philosophy and social criticism

Il male oscuro di Giuseppe Berto

Francesco Paolella

È piuttosto difficile interrompere la lettura de Il male oscuro (1964), di Giuseppe Berto, appena ripubblicato da Neri Pozza. E’ difficile perché la scrittura congegnata da Berto per questo libro non prevede o quasi l’uso della punteggiatura – e il flusso delle memorie del protagonista corre per pagine e pagine senza fermarsi; ma è difficile soprattutto perché sembra – e questo fin da subito – di trovarsi davanti a un unico, lunghissimo e lucidissimo pensiero: un pensiero che raccoglie in sé tutta una tribolata esistenza, con le sue ragioni, le sue assurdità, le sue colpe, la sua ineliminabile disperazione. Sembra quasi – per fare un paragone semplicistico – di leggere quello che, a detta di alcuni, accade quando si sta per morire, e se ne è consapevoli: tutta la vita che passa davanti agli occhi, ricomposta in una sintesi affannosa, accelerata, e dolorosa.
Queste confessioni di un nevrotico, con la ricostruzione del perché e del percome di una caduta nella nevrosi, sono appunto una rincorsa (peraltro mai noiosa) verso una disfatta che non si sa, fino alla fine, se avrà però una “guarigione” accettabile.

Giuseppe Berto è riuscito a mostrarci il potere della Paura: paura di tutto (di ammalarsi, di morire, di rimanere soli, di fallire…) e, in particolare – particolare essenziale per il protagonista che è uno scrittore – di non riuscire a finire il libro, il proprio capolavoro (il “romanzo-gloria”) che gli avrebbe permesso di vincere finalmente i dubbi, lo sconforto, la perplessità e la derisione sul proprio talento.

Siamo di fronte ad un crollo, alla perdita di fiducia verso di sé e, soprattutto, verso il mondo. Non c’è più confidenza negli uomini e nelle cose: ogni problema, anche banale, diventa la fonte di altri problemi, in una spirale di ragionamenti, accuse e recriminazioni. Tutto ciò consegna una vita alla paralisi e al silenzio. Lo scrittore protagonista de Il male oscuro rinuncia via via a vivere: un non-vivo che combatte continuamente con un non-morto, ossia con il fantasma del padre, morto già da tempo di cancro. Il padre, a cui lo scrittore volente o nolente è costretto a identificarsi sempre più, è l’antieroe in questa storia dove non ci sono eroi. Non troviamo nessuna figura positiva: il nostro scrittore non riesce a soffrire senza far soffrire gli altri; la sua malattia lo isola perché non gli consente di provare compassione per alcuno. Piange, si dispera – e lo fa anche spesso – ma solo per se stesso. Neppure per la moglie (la moglie-salvavita, l’unica che riesce a calmarlo durante le crisi di angoscia) e per la figlia riesce a conservare un affetto più forte della malattia.

L’unica, vera pietà, è per se stesso, per la propria desolazione.

In tutto il libro domina un desiderio di morte e di assenza (“sarebbe meglio non essere nati”) e, allo stesso tempo, un desiderio fortissimo di consolazione. Il cammino a ritroso nell’infanzia – travolta dai sensi di colpa – è una discesa in un inferno fatto di “sacrifici” (fatti dai genitori per il figlio) e di ambizioni (dei genitori per il figlio e del figlio contro i genitori). Quanti danni ha fatto e fa tuttora in generazioni di bambini la combinazione dei sacrifici e delle ambizioni? Sono danni che, ovviamente, non possono essere eliminati, ma soltanto tenuti a distanza il più possibile, quando è possibile. Ciò che ne deriva è un compromesso rapporto con il mondo (cattivo, volgare, ingiusto) e la necessità di fuggire da quei fantasmi, senza riuscirci. Il semplice ricordo del padre – che assume nel libro la figura di un dio vendicativo e crudele, ma sempre stupido – ha il potere di annullare ogni difesa, ogni diversivo, ogni successo del figlio adulto.
Dicevamo della paura e dell’angoscia, di cui Berto ci ha lasciato una illustrazione quasi enciclopedica e che riguardano tutta la vita: le malattie, i soldi, il sesso, la creatività… Ogni ostacolo spinge il nostro scrittore a vedersi come un fallito (anzi: come un fallito che è soprattutto un orfano), a essere vinto dalle “fantasie morbose”, a essere preda di un “male metafisico”. Cosa gli resta, in fin dei conti?
La psicoanalisi funziona con lui, senza dubbio: ma ciò che gli resta non è poi molto. Il suo “compromesso” con il mondo è fatto di abbandoni: lasciar perdere i sogni di gloria, gli affetti, gli uomini; e rintanarsi, escludersi, sospendersi in una solitudine che ha il nulla davanti a sé e dietro di sé.

Berto non ci risparmia niente, a partire dal corpo dello scrittore nevrotico, con tutte le sue funzioni e malfunzioni.

I medici (compreso, per certi versi, anche lo psicoanalista che lo cura) non sono figure gradevoli: certe pagine ricordano facilmente un episodio famoso di un film di Moretti, dedicato appunto al rapporto fra un malato (anzi: fra un uomo che sta male) e i medici, più o meno sadici e più o meno costosi.
Cosa ci può essere di peggio che vivere in quel “regno del terrore e del pianto”?

La vera alternativa, quella più temuta, non è il suicidio, peraltro spesso evocato. In sottofondo c’è sempre l‘inferno-in-terra del manicomio: è quella del manicomio la paura più grande, l’ultima risorsa, quella estrema, che sancirebbe la perdita definitiva della ragione, la disgregazione completa dell’io. Ed è, di conseguenza, la paura di dover essere consegnato in un luogo di puro dolore, con le sue cure incerte, ma comunque violente ed umilianti. Per fortuna questa storia ha preso un’altra strada, ma, lo ripetiamo, il peccato originale (il senso di colpa accompagnato dal rifiuto, dall’odio e dal disprezzo per chi ci ha messo al mondo senza lasciarci vivere) non è emendabile.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 32, issue no. 34, november 2016
issn: 2037-0857
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