philosophy and social criticism

Le mani sulla scuola

"Scuola"

di Mario Cassa

Quando nella società italiana il dominio delle concentrazioni economiche sulla politica e sulla cultura nazionale era ben lontano dall’aver raggiunto le proporzioni che ha raggiunto in questi anni, preminente punto di onore e motivo di ambizione civile era quello di sottrarre, per quanto possibile, la Scuola, l’educazione giovanile, la cultura in genere alle ipoteche degli interessi egemoni, di parte, ai possibili ricatti di poteri e di istituti eterogenei alla destinazione educatrice e culturale.

Quando i mestieri cui i giovani dovevano indirizzarsi erano meno settoriali, tecnologicamente idiotizzati, punto d’onore della società civile, dello Stato, era quello di assicurare un lungo periodo di iniziazione e di esplorazione della più ampia cultura umanistica, in tutto neutrale nei confronti del successivo operare professionale, tecnologico.

Lo Stato italiano, nella sua storia di un secolo, seppe così sostenere il carico di scuole e istituti culturalmente e pedagogicamente tra i più civili e umanistici del mondo.

Negli anni nostri il potere di ricatto degli organismi economici in tutta l’area civile e sociale, ha raggiunto proporzioni incomparabili, e al potere degli organismi economici s’è aggiunta, di recente, la loro vocazione, strumentale, ad assolvere funzioni di pesante condizionamento delle funzioni scolastiche, educative, culturali.

Ed ecco che proprio oggi la nostra classe politica si presta disinvolta alla svendita disonorante di uno dei contrassegni qualificanti del patrimonio pubblico, culturale ed educativo.

Vediamo cosa dice il progetto di legge proposto dal ministro Galloni, in merito alle nuove forme di autonomia organizzativa degli istituti scolastici.

Dice a un punto il testo del Progetto: «La Giunta esecutiva, sulla base della programmazione educativa stabilita (… dal collegio dei docenti e (…) dal Consiglio di Circolo o Istituto delibera sulle convenzioni necessarie per regolare i rapporti con (…) imprese pubbliche e private, allo scopo di acquisire specifiche competenze culturali, scientifiche, tecnologiche e professionali».

E più sotto: «Il collegio dei docenti può (…) adeguare i piani di studio al fine di favorire la concreta realizzazione delle convenzioni di cui all’ precedente articolo».

Detto in breve e in concreto, ciò significa che piccole e grandi imprese industriali e commerciali, le lobbies locali, piccole o grandi, nel paese o nella città, potranno esercitare un peso decisivo, un ricatto duro e permanente; potranno, insomma, mettere le mani su tutti gli istituti scolastici; potranno determinare l’orientamento moderno degli studi e dell’educazione giovanile; potranno manifestare con pieno e legittimo successo quella loro recente vocazione culturale e pedagogica; che si risolve, tra l’altro. nello sterilizzare progressivamente i margini di cultura umanistica a vantaggio della introduzione precocissima di tutti gli idiotismi tecnologici.

Le piccole e grandi lobbies locali: ossia quelle che al Sud si chiamano mafia, camorra e affini, e al Nord, dotate di più consolidata potenza, prendono nomi strettamente tecnici. Per non dire, ovviamente – ma questo di gran lunga il male minore ormai – del peso crescente che al seguito queste imprese, di queste lobbies più o meno mafiose, potrà esercitare l’esercito benpensante del cattolicesimo più retrivo e delle diverse «maggio silenziose».

È questo della scuola e dell’educazione, un punto strategico per osservare e capire cosa significa in definitiva la assillante campagna della stampa d’ogni indirizzo, l’ossessivo incalzare di pareri spesi dai tecnici, economisti, sulla necessità di ridurre le spese dello Stato. Non significa solo – e non è poco – che con ciò i padroni, le imprese, i ricchi in generale si rifiutano di pagare le tasse, ma significa soprattutto che, parallelamente, con ciò mettono lo Stato nella necessità di svendere interi patrimoni di civiltà democratica: la Scuola appunto, e poi le Ferrovie, la Sanità, l’Assistenza, le Poste, e via dicendo sulla strada della libertà e della modernità.

Erano anni, gli ultimi del fascismo, nei quali la carità, le opere buone, l’assistenza volontaria, l’elemosina urgente, il tutto quasi sempre sotto nome di istituzioni cattoliche, erano l’unico imbarazzante sollievo che a noi giovani di medio ceto si offrisse a lenire la pena del sentirsi prigionieri d’un privilegio, nei confronti della povertà, che stava tutt’attorno, sconfitta, silenziosa, cupa, infelice.

