philosophy and social criticism

La bestia scarlatta e la pioggia di fuoco. Jean Genet e il blasfemo

René de Ceccaty

E vidi una bestia salir su dal mare, che aveva sette teste e dieci corna, e nelle sue corna dieci corone, e sulle sue teste nomi di bestemmia. E la bestia ch’io vidi, era simile a un leopardo, e i suoi piedi come piedi d’orso, e la sua bocca come bocca di leone.

(Apocalisse, 13,1)

E mi portò in spirito in un deserto. E vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, che aveva sette teste e dieci corna.

(Apocalisse, 17, 3)

Sovra tutto’l sabbion, d’un cader lento Piovean di fuoco dilatate falde Come di neve in alpe sanza vento.

(Dante, Inferno, XIV, 28)

Nella prefazione a La philosophie dans le boudoir,1 Yvon Belaval sottolinea come in Sade la gradazione del piacere si conforma a quella della misura dei membri virili e alla crescente gravità delle bestemmie. Peraltro, precisa il prefatore, «il modello (della gradazione dei piaceri e dei crimini) si trova nel codice penale dell’Ancien Régime». Inoltre, Belaval commenta: «Che importa all’immaginazione se Dio non esiste, non per questo si gode meno a bestemmiarlo». In qualche modo, la nozione di voluttà si cela dietro la nozione di volontà del male, a sua volta classificata e ordinata secondo le norme della criminalità e dell’interdetto religioso. Attraverso la bestemmia, si tratta di manifestare nelle parole, pronunciate, poi scritte, la volontà di dominare il mondo e di non essere più schiacciati dalle sue norme umane: si tratta – dice Belaval – di rendere volontaria l’immaginazione e di non abbandonarsi più a delle fantasie licenziose. «Non solo occorre trarre piacere dal crimine, ma addirittura occorre proclamarlo in mezzo alle bestemmie: denunciare quel che il legislatore enuncia». Dice il duca di Blangis: «Sono assolutamente sicuro che ad animarci non è l’oggetto del libertinaggio ma l’idea del male; di conseguenza, ci si eccita per il male solo e non per l’oggetto, così che se l’oggetto fosse privo della possibilità di farci fare il male, non ci ecciteremmo per esso». Come non raffrontare questa frase con la chiusa del prologo del Journal du voleur di Genet: «Mi sono eccitato per il crimine»? In Sade, c’è un paradosso perfettamente enunciato da Dolmancé ne La philosophie dans le boudoir: Dio non esiste, la religione cristiana è vuota, adoriamo solo idoli, eppure, per accrescere il nostro piacere, dobbiamo servirci della religione, profanarla e oltraggiarla. La profanazione in sé non è niente, giacché le reliquie, gli oggetti sacri, i parametri ecclesiastici non contengono niente. «Profanare le reliquie, le immagini dei santi, l’ostia, il crocifisso, tutto questo, agli occhi del filosofo, è come danneggiare una statua pagana». Ma, prosegue Dolmancé, la bestemmia ha uno statuto a parte: «Non che sia più reale, infatti, se non v’è un Dio, a che giova insultare il suo nome? Ma è essenziale pronunciare nell’ebbrezza del piacere parole pesanti o sconce, e quelle blasfeme soddisfano l’immaginazione. Niente dev’essere risparmiato; occorre ornare quelle parole con la massima profusione di espressioni; esse devono scandalizzare il più possibile; perché scandalizzare è dolcissimo».

