philosophy and social criticism

Un’adorazione vorace

Lea Melandri

L’origine e la storia del libro di Annie LeclercDella Paedophilia e altri sentimenti (Malcor D’ edizioni, Catania 2015)- sono strettamente legate al tema delicato, complesso, inquietante che affronta, all’esperienza personale da cui ha preso avvio la scrittura –una molestia sessuale subita dall’autrice da bambina-, e al silenzio che vi ha pesato sopra a lungo. Così a lungo che il libro, pur fatto oggetto di continui rimaneggiamenti, annotazioni, è rimasto per sempre nel cassetto e solo dopo la sua morte trovato e pubblicato dall’amica Nancy Huston.

Si potrebbe dire che il silenzio della bambina violata -la ragione per cui non racconta nemmeno ai famigliari, non fa nomi, non punta il dito contro il suo aggressore-, così come il silenzio della donna che prende parola attraverso la scrittura senza tuttavia renderla pubblica-, rappresentano il perno intorno a cui ruota tutta la riflessione del libro.

Eppure, l’uscita dal mutismo, come ripete più volte Leclerc, è estremamente importante: la parola è quella che ci mette in relazione con la nostra interiorità e con gli altri. In questo caso, dare parola alla bambina, spingerla a uscire dall’afasia, significa metterla in condizione di “spiegare le cose dal suo punto di vista”, dire perché non ha voluto fare nomi, dire che “lei non voleva”. Significa, soprattutto, portare allo scoperto quella “verità” che è rimasta il suo “segreto”, il segreto che la lega con una “inquietante solidarietà” al suo aggressore.

Il fatto di essere riuscita a scrivere è la prova che la violenza subita non è stata distruttiva. Il fatto di non aver pubblicato il libro dimostra comunque che la vicenda, su cui verte la riflessione, è di quelle che per la loro complessità e ambiguità risultano “impresentabili”, “indicibili”. Un “male senza nome” è la contiguità, per non dire la confusione tra la paedophilia –in greco: l’amore per i bambini- e la pedofilia, l’abuso sessuale del bambino.

La domanda inquietante, difficile persino da formulare, che percorre tutto il libro, riguarda il sottile confine tra un sentimento universale -“inscritto nel destino comune dell’umanità”-, quale è l’adorazione del bambino, con tutti i suoi “infiniti segreti, e il farlo oggetto di aggressione sessuale. Non a caso, Leclerc vi torna sopra a più riprese:

-“si può parlare dell’amore per i bambini anche per il pedofilo”?

-“tali disastri possono essere generati dall’amore stesso?”

-“come è possibile che gli adulti, che sicuramente amano i bambini, siano in grado di infliggere loro anche tanti supplizi?”.

In altre parole: che cosa lega l’amore alla violenza, l’attrazione per ciò che il bambino rappresenta -la vita che si rigenera, la nostalgia della beatitudine infantile, il corpo a corpo con la madre, l’immortalità, ecc.- e le pulsioni distruttive? Un interrogativo che potremmo porci anche per i rapporti di coppia, per le relazioni amorose adulte: non si uccide una donna per amore, ma l’amore c’entra, se è vero che a uccidere sono mariti, fidanzati, amanti, cioè persone legate sentimentalmente alla vittima.

Gli aspetti che appaiono più originali e più coraggiosi riguardo ai luoghi comuni con cui si giudica la pedofilia, nell’analisi di Leclerc sono essenzialmente due:

a) la figura dell’aggressore non viene mai consegnata alla mostruosità del suo gesto, quello che, una volta scoperto, la espone alla “rabbia sterminatrice” di tutti gli altri, che lo vogliono prigioniero o morto. La “comprensione” che Leclerc ha per il pedofilo non è “pietà”, ma una inaspettata capacità di immedesimazione nell’altro: ne parla come di un “vecchio bambino”, di un “enorme bambino mostruoso”, un “bambino cresciuto male” che rivive la vertigine dell’infanzia, dell’originaria fusione con la madre, in modo distruttivo.

Ci sono modi diversi di ricadere nell’infanzia –scrive Leclerc- il pedofilo “ci mette la sessualità che non può indirizzare altrove, attraverso la resa e la malleabilità del bambino esplora il suo potere sul mondo, ispeziona la sua forza sull’oggetto amato, su se stesso”. “Sventra il suo orsetto di peluche, cava gli occhi alla sua bambola”, crede di poter trattenere la beatitudine di un tempo per ingestione”.