Poi venne la guerra e all’indomani iniziammo a conoscere e ad amare un ben altro modo di affrontare la miseria, l’emarginazione.

Erano le istituzioni pubbliche, era la repubblica, erano gli organi della società civile che per giustizia, non per carità e per elemosina, dovevano e potevano operare per ridurre via via in spazi sempre più ristretti tutti i motivi di sofferenza materiale e morale che la società stessa, sommata alla natura, spesso concorreva a far più crudeli e offensivi. E qualcosa in questo senso pur fu fatto in trent’anni e parve aprire speranze, incoraggiar la fiducia.

Poi venne la sconfitta del Sessantotto e la «ristrutturazione» ha invaso ogni angolo, ogni settore della società, ha esaltato le leggi del mercato che mettono l’uomo al servizio della produzione. Tutti i compiti di difesa e di risarcimento sociale nei confronti dei più deboli, dei più indifesí, o sventurati, a volte, anzi, dei più eletti e delicati, hanno dovuto cedere via via alla cieca dinamica del competere quotidiano, ad ogni livello, a costo d’ogní vergogna, legittimando le mille infamie di cui è capace una società invasa dal fanatismo dell’arricchire.

Ed ecco di nuovo attorno a noi l’angoscioso assedio della povertà, della miseria, dello squallore, dell’accattonaggio; non la fame delle antiche campagne, ma la disperazione delle grandi città, delle periferie, dei ghetti, che nessuno ha istituito ma che offrono al povero un’area di squallore produttivo, dove la miseria non evita l’immediato confronto con la ricchezza più insolente. I ghetti delle grandi metropoli occidentali, orribili avamposti del gran mare di miseria che si stende attorno a noi, per interi continenti di colore diverso. Giungono a noi, lambiscono le nostre case, le onde di quel gran mare infestato di squali, fatto putrido da inenarrabíli miserie, inquinato dalla morte per fame, smisurata, devastante. I popoli civili, ricchi, trattengono a fatica la paura, l’ansia, l’odio, il razzismo. Cresce il divario interno; e cresce il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri; e cresce l’opposto furore. Ma le leggi, le ferree leggi della «ristrutturazione» dominano; lo Stato deve ridurre le spese affinché i privati abbiano più profitto e più investano nel produrre; guai a tassare profitti e investimenti; ogni stato, ogni popolo deve reggere la concorrenza con l’altro; e meglio la vince quello dove il grande capitale è più concentrato e la ricchezza più diseguale; nell’arena Europa dominerà il toro più nero e pesante e furibondo.

Lo Stato deve ridurre le spese: Scuola, Sanità, Assistenza. Ed ecco di nuovo, attorno, il silenzio agghiacciante della povertà sconfitta, disperata. Ed ecco di nuovo, nella città confortevole,il tormento d’un privilegio assurdo, insostenibile. Torniamo allora a far l’elemosina nelle strade, a comprare la catenina per far mangiare un disperato? Torniamo a dir buone, spirituali parole a chi s’è distrutto nell’ansia d’un lavoro che oramai, forse, più neppure vuole, perché gli stracci della miseria e della droga meglio rispondono alle esigenze di chi non può e non vuole più coltivar speranze? Torniamo a doverci rifugiare in quell’amara ricerca d’un falso, estemo rimedio?

È ben difficile e amaro, oggi, prendere atto del ritorno di questo rimedio, che appartiene alla millenaria sapienza dell’opera cattolica. Ben difficile e amaro riesce oggi, ultulizzare, a carico, per dir così, dei nuovi miserabili, quel rimedio del quale in ogni modo e in ogni occasione, s’è voluto riprodurre la necessità.

Apparso il primo febbraio 1989 sul quotidiano locale “Bresciaoggi” e da poco ristampato nel volume antologico Il primato della ragione (L’Obliquo, Brescia, 2007), l’intervento di Mario Cassa appare – come spesso si dice, con un luogo comune tanto abusato quanto scontato – di “allarmante attualità”. Insegnante al liceo Arnaldo di Brescia dal 1949 al 1980 e, dal 1970 al 1990, di Storia della filosofia presso l’Università di Verona, da sempre attento ai problemi della pedagogia e della scuola (cfr. il suo Difesa della scuola in: Annuario del Liceo ginnasio Arnaldo, Brescia, 1966) Cassa ha concentrato i propri studi su Nietzsche, Goethe, Thomas Mann e Karl Marx.

 

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tysm literary review, Vol 3, No. 6 – may 2013

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