltato un brano musicale.

Cecchin sosteneva che la psicoterapia consiste in gran parte in descrizioni delle condotte patologiche per cercarne il senso. Decidere di non consumare più i pasti, nonostante si sentano i morsi della fame, richiede un sacrificio eroico. Se dietro questo gesto c’è protesta sociale o condotta religiosa sacrificale, per quanto estrema, allora il senso del gesto può venire colto. Quando però non vi sono né ragioni politiche, né esplicite ragioni sacrificali, quando ciò avviene nel cuore della normalità, quando non se ne intende il senso allora bisogna, come aveva osservato Wittgenstein, descriverne gli effetti a partire dall’uso. Bisogna fare un passo attraverso l’ironia, è più complicato, è necessaria, ma non è più sufficiente, la sola parola vuota, come pensano gli psicoanalisti lacaniani, il taglio non basta più, ci vuole una sovradeterminazione, oppure una sottodeterminazione.

Quando Cecchin, conversando con l’anoressica e la sua famiglia, dopo i racconti relativi alla tensione e all’insopportabile densità morale venutasi a creare in casa, definiva la paziente nei termini di meravigliosa digiunatrice esprimeva ammirazione per una condotta eroica. Difficile, impossibile da intraprendere. Mica la criticava, non voleva correggerla, né insegnarle come si mangia. Impossibile insegnare a un’anoressica come si mangia. Lo sa meglio di qualunque nutrizionista. Chissà quante nutrizioniste lo sono diventate per curarsi dai disturbi alimentari.

Questa posizione ironica è connotazione positiva.  Che cosa può voler dire connotazione positiva? Connotare è un azione segnica alternativa a denotare. Si denota qualcosa quando ci si riferisce a quella cosa, la si connota quando la si descrive. La connotazione riguarda le qualità dell’elemento denotato. Tali qualità possono essere sostanziali o accidentali, le prime sono necessarie all’appartenenza di quell’elemento a un genere, quattro zampe per un cane, le seconde sono possibili, il pelo bianco di un cane.

Un cane può avere caratteristiche sostanziali, come le quattro zampe, o accidentali, come il pelo bianco, ma anche caratteristiche impossibili, come il pelo verde (ricordate i sillogismi in Erba di Bateson?).

I cani hanno quattro zampe necessariamente, hanno il pelo bianco possibilmente, ma per pensare un cane dal pelo verde dobbiamo delirare, perché cani col pelo verde non ne esistono, non ci sono in questo mondo condizioni in cui la proposizione “quel cane ha il pelo verde” possa riferirsi a un fatto. Quindi la frase: “Se quel cane ha il pelo verde, allora è un marziano” è necessariamente vera.

Così in logica: le frasi tipo “se, allora” che partono da una premessa palesemente falsa sono sempre vere. Siamo di fronte a una torsione che ci costringe a inventare mondi altri rispetto a quello che ci passa quotidianamente sotto gli occhi, mondi possibili. Questo è l’immaginario, così come lo hanno pensato Foucault e Bateson.

In grammatica questi mondi hanno una loro forma legittima solo che si cambi il modo del verbo, passando dall’indicativo al congiuntivo: “Se quel cane avesse il pelo verde, allora sarebbe un marziano”. Il congiuntivo non è solo un modo verbale, è un modo di pensare: pensiero congiuntivo.

E’ assai facile vedere come questa proposta colga un’ironia intrinseca nelle regole della logica elementare. Le regole della logica, fin dai suoi fondamenti, si sospendono. Connotare significa darsi la libertà di attribuire a qualcosa o qualcuno una caratteristica impossibile per creare un mondo ipotetico.

Connotare negativamente però no. La medicina pensa la patologia come un’impossibilità della fisiologia. Chi è malato non può essere sano e se consideriamo la fisiologia un mondo, la patologia è l’impossibilità di questo mondo. Dunque, così come i cani dal pelo verde stanno su un mondo impossibile, anche la patologia sta in un mondo impossibile per la salute. Inoltre la fisiologia mentale è il mondo della salute mentale principalmente perché chi si trova in questo mondo esercita la responsabilità personale. La patologia mentale, rendendo impossibile la salute mentale, rende impossibile l’esercizio della sua prima conseguenza: l’esercizio della responsabilità personale. Ebbene l’ironia di Cecchin agiva in terapia al contrario rispetto a queste premesse.

“Se sei anoressica, allora sei una meravigliosa digiunatrice” è dunque vero se, e solo se, la premessa è falsa. Se sei una fantastica digiunatrice vivi in un mondo in cui digiunare è un’attività che può avere la qualità di meraviglioso, in cui il digiuno è un’abilità piuttosto che una disabilità, e soprattutto in cui il digiuno è l’esercizio di una responsabilità personale. In una fisiologia del possibile, digiunare senza morire può essere un modo per mostrare qualità straordinarie, miracolose.

Se pensiamo alla proposizione: “Se sei anoressica, allora sei una meravigliosa digiunatrice”, la frase “Sei una meravigliosa digiunatrice” rappresenta la depatologizzazione.

