philosophy and social criticism

Minna Lindgren: misteri alla Villa del Lieto Tramonto

DI marco dotti

L’appuntamento pome­ri­diano con la cana­sta, la «par­tita del pome­rig­gio» era nata spon­ta­nea­mente tra gli ospiti.

Ognuno gio­cava per sé, per evi­tare discus­sioni, in un rituale sem­pre iden­tico ma libero. Tra una mano e l’altra rifles­sioni, ricordi, sug­ge­stioni, lampi di intel­li­genza pas­sata e futura si sareb­bero pre­sto rin­corsi, ria­ni­mando occhi e mente di arzille vec­chiette, intente a deci­frare il gero­gli­fico di un pre­sente troppo simile a un limbo per non destare qual­che sospetto.

A chi gio­vava quel limbo? A loro? Ai figli? Alla società? Sia come sia, la cana­sta del pome­rig­gio non rien­trava fra le atti­vità orga­niz­zate – e lau­ta­mente rim­bor­sate da con­si­stenti pre­lievi sui conti cor­renti degli ospiti – dall’amena resi­denza per anziani immersa tra i boschi nei pressi di Hel­sinki dove Minna Lind­gren ambienta il suo romanzo d’esordio ora edito da Sonzogno, Mistero a Villa del Lieto Tra­monto (tra­du­zione di Irene Sor­ren­tino, 2015, pp. 286, euro 16,50).

Ogni atti­vità orga­niz­zata, ogni gesto, ogni pra­tica – tranne la cana­sta e le poche, pit­to­re­sche uscite degli ospiti «auto­suf­fi­cienti» che offrono un qua­dro molto sug­ge­stivo di Hel­sinki — in quel con­te­sto di fra­gi­lità e di cura pre­ve­deva l’intervento di ope­ra­tori debi­ta­mente for­mati e arruo­lati per adem­piere allo scopo.

«Risorse umane» adi­bite alla sor­ve­glianza di chi è giunto alla soglia della sua uma­nità.

In Fin­lan­dia – osserva Lind­gren – si va par­ti­co­lar­mente fieri del fatto che l’aspettativa di vita delle per­sone sia salita fino a diven­tare fra le più alte al mondo. Men­tre ognuno ha come obiet­tivo vivere il più a lungo pos­si­bile, la vec­chiaia ha però perso ter­reno in ter­mini di con­si­de­ra­zione.

A essa ci si rap­porta quo­ti­dia­na­mente, ma così come ci si rela­ziona a un pro­blema da «gestire» e degli anziani si parla come di un grande e spa­ven­toso gregge la cui cura costringe la società a lavori sgra­de­voli e a ingenti spese. Il ter­mine fin­lan­dese van­hus, «vec­chio», si usa rara­mente, ma nel romanzo ricorre senza alcuna con­ces­sione al poli­ti­cally correct.

Per­ché una società così fiera della sua «vita media», che ha sem­pre più anziani di cui farsi carico – que­sta una delle domande che si agi­tano sul fondo del giallo scritto con humour e gar­bata, ma mai spun­tata iro­nia –, finita la loro esi­stenza lavo­ra­tiva, decide di con­fi­narli per venti, trent’anni in un limbo per «ex» (ex pro­fes­sori, ex ope­rai, ex fer­ro­vieri, ex amba­scia­tori) anzi­ché, con più cini­smo ma anche con più fran­chezza, libe­rar­sene accom­pa­gnan­doli alla morte? Per­ché que­ste linde e fio­rite e inter­mi­na­bili anti­ca­mere per la morte?

È opi­nione comune che vec­chi e bam­bini non abbiano diritto di star­sene senza far niente, per que­sto nella quiete del Lieto Tra­monto si impon­gono loro sedute di gin­na­stica, ore di tera­pia di gruppo, eser­cizi per la memo­ria, corsi di bri­co­lage e con­cer­tini a base di fisar­mo­nica e orga­netto. Atti­vità che hanno un costo di gestione. Solo che, come osserva Minna Lind­gren, ogni costo ha un suo rove­scio e que­sto rove­scio, dall’altro lato dello spec­chio, si chiama per l’appunto «risorsa». Chi – die­tro la maschera sociale dell’inclusione – ne sop­porta il “peso” sociale? Chi quello umano?