La posizione di Genet rispetto all’universo religioso e al suo contenuto è più ambigua. Se per Sade si tratta di denunciare il vuoto che la religione cristiana nasconde, cioè l’inesistenza di Dio, per Genet, l’inesistenza, l’assenza, il vuoto, il bianco, possono diventare essi stessi oggetti di venerazione. Questi temi appaiono in tutta la sua opera: soprattutto nei testi teatrali, ma anche nei romanzi. La prima tirata del Papa in Elle si fonda sulla costruzione di un’immagine che si distrugge da sola, si scava dall’interno e distrugge persino colui che l’incarna: «Fui assente da ogni rappresentazione, mentre le immagini del Papa si moltiplicavano all’infinito nei castelli, nelle capanne, nei conventi, nelle chiese, nelle fattorie, negli ospizi, nelle prigioni, nella boscaglia, nelle caserme… Ma, nel frattempo, io, proprio io, lo stesso che adesso avete di fronte e che piange tra miserabili singhiozzi, cos’era diventato? Dite, cos’era diventato? Non aveva più immagini. Gli specchi del Vaticano, direte voi? Dove sono gli specchi? Ma a misura che la mia povera persona diventava un supporto di gesti destinati a definire una immagine sempre più irreale, io, come una minuscola lumaca, mi ritraevo, mi assottigliavo, vedevo profilarsi attorno a me uno strampalato che si stirava da Roma a Hoggar, da Roma alla pampa, alla tundra, e io, fragile lumaca, mi sedevo su un gradino dello scalone pontificio a piangere in silenzio». Una stessa metafisica dell’assenza, dell’immagine vuota, la ritroviamo nel ritratto che Genet offre di sé. A proposito di Stilitano in Journal du voleur: «Non oso tentarne il ritratto, vi leggereste le qualità che scopro in ogni altro amico. (Pretesti alla mia iridescenza – poi alla mia trasparenza – alla mia assenza, infine – questi ragazzi di cui parlo svaporano. Di loro resta soltanto ciò che resta di me: io sono soltanto grazie a loro che non sono nulla, esistendo soltanto grazie a me. Mi illuminano, ma io sono la zona d’interferenza. I ragazzi: la mia Guardia crepuscolare». Altrettanto in Un captif amoureux, a proposito di Yasser Arafat. Attraverso il ritratto «assente da se stesso» del capo dei fedayìn, Genet propone quello di ogni personaggio “emblematico”. Tutto il ritratto è interessante, nella misura in cui Genet si riferisce da una parte a Hitler, come aveva fatto sistematicamente in Pompes funèbres, e dall’altra al personaggio assente da se stesso per eccellenza, Cristo: vale a dire, un personaggio la cui immagine si sostituisce alla realtà e la cui realtà ormai si basa solo sulla circolazione delle sue immagini. E, secondo un procedimento frequente in Genet, accosta gli estremi, Hitler e Cristo, per annullare le loro rappresentazioni contraddittorie in una nuova immagine (qui Arafat) che ridicolizza e venera allo stesso tempo. Questo doppio movimento di venerazione e di irrisione è l’atteggiamento del blasfemo. Il paradosso del blasfemo sta nell’insudiciare un’immagine che pone come immacolata: in uno stesso atto, egli colma e svuota di realtà quell’immagine. Così Genet presenta Arafat: «Il primo, quotidiano, l’inesorabile compito di Hitler era conservare al risveglio la sua somiglianza fisica, la scopa dei baffi tagliata quasi orizzontale, tanto che ogni filo pareva uscire dalle narici, il ciuffo nero e lucido non aveva il diritto di sbagliare lato sulla gelida fronte, così come i bracci della svastica non dovevano ruotare verso sinistra, il lampo dello sguardo collerico o suadente, a seconda, il celebre timbro, e quant’altro si può dire. Cosa sarebbe accaduto se, levato dal letto, di fronte ai dignitari del Reich e agli ambasciatori dell’Asse si fosse presentato un giovane finlandese biondo e glabro?

Doveva essere la stessa cosa quando, dal basso in alto, dalle doppie suole al fondo del suo cappello, dalle calze del Negus al suo parasole, dalla catenina alla caviglia al bocchino di Marlene, un personaggio è diventato emblematico. Riuscite a immaginare Churchill senza il sigaro? Rappresentare un sigaro senza Churchill? Un kefirh può avvolgere un’altra testa se non quella di Arafat? Come a tutti, anche a me regalò un kefirh nuovissimo, come dire “Fate questo in memoria di me”. Dato che non poteva concedere delle foto con l’autografo come fanno gli attori, offriva un pezzo di se stesso. Per gli Occidentali, Arafat resta un kefirh con la barba trascurata. Provai enorme stupore quando lo vidi – di fronte, prima, si assomigliava – mentre girava la testa verso sinistra per rispondermi: mostrò il suo profilo, allora vidi un altro uomo (…) così, nel vederlo a un metro e cinquanta di distanza, pensai agli sforzi che occorre fare, in qualche modo alla cieca e nella notte del corpo, per apparire somiglianti ai propri occhi e a quelli altrui». Genet lorna sullo stesso tema e si dilunga più volte. In particolare: «Dalla Grecia fino alle Black Panthers, la storia è fatta dal bisogno di staccare da sé – se vogliamo, di affidare al futuro – delle immagini favolose, che agiscano a lungo, lunghissimo termine, dopo la morte: l’ellenismo avrebbe acquistato autentica forza solo dopo la morte di Atene; Cristo rimprovera Pietro che vorrebbe – sembra – impedire di realizzare la propria immagine e, fin dagli inizi della sua vita pubblica, Cristo fa di tutto per farsi notare; Saint-Just condannato da Fouquier-Tinville forse poteva fuggire, ma… “Io disprezzo la polvere che mi compone e che vi parla, ma niente potrà strapparmi questa vita indipendente che mi sono dato nei secoli e nei cieli..” Quando l’uomo costruisce un’immagine che vuol propagare, che vuole persino sostituire a se stesso, allora cerca, sbaglia, abbozza aberrazioni, una quantità di mostri non vitali, immagini di sé che dovrebbe strappare se non si disfacessero da sole: il fatto è che alla fine, l’immagine che permane – dopo la pensione o dopo la morte – dev’essere attiva: quella di Socrate, di Cristo, di Saladino, di Saint-Just». Non c’è da stupirsi se a questa lunga digressione sull’immagine ne segua un’altra sulla teatralità. Del resto, Genet non paragona forse Arafat a Jouvet? Les bonnes l’aveva scritto dietro ordinazione di Jouvet, proprio come l’ultimo libro rispode alla proposta di Arafat: «Perché non un libro?». In Un captif amoureux, Genet descrive se stesso a più riprese come se fosse morto: a sua volta, la scrittura è soltanto un gioco, che raddoppia il gioco della vita, e adorna il cadavere, che è l’autore, con gli attributi del lutto. E allorché evoca la morte, il più delle volte Genet accompagna le sue riflessioni con l’immagine della cerimonia cattolica di sepoltura, come in Notre-Dames-des-Fleurs o in Pompes funèbres: «I ricordi che riporto sono forse gli ornamenti che ancora addobbano il mio cadavere, dato che quanto scrivo non potrà essere utile a nessuno, ma a questo cadavere di me stesso di certo ucciso dalla Chiesa cattolica, il paganesimo renderà un omaggio assai dolce». Scrivendo l’ultimo libro, Genet rendeva egli stesso l’estremo omaggio alla propria esistenza: «L’illusione letteraria non è vana o almeno non del tutto, anche quando il lettore sa quelle cose meglio di me; e poi un libro ha I’ambizione di lasciar vedere, sotto i travestimenti delle parole, delle cause, delle vesti – comprese quelle del lutto – lo scheletro e la polvere che s’appressa. L’autore stesso, come coloro di cui parla, è morto». Dobbiamo intendere questa morte in senso fisico, ma anche in senso metaforico: scrivere è mettere all’opera la propria morte, la propria sparizione sotto l’apparato delle parole. Nel corso delle sue analisi, Genet riduce spesso la rivoluzione palestinese a un gioco del caso, allo scopo di fare il morto. «Infatti, se dovessi dire perché andavo con i fedayìn, giungerei a questa estrema conclusione: per gioco. Il caso mi è stato di grande aiuto. Credo che fossi già morto al mondo. E molto adagio, come per consunzione, sono morto definitivamente, così, perché fa fine».