L’attrazione, l’attaccamento all’infanzia che agisce in modo distruttivo nel pedofilo, non è così diverso da quel “mordicchiare le carni fresche di un bebè senza fargli male”, di tanti adulti, Orchi e Orchesse. Il riferimento più inquietante è il rapporto delle madri coi figli, quel corpo a corpo che dura a lungo e che passa per la bocca, la voracità dei baci, in cui è implicata una sessualità difficile da interrogare.

b) l’altro aspetto originale dell’analisi di Leclerc riguarda il mutismo della vittima. L’aggressione produce nel bambino un “eclisse di sé”, il vissuto è quello della “smarrimento”, della “confusione”, del “disordine”, della “vergogna”: resa alla forza raddoppiata dell’adulto, regressione al fondo dell’infanzia. Parlare, gridare, vorrebbe dire classificare alcuni adulti come “disumani”, metterli gli uni contro gli altri, seminare odio e zizzania, consegnare il carnefice alla prigione, sollevare un “inferno insospettabile”.

Ma c’è una ragione più sottile e più profonda, che avvicina nel silenzio e nella conservazione del “segreto” la vittima e l’aggressore.

“Terrorizzati entrambi di smentire la legge che governa l’ordine del mondo, il credito di benevolenza che il bambino fa all’adulto, e quella che vuole che resti segreta la camera dei genitori.

Il bambino vorrebbe restare dentro la benevolenza dell’adulto “come un feto nel ventre di sua madre”. L’aggressione subita dimostra che l’adulto può farti del male, e che tu sei venuto a sapere della stanza dei genitori quello che non avresti dovuto sapere. La vergogna è aver visto ciò che non si doveva vedere, a cui si associa la paura di distruggere la vita famigliare.

Qualcosa di simile sembra accadere nel caso delle donne che subiscono violenza da parte di mariti, fidanzati, padri e che cercano di scagionarli. Forse agisce, anche qui, lo stesso timore di dover ammettere che l’altro non le ama, la preoccupazione, più forte di ogni altra ferita, di salvaguardare la certezza dell’amore che ci si aspetta.

Giustamente Annie Leclerc si chiede come mai un sentimento così diffuso come l’amore per i bambini e il “non detto” rintanato dal qualche parte nel termine “paedophilia”, siano così poco fatti oggetto di riflessione. Per quanto si tratti di esperienze inquietanti, tutti noi abbiamo i mezzi per “pensare l’impensabile”: adorazione per i bambini, desideri sessuali, le tracce in noi di infanzia oltraggiata.

Dove il suo giudizio cade pesantemente è sulla “provocazione libertina” del ’68, su quelli che Leclerc chiama “i pedofili delicati”, convinti che la pedofilia significasse soltanto venire incontro al desiderio del bambino: intellettuali, letterati della sua generazione, contro cui confessa di avere il dente avvelenato” tanto più caustico quanto più si è sempre “trattenuta dal mordere”.

“Nonostante la disapprovazione unanime dei non-pedofili, nonostante la loro condanna esagerata della pedofilia, si è riluttanti a ficcarci dentro il naso. C’è un tacito accordo ad intervenire solo alla superficie del fenomeno. Si propone di sospendere i voli charter che hanno come destinazione bordelli di prostituzione minorile, si suggerisce il sequestro di cassette pornografiche che mettono in scena bambini, si chiede l’aggravamento delle pene, ecc. Ma da nessuna parte vien la spinta a rendere pubblico il segreto della pedofilia, a stanarla dal suo ambito di segreto, ad analizzarne i meccanismi, semplicemente a parlarne,a testimoniare ciò che si sa e ciascuno ne sa qualcosa. Per esempio, ciò che ciascuno può sapere in quanto ha subito da bambino -in segreto- qualche aggressione pedofila “delicata”, viene taciuto. Ciò resta di dominio privato.”

L’ideologia che innalzava allora la sovranità del desiderio -“proibito proibire”-, l’arrogante proclama che veniva allora dal suo mondo sembra aver pesato non poco sulla difficoltà a dare parola pubblica alla violenza subita:

“La fascinazione che un testo libertino esercita sugli ingenui che noi siamo è della stessa natura di quella esercitata dai pedofili sui bambini. Urlare con i lupi piuttosto che passare per un agnello terrorizzato. Non c’è migliore soluzione contro la paura che quella di schierarsi dalla parte di coloro che esercitano il terrore.”

 

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