Tra uno svago e l’altro, ecco i «ser­vizi», vanto di Villa del Lieto Tra­monto e di tutto il wel­fare fin­lan­dese. Anche que­sti, però, sono ser­vizi sono pagati a caro prezzo. Capita a una delle pro­ta­go­ni­ste di accor­gersi che anche le chia­mate al soc­corso d’emergenza, che dovrebbe essere incluso nella rata men­sile, fini­scano a per pro­sciu­garle la pen­sione.

Il ser­vi­zio è stato infatti ester­na­liz­zato e appal­tato a una ditta dal nome eso­tico e miste­rioso. In que­sta casa di riposo sco­priamo così che i conti non tor­nano mai. Non tor­nano per le pro­ta­go­ni­ste del romanzo, le novan­tenni Irma e Siiri che, col­pite dalla morte improv­visa del tren­ta­cin­quenne cuoco della casa di riposo, comin­ciano a inda­gare, squar­ciando il sipa­rio die­tro il quale si nasconde il pec­cato ori­gi­na­rio di un’intera società all’apparenza tutta pro­gresso e inclu­sione.

Così, una delle ospiti, leg­gendo il nuovo prez­za­rio, si accorge che: «Per tirare giù i pan­ta­loni, quat­tor­dici euro. Sedici per tirarli su. Un conto salato, per un biso­gnino solo».

Eppure i gio­vani – quasi tutti i lavo­ra­tori della resi­denza lo sono — non sem­bra stiano meglio. Per­ché se ne vanno tutti dalla Villa del Lieto Tra­monto? Ritmi disu­mani e sus­sidi da riscuo­tere sono una delle ragioni. Li riscuote l’amministrazione, se rie­sce a assu­mere disoc­cu­pati, ma… poi li si lasciava senza lavo­rare o costrin­ge a ritmi tal­mente sfian­canti da indurli a loro volta, con­su­mato il tempo di logo­ra­mento, alle dimissioni.

Senza spor­carsi le mani, la ruota gira così, da sus­si­dio a sus­si­dio, nel regno del burn-out, Villa del Lieto Tra­monto. La solita sto­ria, non fosse per il cuoco, Tero, morto a 35 anni, sulla cui vita e sulla cui morte Irma e Siiri si met­tono a inda­gare. Sco­prono, ad esem­pio, che sulle loro esi­stenze da ex inse­gnanti e dat­ti­lo­grafe, appa­ren­te­mente con­se­gnate al vuoto, si inne­scano traf­fici di dub­bia natura.

Far­maci, dop­pie pre­scri­zioni, gestione di bene­fici mai ero­gati, ser­vizi sociali e assi­stenza sani­ta­ria in mano alla mafia bal­tica — la peg­giore, per­ché la più silen­ziosa.

Sco­prono inol­tre – con il can­dore dei bam­bini e degli anziani, cosa che rende le inve­sti­ga­trici della Lind­gren figure quanto mai riu­scite nel pano­rama delle inchie­ste con­dotte sotto spo­glie let­te­ra­rie – che que­sto sistema è solo una ridu­zione in scala di quel sistema più grande che chia­miamo «società».

Tanto il pic­colo, quanto il grande si legano per un nesso di ana­lo­gia: entrambi sanno trarre pro­fitto dalla vita, dalla morte, dalla malat­tia, dal lavoro ma per­sino dal non lavoro, dall’inerzia e dalla demenza.

Ogni cosa è messa a valore e in que­sta messa a valore (finan­zia­rio, s’intende) non sono estra­nee le mire di mul­ti­na­zio­nali che inne­stano il pro­prio bio­bu­si­ness su uno sce­na­rio thin­king chiaro e incon­tro­ver­ti­bile: una società di vec­chi è una società di deboli, una società che invec­chia è alla merce della più radi­cale forma di pro­fitto, quella che si inne­sca sul biso­gno, sulla cura e sulla precarietà.