Genet paragona la sua vita a un’ochetta di carta spiegata e ridotta a un foglio bianco; gli avvenimenti della sua vita «fatta di gesti senza conseguenze, con sottigliezza gonfiati in atti di audacia». «Ora, quando capii che la mia vita si collocava nel vuoto, questo vuoto divenne terribile come un baratro». Il vuoto, il foglio bianco, l’assenza, l’inesistenza, il simulacro non sono per Genet valori negativi. Come sappiamo, la prima pagina di Un captif amoureux è un’analisi della scrittura. Dove risiede lo statuto del reale nella pagina scritta? Il reale è il bianco dove si traccia il nero della scrittura? Oppure è solo il nero dei segni che può conferire realtà? Il paragone dei Neri americani con i segni tracciati sulla pagina bianca dell’America viene proseguito per tutto il libro. «I Neri nell’America bianca sono i segni che scrivono la storia; sulla pagina bianca sono l’inchiostro che le dà un senso. Se i Neri scomparissero, gli Stati Uniti per me resterebbero sempre gli stessi e non più la lotta drammatica che diventa continuamente più infuocata».

Genet cerca l’annullamento dell’essere e la negazione dell’essenza sotto il cerimoniale dell’apparenza non solo nella propria vita privata e, ancor più, nei testi teatrali, ma anche nelle pratiche rivoluzionarie che lo accompagnano negli ultimi anni: «Se il marxismo-leninismo è per definizione ateo, i movimenti rivoluzionari come le Black Panthers e i Palestinesi non sembrano esserlo, ma sembrano usare Dio, renderlo piatto, esangue, negletto, trasparente fino alla completa cancellazione».

In Un captif amoureux, vi sono tre pagine assai curiose dedicate a Montserrat. In queste pagine, Genet descrive un’emozione religiosa, che serve a preparare il suo incontro con Hamza, il protagonista del libro. A più riprese, paragona Hamza a Cristo e sua madre alla Madonna; immagine religiosa subito deviata in maniera erotica e dunque blasfema: «la Madonna nera che esibisce suo figlio – una canaglia mostra così il suo fallo che è nero – dunque la Madonna nera che brandisce la sua canaglia nera». Più avanti vi tornerà a lungo. L’emozione che in lui suscita la messa di Pentecoste (come la messa della Domenica delle palme) raccontata in Notre-Dame-des-Fleurs, e qui richiamata, viene paragonata a tre diversi prodigi: «Il monte Bianco che muove verso di me», «Il clown Grock che entra in pista ed estrae dai pantaloni un violino giocattolo», «La mano del poliziotto che piomba sulla mia spalla. E la mano mi diceva piano: “Sei fregato”». E Genet conclude con una definizione rapida di quel paganesimo mistico che gli è proprio. «Nell’evocare questa cerimonia dico da quale cerimonia sono uscito, in quale caverna certe volte mi ritrovo per un’emozione passeggera». Questa “caverna” è per Genet un buco nero; qui gli unici punti di riferimento vengono da lui stesso definiti.

