philosophy and social criticism

Ultima scopa con Caruso

di Francesco Palmieri

Spettava a lui l’ultima carta a terra. L’asso di spade che gli avrebbe rifinito la primiera e assegnato l’undicesimo punto conclusivo della partita. Mi piegai alla sconfitta con rassegnazione e guardai solo allora il cielo, dove un certo numero di rondini passava a giro. Enrico Caruso sorrise e si fermò a considerarmi più del necessario, registrando con gli occhi la vittoria. Sotto era il mare di Sorrento che con disperse luci e il suono presumibile della risacca rendeva lo sfidante già lontano, come figura tolta al suo consunto mazzo di napoletane. Quaranta carte e trentanove meno lui.

Certe sere d’adesso mi succede, favorito dal tipo più accettabile di noia che è nostalgica, di tirare le carte dal cassetto e simulare da solo la partita con Caruso. Se mi commuovo risento la cadenza cantata a bocca chiusa, vezzo che negli ultimi tempi di vita ancora gli restava e procurava l’illusione d’un violoncello flebile, chiuso in un armadio o colto da lontano. Alzo gli occhi all’improvviso per sorprenderlo che guarda e non lo trovo. Sorridendo o deprecando, a seconda se è stata buona la mia mano di carte, riporto l’attenzione al tavolo. Capita che chiamo:

– Scopa!

A volte il grido è a mio nome. Più spesso va ad aggiungere, scoperta, la carta fortunata al suo mucchio. Vince quasi sempre lui. Forse lo lascio vincere. All’undicesimo punto d’uno di noi, rifuse le carte nel mazzo, socchiudo gli occhi e se mi giro presumo la veduta di Sorrento. M’illudo che qualora, per delibera del caso, si ripetessero le combinazioni di figure estratte nella nostra remota partita, il tempo si frantumerebbe con un colpo d’uncino all’indietro e apparirebbe innanzi a me Caruso nella sera di luglio del 1921, sul terrazzo dell’Hotel Vittoria, quasi novantaquattro anni fa. So che potrei provare miliardi di volte senza imbattermi in uno scambio esatto e decisivo, ma nemmeno è da escludere che accada al prossimo giro.

Suppongo cercasse anche lui, da buon patito della Scopa, di usare il gioco per rintuzzare il tempo o quantomeno ingannarlo. Leniva con le carte la nostalgia di Napoli nelle faticose stagioni newyorkesi sancite dal contratto al Metropolitan, fino all’ultima del 1920 quando a dicembre s’ammalò. Vomitò sangue cantando L’Elisir d’amore, la stessa opera per cui aveva giurato vent’anni addietro di non mettere più piede al Teatro San Carlo angustiato dalle critiche.

Due mesi prima aveva smesso di giocare per la morte del signor Pane, l’oste del malmesso ristorante italiano sulla Quarantasettesima Strada dove andava la sera, ignorando le lamentele della moglie Dorothy piccata per le tovaglie sciatte e la posateria non proprio scintillante. Semplicissima, la cena – pollo o bistecca con insalata, formaggio o frutta e caffè – non era la ragione per andarci. Il motivo è che poi, sparecchiato un tavolo in disparte, Pane prendeva le carte e giocava con Caruso anche per ore. Dorothy s’annoiava torcendo una collana fra le dita, estraniata nella pelliccia di zibellino, nei giri di perle e in una lingua che non le consentiva di capire le strutture verbali della scopa, quand’è necessario esprimere in napoletano il trionfo e l’astuzia, la deprecazione o uno sbaglio scongiurabile.

Poiché Caruso aveva aiutato il signor Pane a superare certe disavventure finanziarie, non so se le partite fossero frutto di passione condivisa o più un obbligo di riconoscenza. Neanche voi siete sicuri, proponendo a qualcuno le carte all’improvviso, se accetti con voglia o se sia troppo pigro per negare cortesie.

Confido soavemente nei racconti perché quel che s’immagina può essere successo o una volta accadrà. Così, intorpidito nella scena di Sorrento, perdo l’ultima partita con Caruso che ora è stanco. Ripone le carte e rievoca le sere da Pane, quando stampato il settebello a terra o rastrellata una pigliata numerosa sognava d’essere nuovamente un ragazzo che fa la scopa con gli amici – perdendo per disattenzione – mentre sogna d’essere celebre dopo una posteggia al Caffè dei Mannesi. Allora, distratto, perdeva anche con Pane.

Capisco perciò che se con me ha giocato dando le spalle al mare è per la nostalgia di un oste morto e dell’America dove intuisce che non tornerà. Forse, socchiudendo gli occhi per il fumo di una sigaretta egiziana, immaginava ch’io fossi Pane e lì fosse New York una qualunque sera dopo il Metropolitan. La segreta partita di un paio di giocatori sta nella sfida delle rispettive carte al tempo e a una sorte. E’ un gioco a chi più finge e non so se si può realmente vincere.

Molto malato, Caruso morì pochi giorni dopo per un veloce aggravamento. Da allora, fra le cose che faccio avendo tempo, è rigiocare contro il tempo: prendo il suo mazzo, che fu già di Mister Pane, e disputo la scopa da solo immaginando un futuro a novanta o cent’anni dal 1921, alla casuale ricerca di combinazioni che riproducano la nostra partita e che ho quasi tutte dimenticate. Aspetto che lui alla fine riconquisti l’asso di spade per completare la primiera e andare a undici.

(Aspetto ricordando la sera che giocò da solo a Sorrento e m’immaginò di fronte a lui nelle fattezze di Pane, o di un posteggiatore al Caffè dei Mannesi mentre giocava con Pane. Originato da questo sdoppiamento, restai futile prigioniero della partita. Né la sua morte servì a liberarmi con la dissoluzione dei pensieri).

[cite]

 

tysm literary review

vol. 18, issue no. 21

february 2015

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