philosophy and social criticism

Maledetto lavoro

di Francesco Paolella

Nota su La fabbrica del panico di Stefano Valenti, Feltrinelli, Milano 2013.

Durante questo viaggio nel “sistema concentrazionario della fabbrica” (in questo caso la Breda di Sesto San Giovanni), mi è tornato in mente un libro di Simone Weil, le Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, un lavoro del 1934. Riprendendolo, già nelle prime pagine trovo queste parole:

“Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da una favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto”.

Pur senza volersi rifugiare in una metafisica del lavoro, è evidente che l’orizzonte che si pone davanti a chi lavora, a chi fatica, è spesso tutto buio: oppressione, ricatti, dolore, vergogna accompagnano la condizione – più o meno servile – dell’uomo salariato. Solitudine, ansia, umiliazione: questa è l’eredità, ormai quasi invisibile, del lavoro operaio.

La fabbrica, come la Breda di Sesto, è stata per decenni un inferno desiderato. Il bisogno di lavorare, dei soldi, e ancora di più la paura di perdere il posto (e il proprio posto nel mondo), il ricatto continuo e manifesto dei dirigenti, tutto ha reso possibile l’impossibile di una vita intera in una fabbrica.

La fabbrica ha garantito un futuro agli operai e ai loro figli. Ma un futuro spesso da incubo. La fabbrica permette una vita (e a quali condizioni), e a volte fa morire.

In questa storia, pura angoscia, scritta da Stefano Valenti, il vero protagonista non è il padre-operaio morto di cancro da fabbrica, non è il panico che pure accompagna ogni passo del figlio (un traduttore precario), che si impegna a scrivere di quella morte e delle tante altre “morti bianche” alla Breda. E’ l’amianto a imporsi, a vincere. E’ la polvere soffocante, che non si posa mai. Queste pagine si leggono in apnea, e tossendo.

La Breda è un luogo rumoroso, puzzolente, nauseante, e doloroso. Dove si è soli, per giorni interi non si parla con anima viva. L’operaio diventa allora il candidato naturale non solo al cancro, ma all’insonnia, alle ulcere, e alla depressione.

Una depressione assoluta:

“La depressione dell’operaio, dice Cesare, è la naturale conseguenza del vuoto in cui è costretta la mente quando il corpo è in fabbrica. E’ la naturale conseguenza dell’esaurimento, dell’incapacità di organizzare una risposta individuale” (p. 59).

Gli operai raccontati in questo volume sono affaticati, immobili, sfiniti. Fuggono nell’alcool, negli psicofarmaci, addirittura nell’autolesionismo. Le “lotte operaie” rimangono soltanto in qualche foto in bianco e nero. Anche il processo celebrato per le “morti industriali”, che finisce per assolvere dirigenti e proprietà, non è che la fine di una sconfitta generale.

Dover scegliere fra lavoro e salute, la sopravvivenza immediata e un’altra più in là nel tempo, sarebbe stato già un successo. Invece il ricatto sistematico praticato in fabbrica, con tanto di regolamento, multe, autodenunce, minacce, ha impedito di dire un no. Ha lasciato nei superstiti solo costernazione, vergogna costante, un odio (“di classe”) generale, contro tutto e contro tutti.

Il libro di Valenti è un memoriale dal carcere, dal Lager.

Il “dolore fisico e morale” della fabbrica, decenni vissuti nella paura perenne di tutto (anche di avere paura, l’isolamento, la vergogna per ciò che si fa e per come ci si riduce, per dover vivere una condanna a vita senza avere una colpa. Anche la memoria della fabbrica è una condanna – dalla fabbrica non si esce mai. La fabbrica condanna a tante catene, e agli incubi e all’incomunicabilità.

“Le macchine non possono essere fermate. Il contratto è chiaro a questo proposito: in caso di assenza del sostituto, l’operaio è tenuto a fare anche quattro ore di straordinari. Se il cambio avesse ritardato, se un inconveniente qualunque avesse impedito al compagno di arrivare in tempo, la morte, ne era certo, lo avrebbe raccolto lì, su quella macchina. L’approssimarsi del cambio era la salvezza o la disperazione. Quando la sirena suonava e il sostituto arrivava, il dolore cessava d’improvviso” (p. 44).

Tutti questi, e altri mille possibili indizi, rimandano continuamente alla non-vita del sistema concentrazionario dei campi. Le testimonianze delle vittime dell’amianto (condanna nella condanna) o dei loro superstiti, sono come le voci dei deportati.

La vera condanna inflitta a questi operai è quella di tutti, è il lavoro. Una punizione che non è eliminabile, e che continua anzi a essere desiderabile e ambita.

La maledizione del lavoro non può essere eliminata da alcuno. Sarebbe ricadere in una illusione (una volta era una illusione marxista).

Brutta cosa pensare che, nonostante tutto, anche la Breda era meglio di niente, era necessaria, era da difendere, anche dal sindacato.

Così come l’ansia segnava la vita dei vecchi operai, si può vedere negli attacchi di panico descritti dal figlio una nuova, paradossale, malattia professionale, propria di un nuovo tipo di lavoratore, precario, saltuario, ormai inconsistente.

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tysm literary review, Vol 5, No. 7,  August 2013

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