In Un captif amoureux, i riferimenti a Dio, al Vangelo, le citazioni dalla Bibbia, sono troppo numerosi per riportarli tutti. Ma, tranne certe traduzioni in argot di alcune parabole evangeliche – «Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» diventa: «Non farti pescare dalle guardie: è da coglioni; prega e mio padre non aspetterà. Allunga la mancia allo sbirro e fila via» – o certe prove ontologiche in versione condensata – «Se Dio non esistesse, tu non ci saresti. Il mondo, dunque, si sarebbe creato da sé e il mondo sarebbe Dio. Il mondo non è Dio. Esso è imperfetto, infatti non è Dio» – la maggior parte delle citazioni sono dirette. Vi è una incontestabile mistica in Genet: nel descrivere la sua ricerca della madre di Hamza, egli fa subito appello alla pietà e al Vangelo; parlando del suo risveglio e della sua meraviglia di fronte alla bellezza del mondo, cita: «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato». E quando si trova per la prima volta sulle rive del Giordano, si ricorda del battesimo di Cristo. Non è comunque facile trovare delle bestemmie nel suo ultimo libro, se non la bestemmia fondamentale che consiste nel ripetere l’inesistenza di Dio e, al di là di Dio, l’inesistenza di se stesso e del mondo. Quindi la riduzione dell’esistenza medesima a un gioco. Nel senso teologico del termine, la bestemmia va dall’ingiuria proferita contro Dio (Levitico, XXIV, 15) all’assimilazione di Dio alle divinità del le altre religioni (Ezechiele, XX, 27), passando per la divinizzazione dell’uomo (Marco, II, 5 e XIV, 63). In queste tre accezioni, l’opera di Gcnet pullula di bestemmie. Tuttavia vi è un’antinomia propria alla bestemmia: si bestemmia solo quel che si venera. A queste tre accezioni, si deve aggiungere la semplice pronuncia del nome di Dio e la bestemmia dello Spirito Santo, così come viene definita da Matteo (XII, 31). Gesù guarisce un indemoniato cieco e muto. I Farisei lo accusano di aver operato su impulso di Satana. Gesù risponde: «Ogni peccato e ogni bestemmia sarà perdonato agli uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata». L’irremissibilità della bestemmia dello Spirito Santo ha dato vita a una considerevole letteratura dei Padri della Chiesa. Infine, potremmo aggiungere un ultimo significato alla bestemmia, così come viene definita dal 75° canone del Concilio riunito alla fine del VII secolo da Teodosio, arcivescovo di Canterbury: «Commette oltraggio colui che offre a Dio messe in favore di un malvagio». Oltraggio particolarmente adatto a Jean Genet.

Il codice di Giustiniano (534-565) è il primo codice non religioso a punire la bestemmia e ad assimilarla, come farà Dante nella Divina Commedia, al peccato contro natura. Infatti, il peccato contro natura e la bestemmia si ricongiungono nella “violenza contro Dio e contro il creato”. È sorprendente come Jean Genet, che conosceva la teologia alla perfezione, non abbia mai fatto esplicito riferimento al parallelismo tra “peccato contro natura” e bestemmia. Infatti, quando parla delle tre “virtù teologali” della Gestapo francese, cita il tradimento, il furto e l’omosessualità, ma avrebbe potuto aggiungere, per sé, la bestemmia (Journal du voleur). Giustiniano si limita ad applicare il Levitico (XX, 13; XVIII, 22 e XXIV, 11) che condanna alla lapidazione coloro che peccano contro natura e bestemmiano. Fino alla celebre condanna a morte del Cavalier de la Barre, i1 4 giugno 1766, le pene di morte contro i blasfemi si moltiplicano (labbra spaccate, lingue tagliate e lapidazione). Dopo la Rivoluzione, il Codice penale del 25 settembre 1791 sopprime ogni tipo di azione giudiziaria contro i blasfemi, ma la legge de1 22luglio 1791 punisce con pene correzionali chiunque «oltraggi gli oggetti di qualunque culto». Il che viene confermato dal codice del 1810 (art. 262): la bestemmia non è un delitto religioso, ma un attentato all’ordine pubblico. La legge del 10 aprile 1825 assimila la profanazione degli oggetti di culto al parricidio. Questa legge verrà abrogata nel 1830.

In Dante, dunque, i blasfemi si trovano sotto una pioggia di fuoco, nel terzo girone del settimo cerchio (Canti XIV, XV, XVI dell’Inferno), raggruppati in “violenti contro Dio, contro la natura e contro l’arte”. Per ordine di gravità crescente, Dante distingue i blasfemi contro il padre (Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, sfidò Giove), contro il figlio (il Vecchio di Creta) e contro lo Spirito Santo (Brunetto Latini). Seguono quindi i sodomiti.

L’universo di Genet è religioso. Può apparire stupefacente che per parlare della sua opera si debba far riferimento ai Padri della Chiesa, alla Bibbia e a Dante, ma tutta l’opera di Genet si pone sotto il segno dell’apparato della Chiesa. I titoli dei suoi primi libri sono una deviazione di un linguaggio e di riferimenti religiosi: Notre-Dame-des-Fleurs e Miracle de la Rose. Ora, l’atteggiamento di Genet è complesso: dobbiamo distinguere i momenti di bestemmia cosciente (per esempio, in Journal du voleur, dove cita certe imprecazioni dei delinquenti jugoslavi: «Bacio il culo della madre di Dio») dove mescola il Dio dei cattolici con un universo morale e sociale condannato dal cattolicesimo, e i momenti in cui si limita a servirsi del linguaggio religioso per accrescere l’emozione: la sua propria emozione – come abbiamo già visto nella scena di Montserrat – e l’emozione del lettore. Vale a dire che il linguaggio religioso ha una duplice funzione. Una funzione direttamente blasfema (con la quale Genet deride la Chiesa, i suoi rappresentanti, i suoi valori) e una funzione di sacralizzazione del senso poetico. La funzione direttamente blasfema è a sua volta ambigua: può ;vere lo scopo di accrescere il piacere, come in Sade, ma anche quello di aggravare la nefandezza dei personaggi. Insomma, tutta la retorica della santità in Genet si avvale di queste diverse possibilità del linguaggio religioso.

