philosophy and social criticism

L’erba della regina. Popolari virtù dell’atropa belladonna

di Marco Dotti

«Con la regina si può parlare soltanto di medicine e ammalati», si lamentava Benito Mussolini e, almeno su questo punto, nessuno potrà negargli ragione. Jelena Petrović Njegoš, ventitreenne, aveva sposato Vittorio Emanuele il 24 ottobre 1896, ma la sua passione per l’arte della guarigione e della medicina popolare risaliva lontano, molto lontano nel tempo.

Risaliva al tempo della giovinezza, trascorsa a Cettigne, città della passata rapidamente da villaggio con poche case a capitale del Regno di Montenegro, incastonata tra le rocce e una vallata ricca di vegetazione. Ma risaliva anche a un altro tempo, stratificato e lontano, fatto di leggende e rimedi popolari e di conflitti, sedimentati in un immaginario codificato su un’epica crudele, macchiata di sangue e fatica, ricordo delle scorribande turche, ma anche della pietà popolare e delle «erbe magiche» dei guaritori.

Il karik, per esempio, che i pastori usavano come digestivo, ma anche strane pratiche confinanti con la stregoneria o l’atropa belladonna usata per sconfiggere tremori e altri disturbi, sulla quale la futura regina affermava di avere acquisito «una profonda competenza», avendolo visto applicare fin dalla giovinezza.

Proprio di questa competenza la futura regina farà tesoro, in un altro paese e di fronte a una nuova malattia. Conosciuta da sempre, l’Atropa belladonna o solano sonnifero è una pianta appartenente alle solanacee, come il pomodoro o la patata.  Secondo la tradizione, il suo nome deriverebbe dall’abitudine delle donne veneziane di cospargersi il viso con un suo infuso, ma c’è che la associa al francese medievale belle-femme, che indicava le streghe propense a servirsene per scopi rituali o per il loro volo al sabba.

Secondo l’alchimista Giovanni Battista Della Porta, che nella sua Magia naturalis abbozza una spiegazione naturalistica del fenomeno, il viaggio aereo delle streghe sarebbe dovuto all’effetto allucinatorio delle sostanze naturali di questo unguento. In Bulgaria, la chiamano ludo bilé, l’erba pazza. Ed era proprio lì, nelle campagne bulgare, che grazie al decotto di belladonna si raccontava che un erborista – tal Ivan Raev – avesse scoperto una cura efficace per i postumi di quell’encefalite letargica che,  nei primi decenni del Novecento, aveva prodotto una vera e propria emergenza sociale e sanitaria, lasciando postumi nei decenni a venire. Certe voci, si sa, corrono rapide. E le voci rapidamente si diffusero in tutta Europa, giungendo alle orecchie di Elena.

Una vicenda intricata, certo, ma alla quale Paolo Mazzarello ha dedicato un libro scritto con stile e precisione (L’erba della regina. Storia di un decotto misterioso, Bollati-Boringhieri, Torino 2013) che attraversa non solo il campo della storia della medicina, ma quello della storia culturale e della storia tout court seguendo al tempo stesso le vicende dell’erba della pazzia, della sua più singolare madrina, la Regina Elena di Savoia, e di una malattia, l’encefalite letargica, che al termine della Prima guerra mondiale aveva assunto una diffusione epidemica. I sintomi dell’encefalite erano chiari e andavano dalla sonnolenza alle cefalee fino al coma. Che cosa fare? Un rimedio parve l’atropina, alcaloide estratto anche dalla Belladonna. L’impiego di atropina, nota per le sue azioni neurotrope, era usato da anni da un certo Ivan Raev, guaritore bulgaro privo di titoli accademici, ma era stato nuovamente promosso negli anni Venti dall’influente Clinica di Bucarest diretta dall’autorevolissimo dottor Gheorghe Marinescu. Altri istituti e altri casi seguirono, tra cui quello celebre di Friedrich Bremer sulle rispondenze agli alcaloidi della belladonna e all’atropina da parte dei pazienti colpiti da parkinsonismo postencefalico.

La somministrazione di dosi sempre più massicce di atropina sembrava oramai l’avanguardia nella cura, ma in Italia nessuno era mai riuscito a avventurarsi tanto. Ci pensò la regina, che in poco tempo trasformò il Quirinale in un vero e proprio centro di smistamento di «radici magiche» provenienti dall’Ungheria, promosse l’apertura del primo reparto per postencefalitici e ottenne che, con Decreto Legge n. 2043 dell’ottobre 1936, il cosiddetto «decotto della regina» nel frattempo avallato dalle principali autorità cliniche e mediche fosse reso obbligatorio «per l’assistenza e la cura degli affetti da forme di parkinsonismo encefalitico».

Sembrava il trionfo di una cura nata dall’osservazione un po’ praticona di un raccoglitore di erbe bulgaro, Ivan Raev, sprovvisto di qualsiasi titolo accademico. Passato dal rango di ciarlatano a quello di taumaturgo eroe anche grazie all’opera della Regina Elena, Raev mantenne sempre il segreto sulle componenti misteriose e “miracolose” del suo decotto. Finché la chimica superò ogni barriera e ci si dimentico di tutto, anche di lui.

 

[da Alias, 14 aprile 2013]

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tysm literary review, Vol 2, No. 4 – april 2013

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