Tutti allo stadio. Un articolo di Roberto Roversi
di Francesco Paolella
Qualche tempo dopo la rottura con Lucio Dalla, nel 1979 Roberto Roversi scrive un breve articolo – che qui di seguito ripubblichiamo – dedicato a uno stadio pieno di ragazzi che hanno preso parte a un concerto. Per fare cosa? – si chiede Roversi. Non tanto, non essenzialmente per ascoltare. La musica infatti si è ormai ridotta – continua il poeta bolognese – a un fatto privato, un divertimento, limitato ad “eventi” dove in realtà non si comunica più.
Ecco il testo di Roversi, pubblicato su”La città futura il 29 giugno 1979, con il titolo “Uno stadio colmo è la metafora del silenzio”:
Cerchiamo di capire se la partecipazione di massa ai concerti è legata ad una furia esistenziale; a una furia culturale; alla rabbia aggregativa che nasce dalla solitudine e dalla emarginazione; oppure se è legata alle semplici, alle consuete ragioni di buona organizzazione e di soddisfacente appoggio politico; oppure se possiamo noi cogliere qualche novità culturale e sociale nell’ambito di questa comunicazione cantata, che confermi ed esprima una autonomia ed una capacità di ripresa che non finiscono di sorprendere. Cantare per cantare; cantare per divertirsi. Come ascoltatore (che vuole divertirsi, ma che vuole anche capire e vivere) ho più volte dichiarato il mio dissenso. Ma i sessantamila per Demetrio Stratos? Con i loro cerini accesi? Cosa intendono fare? Cosa si propongono? Si divertono? Come? Ascoltando? Non cercano altro? Ma la canzone (ricordiamolo appena) non può essere solo ascoltata, si dovrebbe parteciparla. Dividerla, spezzarla, masticarla. Infatti è, o dovrebbe essere, una compromissione completa. Nella sua totalità è perfida, è pericolosa anche quando vorrebbe, in superficie, essere o risuonare soltanto come gioiosa; proporsi come puro divertimento, come si dice. E infatti, per quasi tutti gli addetti ai lavori, la canzone è fatta per allontanare dai problemi piuttosto che per precisarli. Che altro si può chiedere a una canzone, dicono? Così si marcia sulla base di sessantamila per volta. Uno stadio è colmo. Allora questo stadio quali nuove conclusioni propone? Io direi che si propone come un’occasione; magari non un’occasione di divertimento generale ma di privata e quieta disperazione, quasi che ciascuno degli spettatori dicesse: là cantano ed io sto qua a fumare; o con la mia ragazza; anche solo per i fatti miei; ma insomma, là cantano ed io neanche ascolto, neanche sento, o forse neanche voglio sentire. Oppure sento ogni tanto quello che voglio ascoltare. Ecco a mio parere il punto che conta: di questi sessantamila forse neanche la metà, o a malapena la metà è lì per un ascolto. Gli altri cercano altro. Sono lì per venirci, lì per restarci, lì per sentirsi, vedersi, sperarsi, ridersi, dormirsi, lì per andarsene, ma non per ascoltare. Se ne fregano; le canzoni sono tutte uguali, dicono. Così riempiono lo stadio per Celentano, per Bennato, per De Andrè, per altri venti, per altri cento cantanti, anche se piove, anche se fa freddo. Vanno per Stratos però se ne sbattono di Stratos, perché non ascoltano o non riescono a sentire, ma vanno per camminare (ripeto), per essere lì e non altrove, perché quello è il punto di ritrovo; e altrove un punto di ritrovo così non c’è. Ma anche in questo momento lo stadio dove parecchi bravi personaggi cantano è un luogo pieno di silenzio, dove si cerca – dentro al suono – proprio il silenzio. È un luogo dove alcuni si trovano a cantare, ma dove in realtà si canta; dove la suddivisione fra produttore di suoni e ascoltatore è ormai netta, è ravvicinata da alcuna mediazione. Ciò dipende, credo, non tanto dalla situazione ma dalla scelta compiuta dalla canzone attuale (meglio: da quella parte della canzone che nei tempi passati si era un poco impegnata per essere diversa). Proponendosi come puro ascolto, come divertimento, come privato, essa non fa esplodere più alcun giuoco (nessuna violenza di giuoco) e si assesta nella pienezza della sua indifferenza, in un centro del tutto neutrale, in cui può accadere ogni cosa e il contrario di ogni cosa. Purché non sia messo in discussione il disordine esistente. In un tale contatto capisco come cantare possa essere da una parte molto divertente per chi canta (che non ha più alcuna responsabilità); e d’altra parte la metafora del silenzio per tanti ragazzi che sono lì come a un convegno delle streghe. Infatti questa aggregazione spasmodica non comunica più. Mercificata anche ideologicamente.
In seguito a questo articolo, proprio Dalla si farà vivo, scrivendogli una lettera arrabbiata, sul retro di una fotografia che ritrae proprio una folla di ragazzi «silenziosi» in uno stadio (in attesa di un cantante). Dalla gli scrive: «Vorrei che una volta tanto la tua paura di vedere fosse sconfitta dal tuo desiderio di esserci»1.
Al di là dello scambio polemico – che si sarebbe risolto soltanto parecchi anni dopo fra i due – ci interessa anche riprendere la replica di Roversi: una lettera di risposta, in cui il poeta bolognese afferma di non essersi voluto riferire al caso particolare di Dalla e del suo pubblico.
E rivendica di conoscere bene la fatica del fare: «Anche scrivere un libro è tanta fatica; ma poi basta un lettore o un critico a buttartelo nel fuoco. A questo lettore, a questo critico non chiedi di passare in tipografia perché pesi la fatica pratica dello stampare, né di passare in libreria perché valuti le difficoltà o i pregi della distribuzione e della vendita. Io, con i miei solitari “Diecimila cavalli” ci ho messo dieci anni a scriverlo»2.
Note
1Citato in Lucio Dalla, Roberto Roversi, Nevica sulla mia mano. La trilogia, la storia, canzoni inedite e manoscritti, Sony, s.l., 2013, p. 162.
2Ivi, p. 166. Cfr. Roberto Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma, 1976.
[cite]
tysm literary review
vol. 21, issue no. 22
march 2015
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