Fin dall’inizio di Notre-Dame-des-Fleurs, Jean Genet mostra la complessità del suo rapporto con la bestemmia: nell’evocare un aereo tedesco che sgancia una bomba vicino alla prigione dove scrive, Genet annota: «Folli di spavento, le celle eran tutte un tremito, un batter di denti, i carcerati picchiavano sulle porte, si rotolavano sul pavimento, sbraitavano, piangevano, bestemmiavano e pregavano Dio». Come è evidente, la bestemmia affiancata alla preghiera ha qui soltanto una funzione spettacolare. Preghiera e bestemmia si equivalgono. Per contro, quando Genet paragona un delinquente a Dio, l’intenzione è apertamente blasfema e provocatoria: «Passò l’Eterno sotto forma di magnaccia». Il paragone può anche agire in un altro senso: basta ricordare la sepoltura di Divine. In questo caso, il prete viene paragonato a un ladro, mentre i gesti rituali della Chiesa diventano i gesti rituali di un ladro: «Quel prete, sappiatelo, era giovane; sotto i paramenti funebri s’indovinava in lui un corpo vibrante d’appassionato atleta. Come dire, insomma, che era travestito. In chiesa, tutto l’uffizio dei morti essendosi limitato al “Fate questo in memoria di me”, avvicinatosi all’altare in punta di piedi, in silenzio, ;aveva scassinato la serratura del tabernacolo, aveva scostato il velo come chi a mezzanotte scosta le duplici tendine di un’alcova, aveva trattenuto il fiato, aveva afferrato il ciborio con le cautele d’uno svaligiatore sprovvisto di guanti, e infine, dopo averla spezzata, aveva inghiottito un’ostia piuttosto sospetta». Qualche pagina più avanti, questo stesso prete farà l’amore con un segantino. I paragoni osceni sono numerosi in Pompes funèbres, quando Genet descrive in parallelo le chiese e la sodomia. Per esempio: «Entrando nella chiesa: “nera come il buco del culo di un negro”. Diventava sempre più buio e io vi entravo con la stessa lenta solennità. Sul fondo scintillava l’iride tabacco dell’occhio di Gabès, e, al centro, aureolato, selvaggio, muto, maledettamente pallido, quello stronzo di un carrista, dio Molla mia notte, Erik Seiler» (Pompes funèbres). La bestemmia può anche consistere nella semplice perversione del linguaggio religioso, adattandolo, per così dire, all’universo in cui si muovono i personaggi di Genet. Tale principio verrà esercitato in modo sistematico nel teatro, nelle Bonnes e nel Balcon in particolare, ma Genet vi ricorre assai spesso nei suoi romanzi. Quando Mignon prega, recita «Madre nostra che sei nei cieli». Peraltro, l’amore viene costantemente identificato con l’illuminazione religiosa, con la rivelazione mistica. A proposito dell’amore tra Divine e Mignon, Genet scrive: «Dio – lo hanno detto i Gesuiti – sceglie mille modi per entrare nelle anime: la polvere d’oro, un cigno, un toro, una colomba, chissà ancora come. Per un gigolo che si fa i vespasiani, forse sceglie d’essere vespasiano». Il frutto viene costantemente paragonato a un rito religioso e viceversa: «Mi piacerebbe giocare a inventare i modi che ha l’amore per sorprendere la gente. Egli giunge come Gesù nei cuori pronti ad accendersi; giunge altrettanto subdolamente, come un ladro». La metafora del ladro viene ripresa in Un captif amoureux. I paragoni possono essere puntuali e Genet paragona volentieri la penetrazione sessuale con l’ingresso in una chiesa, o addirittura in Gerusalemme. Sui viali dove si prostituisce, Divine canta Veni Creator. Viene fermata dalla polizia e tradotta in commissariato. «Per tutta la strada, costei si strofina a loro, che arrazzano e la stringono più forte, traballando apposta per mischiare le loro cosce con le sue. I loro sessi giganteschi vivono, battono colpettini o fan pressione con disperata e singhiozzante spinta sulla porta dei pantaloni di spesso panno turchino. Intimano d’aprire, come il clero alla porta chiusa della chiesa la Domenica delle Palme». O ancora, le immagini sacrileghe si moltiplicano nella lunghissima sequenza nella chiesa: l’aspersorio è «umido, ha sempre una gocciolina, come il cazzo rizzato di Alberto al mattino dopo aver pisciato», «la Vergine ha un grembiule blu come il bavero dei marinai», «le due parti della tendina del tabernacolo male accostate formavano una fessura oscena come una brachetta sbottonata e lasciavano spuntare la piccola chiave dello sportello». Questa “perversione” del linguaggio religioso non è sempre radicale, perciò, entro tali limiti, sarebbe eccessivo parlare di bestemmia. In una stazione di polizia, un certo corpo del reato (un violino sventrato) diventa termine di paragone di un “sacro cuore grondante di sangue”. In una scena che – segnaliamo – è stata censurata dall’edizione di Gallimard, il corpo di Divine dopo l’amore viene accostato a una statuetta di avorio di un crocifisso del XVIII secolo. Il tubetto di vaselina viene identificato per inversione col sacro cuore: «Sapevo che per tutta la notte il mio tubetto di vaselina sarebbe rimasto esposto al ludibrio – l’inverso di un’Adorazione Perpetua – da parte di un gruppo di poliziotti belli, forti e saldi» (Journal du voleur). Genet era cosciente di quello che chiamava un «automatismo verbale». A proposito di Stilitano, scrive: «Mi rifiuto d’esser prigioniero d’un automatismo verbale, ma ancora una volta devo ricorrere a un’immagine religiosa: quel deretano [di Stilitano] era un Repositorio» (Journal du voleur).

