philosophy and social criticism

Una sera al Bar Vert

Georges Patrix

Artaud arrivò con due ore di ritardo, senza salutare nessuno, per prima cosa fece una violenta requisitoria contro un’impicciona che si era scagliata contro di lui, e lo fece come un esagitato che, raggiunto lo scopo, cade a terra con tutto il suo peso, incapace di fare un passo in più.

L’occhio fisso, le mani che gesticolavano nervosamente, prendendosi e chiudendosi sul capo, come se gli avesse preso un colpo, i capelli che, come un aquila dalle ali spiegate, mostravano una fronte ampia e piena di rughe, la bocca cava e senza un dente, sputacchiando parole miste a saliva, le labbra sporche di pezzetti di tabacco, come una spiaggia dopo una tempesta, Artaud si fermo immediatamente, si mise a sedere, mi salutò e cominciò a canticchiare su una melopea araba una poesia lettrista, poi, tirando fuori dalle tasche alcuni quadernetti scolastici, cominciò ad annotarne le parole: «oulati, rala, ouenasara, oualara».

Muezzin del bar “Vert”, riempiva le pagine con questa melodia, poi intonò i primi due versi del Re di Thulé di Nerval, fermandosi su una nota per vedere, mi disse, a che punto gli si era rovinata la voce. Il niente di questa nota inarrivabile gli faceva male e si tappava le orecchie, come per trattenerla meglio, questa nota acuta; proseguendo l’esercizio, continuò a tirar fuori dalle tasche quaderni di diverso colore. Ne tirò fuori una decina, tutti pieni di una scrittura ampia e spesso decorati da strani disegni, non figurativi.

Si fermò su uno di quelli che, a prima vista, non ricordavano nulla di noto: «Ecco quello che le volevo far vedere», mi disse. Rimasi in silenzio, aspettando il resto della spiegazione.
«Questo disegno non assomiglia a niente, eppure rappresenta ore di duro lavoro».

Fissavo sempre il disegno, confidando in qualcosa, forse in un miracolo. «È un piccolo animale, piccolissimo», proseguì lentamente, come se inventasse le parole e le idee man mano che procedeva nella spiegazione, «tra la pulce e il pidocchio», e aggiungeva al disegno dei puntini e dei baffi. Cominciavo a distinguere una testa ed un corpo. La sua matita troppo appuntita strappava il foglio a quadretti. «Non ho mai visto questo animale, perché è al di sotto di ciò che si può vedere, ma la su forma mi si è imposta. Non si nutre di sangue, ma di sperma, molto sperma».

Era arrivata l’ora dell’ultima corsa del metrò, Artaud mi confidò quanto gli stava stretta la sua stanza ad Ivry: «È la camera che fu di Gérard de Nerval, è lì che venne fatto a pezzi un ufficiale della guardia di Luigi XVI. Quando vi si fa ritorno, si avvertono presenze terribili, che mi lanciano i loro malefici».

… Poi, come un vecchio Sioux, Antonin Artaud sparì nella notte, avvolto da grandi nubi di fumo di sigarette, intonando ancora la sua cantilena: «oualala, ouenasara»