philosophy and social criticism

La paura dei mostri

"Guercino, Et in Arcadia Ego"

di Francesco Paolella

Nota su: Giuseppe Scaraffia, Infanzia, Sellerio, Palermo 2013

Abbandonare l’infanzia, per diventare finalmente adulti, significa rinascere: educarsi, lasciarsi educare, subire l’imposizione di una “maschera sociale”, e soffrire di quella imposizione. Significa uscire dalla temporalità circolare, dall’eterno presente infantile, in cui ogni cosa è contemporaneamente nuova e sempre ripetibile. Significa iniziare a conoscere il dolore, la vergogna, la morte; iniziando a pensare al futuro.

I bambini appartengono ancora più al passato che al futuro. Non progettano, non hanno bisogno di memoria. Vivono però una nostalgia fortissima per ciò che vivono, scoprono, temono, tutte esperienze che rimpiangeranno, invano, per tutta la vita.

Ma non dobbiamo rifugiarci in immagini stereotipate, in mitologie dolciastre, accomodanti, dell’infanzia. Non serve a nulla rimpiangere quei pochi anni nei quali ci hanno costruito addosso un nome, una educazione, una “vocazione” persino.

Crescere significa anzitutto accecarsi, dimenticarsi delle fascinazione e dei terrori dell’infanzia, di una identità totale con il mondo esterno, le case, gli animali.

«Il rapporto del bambino con gli animali è regolato da una assoluta reciprocità. Nessun distacco gerarchico si è ancora stabilito tra di loro e le differenze esistenti vengono percepite come diversità di carattere e d’abitudini. Per lunghi anni le bestie appaiono come un termine di confronto paritario e sovente privilegiato. “Vorrei soltanto essere un capriolo o un cinghiale, non un lupo però, per poter vivere tranquillo nel bosco”, scrive Restif de la Bretonne. La stessa aspirazione si ripresenta in George Sand: “Vorrei essere un bue o un asino; mi lascerebbero camminare come mi pare e brucare quanto mi sembra”» (pp. 147-148).

L’educazione è appunto quel processo di “umanizzazione” che passa attraverso i giochi e i giocattoli, le favole, le feste, le regole e poi, ovviamente, la scuola. Non che – sarebbe semplicistico sostenerlo – il bambino perda la propria “innocenza”, una bontà innata. E’ un processo di identificazione che non avviene però serenamente, né naturalmente. E’ fatto anche di traumi, di violenze e di resistenze. I bambini lottano per restare nella loro amoralità, nella loro “sporcizia”, nel loro caos. Ma il tempo passa e arriva il momento in cui i bambini si ritrovano a “fare i bambini”, a fingere di essere ancora ciò che non sono più:

«Kleist racconta di un adolescente che “aveva perduto, quasi sotto i miei occhi, con un semplice commento, la sua innocenza e, nonostante tutti gli sforzi immaginabili, non ne aveva mai più ritrovato il paradiso”, ma la grazia spontanea viene già metodicamente insidiata durante l’infanzia. L’invito a non fare il bambino capovolge infatti la situazione reale, in cui la fedeltà all’infanzia è ben più immediata che la recitazione di un comportamento più adulto. L’invito del genitore intacca la solidità dell’identità infantile, tramutandola in una recitazione» (pp. 176-177).

Non sono soltanto i bambini ad avere paura di tutto (dei rumori, del buio, del lupo, dei fantasmi ecc.), ma essi stessi possono fare molta paura, possono diventare essi stessi dei mostri, o dei fantasmi.

Fuori da ogni retorica, ogni adulto può scoprire in un bambino un grande potenziale di malvagità, di crudeltà; come può, più banalmente, trovare nei bambini, nel loro essere talvolta insopportabili, noiosi, rumorosi, una vera e propria minaccia:

«L’infanzia – scrive Baudelaire di Delacroix – si presentava alla sua mente solo con le mani impiastricciate di marmellata (che sporca la tela e la carta), o intenta a battere il tamburo (turbando la meditazione), o incendiaria o bestialmente pericolosa come la scimmia”. Indicativamente le malefatte infantili minacciano immediatamente il lavoro dell’adulto; nei piccoli misfatti i grandi colgono, come l’acutezza del profeta negativo Erode, la minaccia di ben altre distruzioni» (p. 65).

Così, nei ritratti, specialmente antichi, di bambini, finisce sempre per emergere un nano travestito, un mostro incomprensibile e temibile.

Ognuno di noi non riconosce più il proprio essere stato bambino, se non per brandelli di ricordi.

«L’infanzia riferita è irriconoscibile e umiliante, il bambino evocato è una sorta di nano travestito, le cui note più toccanti si riducono tutte ad un’unica, fondamentale stupidità. Ma il motivo della sua espulsione dalla memoria è quello opposto: un’improvvisa, estranea chiaroveggenza ha esiliato, per qualche istante, il bimbo dal cerchio incantato del suo tempo, proiettandolo nell’ottusa meraviglia o nello sconfinato dolore del grande» (p. 190).

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tysm literary review, Vol 3, No. 6 – may 2013

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