Tuttavia il pervertimento a volte diventa un’inversione pura e semplice (lei valori, in modo particolare quando Genet parla di miracolo (fino al miracolo finale che dà il titolo a Miracle de la Rose: «Ma appena uno dei quattro ebbe pensato che non fossero nel cuore del cuore, in quel momento una porta si aprì da sola e ci trovammo di fronte a una rosa rossa, mostruosa per dimensioni e bellezza – La Rosa Mistica – mormorò il cappellano. I quattro uomini rimasero atterriti dallo splendore. I raggi della rosa erano abbaglianti, ma presto rientrarono, perché gente come quella non si lascia mai andare a segni di rispetto. Riavutisi dall’emozione, con le mani ebbre sui petali, sfogliandoli e sgualcendoli, così come un satiro esasperato dall’amore strappa le sottane. L’ebbrezza della profanazione si era impadronita di loro. Con le tempie pulsanti, il sudore sulla fronte, giunsero al cuore della rosa: era una sorta di cuore tenebroso». Al miracolo segue immediatamente la profanazione.

In Miracle de la Rose, Genet scrive: «Ogni oggetto del vostro mondo per me ha un senso diverso che per voi. Io riconduco tutto al mio sistema, dove le cose hanno un significato infernale». In Notre-Dame-des-Fleurs, il miracolo viene definito “immondo”. «I miei momenti di felicità non furono mai di radiosa felicità, la mia pace non fu mai ciò che i letterati e i teologi chiamano una “celeste pace”, il che è un bene, perché immenso sarebbe stato il mio orrore se mi fossi sentito designato dal dito di Dio, se mi fossi sentito prescelto da lui; sapevo benissimo che se, malato, fossi guarito grazie a un miracolo, non sarei sopravvissuto. Immondo è il miracolo: la pace che andavo cercando nelle latrine, quella che vado cercando nel loro ricordo, è una pace rassicurante e soave». La bestemmia più grave consisterebbe nell’identificare Dio con il male. Ma Genet si accontenta di porre il problema: «Della sacralità, che nhimè vien detta spiritualità, non si ride né si sorride: essa è triste. E se essa tocca a Dio, è dunque triste Dio? Dio è dunque un’idea dolorosa? Dio è dunque male?». Nella scena della chiesa s,opracitata, Genet conclude: «Non ci fu miracolo. Dio si era sgonfiato. Dio era vuoto. Soltanto un buco con qualcosa intorno». L’amore di Divine supera l’amore divino. Genet non può descrivere un assoluto dell’amore che in opposizione all’amore divino e così facendo commette bestemmia: «Divine fece dei suoi amori un dio al di sopra di Dio, di Gesù e della Santa Vergine, a cui erano sottomessi come tutti…». Secondo un procedimento corrente in Genet, questa divinizzazione dell’amore carnale viene punteggiata di liaragoni religiosi: Mimosa inghiotte la fotografia di Notre-Dame-des-Fleurs come l’ostia consacrata. In Miracle de la Rose, quando Genet fa l’amore con Villeroy, farà un gesto simile (brano censurato da Gallimard): «Intorno al collo portava una catenina di metallo alla quale era agganciata una medaglia d’argento del Sacro Cuore di Gesù. Facendo l’amore, mi avvicinavo al suo cazzo, allora la mia bocca si trascinava sul suo collo, sul suo petto, per scivolare lentamente fino al ventre. Quando giungevo all’altezza della sua gola, si voltava un pò e lasciava cadere nella mia bocca aperta quella medaglia che pendeva dalla catenina. Chiudevo la bocca, trattenevo la medaglia per qualche istante, poi la ritraeva e io gli succhiavo il membro». L’identificazione tra fellatio ed eucarestia è esplicita. In Querelle de Brest, Dédé di fronte a Mario: «Prese allora la postura di una giovane santa visitata, caduta in ginocchio ai piedi di una quercia, schiacciata dalla rivelazione, dallo splendore della grazia, con la testa arrovesciata all’indietro per allontanare una visitazione accecante, che gli brucia le ciglia e le pupille». Di pari divinità i personaggi di Miracle de la Rose: «Bulkaen è il dito di Dio, mentre Harcamone è Dio, dato ch’egli è in cielo (parlo del cielo che mi son creato io e al quale mi consacro anima e corpo). Il loro amore, il mio amore per loro persiste in me dove agisce e agita i fondali del mio animo, ed esso è mistico, quello che nutrii per Harcamone non è il meno violento». O ancora, a proposito di Harcamone: «Se lui fosse l’arcangelo infuocato, l’arcangelo Harcamone, se la sua avventura si svolgesse nei Cieli, cioè nella più alta regione di me stesso, non si prenda a pretesto questa frase per pensare che Harcamone non sia mai esistito». Del resto, riferendosi al libro di Henoch (apocrifo), Genet precisa che avrebbe voluto intitolare il romanzo Les enfants des anges, i figli degli angeli. Curiosamente, la bestemmia di derisione, così frequente nei lavori teatrali, è piuttosto rara nei romanzi. Se c’è una scena buffa, questa avrà una funzione poetica. Così, sempre in Notre-Dames-des-Fleurs, quando Divine-Culafroy scappa, un cane lo insegue e lui si mette a pregare: «Siccome le suore, come le gazze, fanno il nido sui pini a ombrello, Signore, concedimi la remissione dei peccati». Possiamo ancora citare quella scena di Miracle de la Rose, quando i ragazzi si masturbano in chiesa, nel corso della visita del vescovo alla colonia correzionale: «Di notte, nel fosso, con le mani tutte sporche di fango si tiravano una sega. Così facevano tra i banchi, di tasca in tasca, gli agnellini di Dio».

