philosophy and social criticism

Memorie di una aristocrazia poetica

Francesco Paolella

 

 

Al di là degli artisti ritratti in questo libro di memorie, sono interessanti le osservazioni dell’autore, il poeta e saggista Elio Pecora, su come e quanto sia cambiato, e cambiato fino allo stravolgimento, il mondo della cultura italiana negli ultimi decenni. Vediamo in altre parole qui come la “società acculturata” si sia ridotta ormai a una esausta (ma apparentemente inesauribile) serie di eventi, a una sequenza di esibizioni, vediamo insomma come il narcisismo abbia escluso ogni possibile condivisione.
Il mondo, a suo modo aristocratico, degli “amici romani”, dei poeti, degli intellettuali, dei pittori, degli attori, di cui Pecora ci consegna in queste pagine quadri non soltanto nostalgici, non esiste più. Una nuova barbarie (che sarà, forse, l’inizio di una inattesa rinascita) ha demolito, complice il passare degli anni, relazioni e costumi. Oggi tutto sembra ridotto a un deserto rumoroso, in cui tutti – come si dice – scrivono e nessuno legge; e in cui tutti parlano, ma nessuno ascolta:

«E’ subentrata l’era in cui tutti annaspiamo, quando ognuno pensa a difendere il proprio sgabello, uno sgabello senza schienale che lascia ingobbito chi lo occupa. Non sono estranei a tale clima gli stessi poeti e romanzieri. La volta che Sandra Petrignani convoca nella libreria Bibli un buon numero di autori, per dibattere un problema vitale, si presentano tutti, ma chiamati al tavolo e fatta la propria dichiarazione, si dirigono all’uscita. Questo è ormai abitudine: si va solo dove si fa da protagonisti e solo per il tempo della propria esibizione» (p. 136).

Certo, non tutto è finito, ma dai “gloriosi” Sessanta e Settanta sembra trascorso ben più di qualche decennio.
Questo libro è sì una serie di ritratti, ma è anche – ovviamente – una autobiografia: Pecora rivive la sua esistenza di poeta attraverso le vite degli altri, degli «amici sugli altari»: rivive lunghi, densi anni di libri, di letture pubbliche e di spettacoli teatrali; e rivive soprattutto intensi anni di inviti, frequentazioni, cene, amicizie e inimicizie, rivalità. Troviamo qui nomi famosi o famosissimi, incensati o già quasi dimenticati, sotto i quali riemergono manie, tic, malattie, passioni. Sono note le difficoltà di Amelia Rosselli o di Sandro Penna, ma le pagine scritte da Pecora ci permettono di intuire ciò che videro gli occhi di un amico, di un collega, di un estimatore. Non si tratta di semplice voyeurismo: le “vite degli scrittori” rappresentano sempre in qualche modo una “consolazione” per i lettori che ne hanno amato le opere: consolazione data dal fatto di poter scorgere qualcosa che si trova dall’altra parte della scrittura, dal fatto di poter vedere la materialità – a volte triste o persino umiliante – del vivere artistico.
Ciò vale anche e in primo luogo per lo stesso autore di questo libro: entriamo con lui nelle diverse case romane dove, per pochi giorni o per decenni, ha vissuto, nella tranquillità o nella precarietà. E vediamo appunto quanto pesassero allora (ma ancora di più oggi) i «commerci dominanti», quanto i problemi economici segnassero l’esistenza di tanti scrittori.
Tante pagine di questo libro sono inevitabilmente dominate dalla presenza della morte: le malattie, gli ultimi saluti, le carte da salvaguardare, le eredità da assegnare, i funerali. Ma più di tutto, è presente la morte di uno scrittore spesso evocato ma che non figura fra gli “amici” di Pecora: la morte di Pasolini, che rappresentò un vero punto di rottura, lo spartiacque fra un prima e un dopo, nella vita di quella società letteraria.
Per tutti i protagonisti, Elio Pecora sa darci descrizioni folgoranti, scultoree, a volte persino crudeli. In Elsa Morante c’era «una smania a lei consueta di distruzione» (p. 68). Quelle di Dario Bellezza sono «stracolme di inquietudini e di pretese» (p. 74). Alberto Moravia è «l’uomo che si annoia» (p. 86). Di più, questo libro mostra anche bene lo specifico modo di essere dell’intellettualità italiana, carica di pregiudizi e conformismi. Un mondo fatto di “compagni”, ma che vogliono vivere da borghesi:

«In casa dei Gambino mi è dato seguire i discorsi di alcuni dei maggiori esponenti della nostra sinistra più accesa, che sfoggiano pullover di Missoni e progettano vacanze a Cortina» (p. 31).

Colpisce per intensità e tristezza il ritratto di Amelia Rosselli, delle sue ossessioni e delle sue tribolazioni. Ne ricaviamo l’immagine di una donna colpita, schiacciata, eppure, nonostante tutto, leggera, lucente, incantata. E colpisce quello, persino commovente, di Aldo Palazzeschi, «vecchio gentile» che «ancora crede nell’amore» (p. 97). E come restare freddi davanti a Sandro Penna e ai suoi ultimi anni, vissuti chiuso in casa fra carte, cornici, medicine e cumuli di ogni cosa?:

«Il subbuglio in quelle stanze deve essere iniziato dopo la morte della madre. Sandro non è andato al funerale. Avrà lasciato cadere una carta o un oggetto qualsiasi sul pavimento scrostato e non s’è chinato a raccoglierlo. Il mucchio è cresciuto, giorno dopo giorno. A causa di quel che chiamiamo depressione, sentimento della brevità, disprezzo dell’inutile, sovrana estraneità?» (p. 102).

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