Al Lieto Tra­monto, la capo­re­parto faceva lavo­rare i dipen­denti «come muli, li pagava male e non rin­gra­ziava mai. Ecco per­ché i gio­vani si stan­ca­vano di quel lavoro. Erano sem­pre sotto pres­sione, un ritmo mici­diale, in un luogo in cui nes­suno aveva fretta di andare da nes­suna parte e dove non acca­deva mai nulla». Si licen­zia­vano e, al loro posto, in un giro di sov­ven­zioni sta­tali e incen­tivi da far impal­li­dire Mafia Capi­tale, si assu­me­vano pro­fu­ghi e disoc­cu­pati, solo per trarne un van­tag­gio fiscale.

Fin­ché c’era il van­tag­gio, tutto andava bene. Poi i ritmi avreb­bero indotto il mal­ca­pi­tato assunto a causa delle dimis­sioni di quello pre­ce­dente a ras­se­gnare le pro­prie, a bene­fi­cio solo tem­po­ra­neo del mal­ca­pi­tato futuro.

Quello di Minna Lind­gren è un romanzo denso e godi­bile, ma tagliente. Per capirlo a fondo va rimar­cato che, alle qua­lità musi­cali della scrit­tura, uni­sce qua­lità di strut­tura. In que­sto senso giova ricor­dare che Mistero a Villa del Lieto Tra­monto muove da un rim­por­tante retro­terra d’inchiesta, fuo­riu­scendo così dal dop­pio ste­reo­tipo (tutto nostrano) che vede la let­te­ra­tura fin­lan­dese impe­gnata uni­ca­mente con renne o alcoo­li­smi più o meno letterari.

Nel 2009, Lind­gren ha rice­vuto uno dei più impor­tanti rico­no­sci­menti in ambito gior­na­li­stico, il Bon­nier Prize per la «Sto­ria dell’anno», con un racconto-inchiesta sulla morte del padre, pub­bli­cato sul sup­ple­mento men­sile Hel­sin­gin Sano­mat. Scrit­trice, oltre che gior­na­li­sta, nata a Hel­sinki nel 1963, sia con la sua inchie­sta, sia con que­sta prima tappa della Tri­lo­gia di Hel­sinki. Lind­gren ha avuto il merito di alzare il livello di discus­sione su un sistema sociale e su un Paese, la Fin­lan­dia, a torto o ragione con­si­de­rato all’avanguardia nei modelli di wel­fare e nel rap­porto tra bio­po­teri e forme di vita, inno­va­zione tec­no­lo­gica e inte­gra­zione sociale.

Pro­prio gra­zie al suo lavoro, qual­cosa si è mosso nell’opinione pub­blica den­tro e fuori la Fin­lan­dia, incri­nando un luogo comune che troppo spesso ha indotto anche gli osser­va­tori più attenti a iden­ti­fi­care, con leg­ge­rezza, il Paese che, tra il 60° e il 70° paral­lelo, segna l’estremità nord-orientale dell’Europa, con il para­diso di un wel­fare inclu­sivo e totale, in par­ti­co­lare per quanto riguarda l’assistenza agli anziani.

Anche il più dina­mico dei Paesi scan­di­navi si trova oggi davanti al punto cieco di uno svi­luppo che, a fronte di una tas­sa­zione ele­va­tis­sima (siamo al 51,1% di impo­sta sui red­diti delle per­sone), aveva finora assi­cu­rato una buona tenuta in ter­mini di ser­vizi e sicu­rezza sociale.

Fino a quando reg­gerà que­sto sistema? È solo que­stione di numeri, cifre, bilanci o c’è una visione dei legami sociali e dell’uomo che si mostra incom­pa­ti­bile non solo con una vita media sem­pre più lunga e sem­pre più fra­gile ma con ogni forma di vita che non si pie­ghi all’idolo del bio­bu­si­ness?

Non saranno certo le vec­chiette di Minna Lind­gren a darci que­ste rispo­ste, ma a dispetto dei loro anni pro­prio loro hanno il corag­gio di met­terci davanti a una domanda che, qui e ora, non è più pos­si­bile scansare.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

july 2015

issn: 2037-0857

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