Una delle forme di bestemmia sta nel divinizzare se stessi. Analizzeremo la retorica della santità in Journal du voleur, ma già in Notre-Dame-des-Fleurs Genet scrive: «Il mondo è rovesciato come un guanto. Si dà il caso che sia io il guanto e che io comprenda che è con la mia propria voce che il giorno del giudizio Dio mi chiamerà: “Jean, Jean!”».

Così in Miracle de la Rose, Genet scrive a proposito della santità di Harcamone: «Ringrazio quel Dio che noi serviamo e che ci ricompensa con le attenzioni da Dio riservate ai suoi santi. È quindi la santità che io rno a cercare nel corso di quest’avventura. Devo pure andare in cerca d’un Dio ch’è il mio, dal momento che, guardando certe immagini del bagno penale, subito mi sentii il cuore velato di nostalgia per un paese da me conosciuto altrove che nella Guyana, altrove che sulle carte e sui libri, ma scoperto in me».

Un’altra forma di radicalizzazione della bestemmia consiste nell’utilizzare il cerimoniale come prova dell’esistenza di Dio: «Notre-Dame fece un sorriso da dannare i giudici. Un sorriso così azzurrino che persino le guardie ebbero l’intuizione dell’esistenza di Dio e dei principi fondamentali della geometria» (Notre-Dame-des-Fleurs). E, più in generale, nell’usare la crudeltà come fondamento della bellezza: «I romanzi non sono resoconti umanitari. Al contrario ci dobbiamo compiacere che resti ancora abbastanza crudeltà senza la quale non ci sarebbe bellezza» (Miracle de la Rose). L’Immacolata Concezione, San Dionigi, Santa Caterina da Siena, Santa Veronica, Giovanna d’Arco sono i ripetuti riferimenti e modelli dei personaggi e del narratore. Lo stesso Genet spiega che i nomi religiosi delle “zie” (Notre-Dame-des-Fleurs, Première Communion, Divine, ecc.) sono dovuti a una parentela, a un odore d’incenso e di cera fusa». «Qualche volta ho l’impressione di averli raccolti tra i fiori artificiali o naturali nella cappella della Vergine Maria, in maggio, sotto e intorno a quella statua di gesso ingordo di cui Alberto fu innamorato e dove, sul retro, da bambino, nascondevo la boccetta contenente la mia sborra». Allo stesso modo, in Miracle de la Rose, Genet riconoscerà: «Io impiego il linguaggio dei mistici di tutte le religioni per parlare dei loro dèi e dei loro misteri. Essi arrivano, come si suol dire, nel sole e con la folgore. È così che appariva al mio sguardo interiore – la visione era guidata dal mio sommo amore per Bulkaen-il condannato a morte». Se riprendiamo la definizione di bestemmia di Teodosio (offrire messe in favore di un malvagio), di certo Miracle de la Rose contiene numerose bestemmie di questo tipo secondo il principio della santificazione del crimine: «Da essere infine così vicini a Dio, purificati dai delitti commessi» oppure: «Non so molto sull’essenza del male, ma dovevamo certo essere angeli per mantenerci al di sopra nei nostri delitti». Divinizzare il crimine o demonizzare il reale: «Ci scambiavamo delle cieche, tenevamo rapidi conciliaboli in vista di un’evasione, e il tutto veniva compiuto con tono grave. Questo gioco segreto si svolgeva nel corso della mia esistenza durante una qualsiasi occupazione ufficiale, durante i lavori nel laboratorio, al refettorio, alla messa, durante la vita tranquilla e confessabile, come il rovescio di una fodera satanica» (Miracle de la Rose). Il procedimento può anche trovarsi invertito: rendere divino Satana, fare del diavolo Dio: «Aspetto che mi piombi sulla zucca il cielo. La santità consiste nel rendere utile il dolore. Nel constringere il diavolo a essere Dio. Nell’ottenere il riconoscimento del male» (Journal du voleur).