La connotazione positiva consiste in una forma espressiva che permette agli interlocutori di osservare le premesse date-per-scontate  che reggono la conversazione stessa. Produce, all’interno della conversazione un doppio legame, una vera e propria sindrome transcontestuale (Bateson).

L’ironia serve a dar forma a qualcosa attraverso un giudizio del tutto opposto, come quando di fronte alla cattiva sorte si afferma: “fantastico!”, una specie di esorcismo della sorte avversa, ci restano ancora capacità derisorie. L’ironia è paradossale e il paradosso è l’anticamera del doppio legame. Questo però significa che il doppio legame ha potenzialità evolutive, si tratta di vedere sotto quali condizioni.

In generale l’ironia istituisce la sospensione della Legge, consiste in un modo di descrivere un divieto o un’impossibilità come se le regole che lo reggono fossero momentaneamente sospese.

Questa sospensione della Legge, implicita nel movimento ironico, permette di svelarne il lato osceno. (Ricordate Barbablù?)

Istigazione, implicita nel divieto, a commettere l’atto vietato per il solo fatto che, nel vietarlo, bisogna indicarlo supporne un’esistenza da rendere impossibile.

Lo straniero

Quando faceva terapia, Cecchin diventava uno straniero, si trovava in un contesto ad alta densità ironica. La micropolitica della sua esperienza terapeutico si riempiva di zone d’intenzionalità poetica.

Entro in un bar, chiedo un caffè. Mi viene servito un grosso bicchiere di carta pieno di un liquido bollente con un coperchio di plastica e una cannuccia che spunta fuori. Sono negli Stati Uniti. Per il lettore nordamericano la frase suona così: “Entro in un bar, chiedo un caffè. Mi viene servita un minuscola tazza di ceramica che contiene un liquido denso, opaco e nero con venature maron in superficie. Sono in Italia”. Questo il dettaglio che interrompe bruscamente la texture abitudinaria.

Ricordo che, sui venticinque anni, mi capitò di accompagnare qualche volta mio padre e suo fratello a Berna per seguire una cura relativa all’enfisema polmonare, di cui entrambi soffrivano. Usciti dalla clinica ci si recava sempre allo stesso bar e loro ordinavano regolarmente un caffè. Il caffè di Berna allora era assai più lungo di quello italiano e veniva servito in una tazza grande. Dopo due o tre volte, mi accorsi che si ostinavano a chiedere il caffè. Non per berlo, per fare dell’ironia. Uno dei due cominciava chiedendo all’altro in milanese: “Non hai mica qualche fagiolo nel tuo minestrone di verdura?” e l’altro replicava in un crescendo. Dava loro una certa soddisfazione morale, serviva a rinnovare la relazione di fratellanza negli ultimi anni della vita. Io e mio cugino, che ci alternavamo nell’accompagnarli in quei viaggi, ne fummo i testimoni.

Il termine zona d’intenzionalità poetica lo sentii usare da Michel Jeannès, che lavora presso una galleria di Lione promuovendo arte partecipativa. Durante il periodo in cui l’incontrai, era ossessionato dai bottoni. Soprannominato monsieur bouton, ne raccoglieva d’ogni tipo. Li vedeva dappertutto. Si recava nelle banlieues con una troupe televisiva e chiedeva alle persone che incontrava di slacciare e riallacciare un bottone dei vestiti che indossavano, inquadrava le mani che agivano e filmava. Montava poi, una dietro l’altra, queste immagini e trascorreva settimane in questo modo in una medesima zona, fino a diventare parte del panorama del quartiere e noto appunto come monsieur bouton.

A questo punto aveva allacciato relazioni più o meno permanenti con la popolazione e poteva capitare che qualcuno lo invitasse a casa propria, o che lui osasse autoinvitarsi. La trama non cambiava: in casa chiedeva di poter vedere la scatola dei bottoni e, attraverso ciascun bottone raccolto dalla famiglia, ne ricostruiva la storia. Mi mostrò un video sulla conversazione di una nonna e una nipote davanti alla scatola dei bottoni di famiglia. La nipote sceglieva i bottoni e chiedeva alla nonna di ricostruirne la storia. Le due donne condividevano una perdita, la madre della giovane donna, figlia della donna anziana.

La scatola dei bottoni diventa zona d’intenzionalità poetica e permette alle due donne di parlare della storia familiare, il bottone blu della tuta del nonno ricordava il lavoro di fabbrica di questo immigrato italiano, il bottone d’oro della divisa ricordava che quando venne arruolato per andare in guerra fu rapidamente trasformato da immigrato in cittadino francese. Scaturivano storie dai bottoni.

In psicoterapia le zone d’intenzionalità poetica sono particolari momenti di conversazione. Luigi Boscolo mi raccontò di un paziente dalle spalle curve, il capo basso e l’aria malinconica. Aveva avuto un rapporto kafkiano con il padre, descritto come potente e infallibile. Dopo alcuni incontri, Boscolo guardandolo avanzare verso di lui ebbe una sorta di visione, gli disse: “Io vedo, quando la guardo, suo padre dietro di lei che la tiene sollevato per la collottola”.