In Genet vi sono certe bestemmie raddoppiate. Il criminale viene identificato con Cristo (prima bestemmia), ma nel momento in cui, nel Cristo, si bestemmia lo Spirito Santo, cioè durante la Passione (seconda bestemmia). Quando evoca il compagno di prigione Métayen, Genet lo paragona a Luigi XVI, a Santo Stefano e infine a Cristo alla colonna. «Trenta ragazzi accaniti su di lui più che le tricoteuses sul suo

presunto antenato, lo circondavano tra le urla. In uno di quei buchi di silenzio quali si formano spesso durante gli uragani, lo sentimmo mormorare: – “Fecero lo stesso a Cristo”. Non pianse, ma su quel trono assunse una tale improvvisa maestà da udire forse Dio in persona che diceva: “Tu sarai re, ma la corona che ti cingerà il capo sarà di ferro rovente» (Miracle de la Rose).

La bestemmia per eccellenza, dunque, sta nel mostrare la propria santità e nell’unire il male alla santità. Non è stato sottolineato abbastanza che Un captif amoureux era tra l’altro un racconto di viaggio in Terra Santa. Genet identifica spesso Hamza con Cristo. Ma Hamza è il primo uomo ad amare Genet senza essere un criminale. Per contro, in Journal du voleur, Genet identifica se stesso con Cristo. Si tratta di notazioni fugaci. Per esempio, l’arrivo ad Alicante: «Le palme! Un sole mattutino le dorava. Fremeva la luce, non le palme. Vedevo le prime. Orlavano il mar Mediterraneo. La brina sui vetri, d’inverno, aveva maggiore varietà, ma al pari di essa le palme mi precipitavano – meglio di essa, forse – nell’intimo d’un’immagine natalizia nata paradossalmente dal versetto sulla festa precedente la morte di Dio, sull’ingresso a Gerusalemme, sui rami di palma gettati contro i piedi di Gesù. La mia infanzia aveva sognato palmizi. Eccomi vicino ad essi. M’avevano detto che a Betlemme la neve non cade. Dischiuso, il nome d’Alicante mi rivelava l’Oriente. Ero nel cuore della mia infanzia, del suo istante più gelosamente conservato. Dietro un angolo stavo per scoprire, sotto tre palme, quel presepio dove, da bambino, andavo ad assistere alla mia natività tra il bue e l’asino. Ero nel mondo il povero più umile, camminavo misero fra la polvere e la stanchezza, meritevole infine della palma, maturo per la deportazione, per i cappelli di paglia e i palmizi» (Journal du voleur). Tale identificazione si riproduce anche perassimilazione della divinità. Genet descrive un momento di solitudine in cui canta nella sua cella e dice: «Fu in me che collocai tale divinità – origine e disposizione di me stesso. La inghiottii. Le dedicavo canti che andavo inventando. La notte fischiettavo. La melodia era religiosa. Era lenta. Il ritmo un poco greve. Con esso credevo di mettermi in comunicazione con Dio: il che avveniva, Dio non essendo altro che la speranza e il fervore contenuti nel mio canto» (Journal du voleur). I1 fine che Jean Genet si prefigge è la santità: «Voglio che in ogni istante mi guidi un fermo proposito di santità sino al giorno in cui sarà tanta la mia luce che la gente dirà: “E un santo”, o, più probabilmente: “Era un santo” (…). Partendo dai principi elementari delle varie morali e religioni, il santo raggiunge il suo scopo soltanto se si sbarazza di essi. Come la bellezza – e la poesia – con la quale la confondo, la santità è del tutto personale. Originale ne è la manifestazione. Tuttavia, mi sembra, ha come base unica la rinunzia. La confonderò quindi anche con la libertà. Ma soprattutto voglio esser santo perché questa parola indica la più alta attitudine umana, e farò di tutto per riuscirci. Userò a tal fine il mio orgoglio, e a tal fine lo sacrificherò» (Journal du voleur). Questa santità non cristiana ma fondata per intero sul cristianesimo è una contraddizione in termini: Genet che non teme di contraddirsi in Miracle de la Rose, dove la santità non è libertà ma fatalità, ne è cosciente: «Le vie della santità sono anguste, vale a dire che è impossibile evitarle e, per sventura, una volta intraprese, è impossibile tornare indietro. Si è santi per forza di cose, che è la forza di Dio». «Rischio di perdermi confondendo la santità con la solitudine. Ma con questa frase, non rischio forse di ridare alla santità quel senso cristiano che voglio staccare da essa?» (Journal du voleur). A cosa mira questa ricerca della santità? Alla perdita d’identità. Non essere più in sé, essere solo un simulacro, un’immagine. «Ricerca della trasparenza» dice Genet, confondendo volutamente i due significati del termine “trasparenza”: invisibilità e purezza. Essere trasparenti vuol dire non avere consistenza, materia e, ad un tempo, essere limpidi, liuri, santi. «Cessando di essere “io”, cessando di essere “voi”, il sussistente sorriso è un sorriso eguale posato sulle cose». E questo sorriso non è forse una estrema bestemmia? Infatti è il sorriso degli dèi.

Note

1Sade, La Philosophie dans le boudoir, Gallimard, coll. Folio, Parigi 1976.

[Intervento al convegno internazionale al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia, 27-29 aprile 1989, pubblicato negli Atti a cura di Simona Carlucci: Jean Genet, chiavi di lettura, A.N.C.T., Roma 1990]

ISSN:2037-0857