L’intervento potrebbe avere avuto diversi tipi di efficacia, per esempio far scaturire una riflessione sulla postura che il paziente assumeva camminando come se fosse sostenuto per la collottola dal padre. Non possiamo escludere che la liberazione dall’incubo kafkiano possa essere passata attraverso la decisione di quest’uomo di assumere una postura e una camminata diversa, a testa alta. Il cambiamento della posizione del corpo nel mondo avrebbe, in questo caso, permesso al paziente di svincolarsi dall’incubo di una figura ingombrante.

Ironia è uguale a dissimulazione, è una via d’uscita dal potere. Ne fu la via d’uscita per Gregory Bateson. Quando Bateson aveva lavorato con Haley si era trovato costretto a rifiutare un modello interpretativo delle relazioni umane che ha influenzato la terapia familiare. Questo modello partiva dalla premessa che gli esseri umani entrino in relazione per tenere sotto controllo le relazioni in cui entrano. Da Ervin Goffman a Mara Selvini Palazzoli questa premessa ha influenzato le scienze sociali ritenendo che la persona, definita all’uopo attore sociale, assuma sempre una condotta strategica, al di là della propria consapevolezza.

Bateson aveva respinto quest’ipotesi, venendo accusato da Haley di avere una sorta di deviazione psicoanalitica. Haley sosteneva infatti che per accettare le critiche di Bateson bisognava postulare l’esistenza di fattori interni alla persona e rivalutare l’introspezione.

Bateson rispose sostenendo che il punto di vista di Haley era corruttivo, che avere l’idea del potere nell’analizzare le relazioni umane corrompe. Che significa? Il potere costituisce se stesso, il parlare di potere è già esercitarlo. Vedere le relazioni umane con le lenti del potere è creare relazioni umane basate sul potere ed entrare nelle relazioni umane per mezzo del potere. Questo credo sia il senso della posizione di Bateson nei confronti del potere, usare il linguaggio del potere corrompe.

L’ironia serve a parlare di queste attività mantenendo le distanze tra il dire e il fare.

Alcuni anni dopo la diatriba con Haley, Bateson formulò un’ipotesi che confermava i pregiudizi sulla sua vicinanza alla psicoanalisi. Sostenne che gli esseri umani entrano in relazione alla maniera della dis-simulazione (vedete le nostre simulate a che servono?).

La condizione umana è costitutivamente una condizione ironica. E’ impossibile entrare in relazione senza indossare una maschera, anche se la maschera non copre il vero volto, bensì un’altra maschera all’infinito.

Se con Freud prevale la figura del perturbante – che cosa ci sarà di terribile sotto la maschera? – con Bateson prevale quella del fuorviante (misleading). L’ironia è possibile nello spazio che si interpone tra l’una e l’altra maschera, è la maschera che si mostra come maschera.  L’attore non è un personaggio con parti definite, non è sociale, abita lo spazio interstiziale tra il sociale e l’idiosincrasico.

Spazio vuoto, zona di perdita del senso, immaginaria.

L’ironia parte da un presupposto: ogni fenomeno nasconde una quota di irrazionalità, la nasconde perché prima facie si presenta come giustificato. L’ironia è una sorta di torsione della giustificazione. L’ironia si limita a svelare il residuo irrazionale nascosto dietro la giustificazione, a svelare l’esistenza dell’ombra. Non la denuncia, non usa i mezzi della critica. La svela, usa, a sua volta, il sentimento.

L’ironia è gioco, così come lo intendono Winnicott e Bateson. In Gioco e realtà Winnicott descrive il gioco come un godimento senza acme, senza scarica.

Bateson ha un riferimento analogo allorché parla di un modello della relazione che si snoda su un plateau continuo d’intensità. Egli scrive che in talune situazioni culturali, all’interazione cumulativa schismogenetica che si spegne al raggiungimento dell’acme, si sostituisce un plateau continuo d’intensità che non raggiunge mai l’acme, cioè l’orgasmo.

Se l’ironia è  un fenomeno trasgressivo, di irriverenza, come sosteneva Gianfranco Cecchin, è meglio non essere mai troppo irriverenti. Non dobbiamo confondere la critica con l’ironia. La critica è antagonista, contrapposizione della ragione vera alla ragione falsa. Presuppone una verità fondamentale, una fondazione razionale assoluta. L’ironia non è antagonista, è decostruttiva. L’ironia è irriverenza, la critica contrappone una riverenza a un’altra. La critica è la premessa alla costituzione di nuovi dispositivi, per ironia della sorte.

Sarà davvero così? Questa è la domanda ironica che mi pongo. Mi propongo di crederci intensamente per i prossimi sei mesi.

 


[1]               Cecchin, G., Barbetta,  P., Toffanetti, D., “Who was von Foerster anyway?” in Kybernetes, Vol 34. Issue 3-4, 330-342, Emerald Group.

Barbetta, P. Figure della relazione, Pisa, ETS, 2007.

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tysm literary review, Vol 7, No. 11,  January 2014

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