philosophy and social criticism

Zombi di tutto il mondo

Marco Dotti

Nessuno aveva sentito parlare di zombi fino al 1929. Nel ’29, fra i tipi della newyorkese Blue Ribbon Books, con copyright di Harcourt Brace, iniziò a farsi spazio un volume insolito di trecento trentasei pagine, illustrato da Alexander King, a firma dello stravagante W. B. Seabrook.

Strani umani

Uno strano best-seller. Figura strana, però, era soprattutto il suo autore. Perché strano, Seabrook lo era davvero. Suicidatosi sessantunenne, oramai imbolsito – era il 20 settembre del 1945 – con un’overdose di eroina, fu reporter del New York Times e mago, amico di Crowley e al contempo firma rispettata di Cosmopolitan e Vanity Fair. Amava i circoli esoterici e sosteneva di non disdegnare il gusto della carne umana.
Negli anni Venti, Seabrook prese a frequentare i surrealisti parigini, adorava la rivista Documents e il circolo a cui aveva dato vita, Roger Caillois, Georges Bataille, Carl Eintstein, Marcel Griaule. A Parigi, erano quelli gli anni delle seduzioni pericolose e dei viaggi. I più inquieti si apprestavano a partire, in cerca di antichi rituali da attualizzare: Mali, Senegal, Ecuador, Cuba, Cina o Messico. Proprio a Parigi, pochi mesi dopo l’edizione americana, apparve una versione francese del libro di Seabrook, con la premessa dello scrittore-viaggiatore Paul Morand. Su tutto, fu però il cinema a veicolare l’intuizione di Seabrook. Il 4 agosto del 1932, sceneggiando le pagine di Seabrook, Victor Halperin mandò nelle sale White Zombie, il primo zombi-movie, con un protagonista di richiamo, Bela Lugosi. E lì, tutto ebbe inizio. Il mito era oramai a piede libero.
Il libro di Seabrook uscì con un titolo esotico e accattivante, a metà fra un romanzo di viaggio e un almanacco etnografico: The Magic Island. Attratti i curiosi e i lettori con quel richiamo a magia e mistero, a introdurre nel loro immaginario e nelle diramazioni materiali della popular culture la potentissima figura dello zombi furono solo dodici, succose paginette.

Magic Island

The Magic Island (1929), illustrazione di Alexander King

Oggi potremmo dire che, delle trecento trentasei pagine che compongono The Magic Island, rimangono solo quelle dodici di un memorabile capitolo, intitolato “… Dead Men Working in the Cane Fields”. Quasi un feticcio tra i cultori del genere. Pagine dimenticate dagli etnologi.

Ben prima di diventare un genere con i film di Romero negli anni Settanta e con i libri di Max Brooks, gli zombi hanno trovato in Seabrook un’origine sociologica. Ciò che Seabrook fotografa è infatti una situazione. Più che un fatto, egli coglie un insieme di fatti: ci sono uomini che nella Haiti colonizzata dalle corporation, tradita dai giacobini, da Thomas Jefferson, da tutti. considerano morti-viventi, o meglio né vivi, né morti, costretti a lavorare in condizione di schiavitù permanente. Gli zombi nascono come lavoratori-schiavi, sono schiavi senza catene, perché lobotoimizzati di qualsiasi volontà che non sia mera ripetizione energetica – nella forma del lavoro o della guerra – dell’identico. Schiavi apatici ai quali sono state somministrate sostanze al contempo inebrianti e annichilenti per consentire loro di sopportare carichi immani di violenza o lavoro.

Il loro tempo è schiacciato su un presente senza fine. In questa situazione c’è “qualcosa”, Seabrook lo intuisce. Qualcosa che costituirà la pietra angolare di un fenomeno destinano a insediarsi nei costumi, diventando col cinema prima e con la letteratura e i videogames poi, e infine col terrorismo 2.0 – ma qui si aprirebbe un altro capitolo – un genere paramitologico a sé, fino a ritornare, nel secolo nuovo ma forse già invecchiato che viviamo, là dove era partito: quel punto di osservazione eccentrico sulla realtà che offre un potentissimo paradigma per lo studio delle mutazioni dell’economia e del lavoro (pensiamo a Zombie economics, celebre titolo del keynesiano John Quiggin), del rapporto mente-corpo e per la neurofisiologia, pensiamo al recente lavoro di due neuroscienziati, Timothy Verstynen e Bradley Voytek, Do zombies dream of undead sheep? A neuroscientific view of the zombie brain (Princeton University Press, 2014). Non è un caso se college e dipartimenti universitari iniziano a occuparsi sempre più seriamente della questione, tanto da aver aperto dipartimenti ad hoc, non solo nei corsi di cinema e arte. Ebbene sì, oramai esistono anche gli Zombie Studies. E c’è poco da ridere. Gli zombi vanno presi sul serio, come spiega Rocco Ronchi nel suo Zombie Outbreak. La filosofia e i morti-viventi (Textus, L’Aquila 2015), perché fra tutte le immagini che popolano il nostro mondo, nessuna ha toccato il fondo dell’abiezione quanto quella degli zombi.

Zombi di tutto il mondo, unitevi

“Ho visto zombi al lavoro nei campi”, scriveva W. B. Seabrook in The Magic Island. Lui, i “morti-viventi” affermava di averli incontrati davvero. Di averli visti lavorare, ad Haiti, ma non in un campo qualunque, in uno spazio qualunque, bensì dietro insegne che indicavano chiara una proprietà: Hasco, l’Haitian-American Sugar Company. E già qui la storia si complica. Perché nell’Haiti occupata manu militari dagli Usa, che nel 1915 posero fine a una straordinaria esperienza di black democracy iniziata con Toussaint Louverture, ciò che avanza è una forma nuova di schiavitù. Né schiavi, né liberi. Semplicemente, zombi.
Ma chi o, meglio, che cosa sono gli zombie? Seabrook ne dà una descrizione, che non permette di assimilarli né a fantasmi, né a vampiri. Figure, questi ultimi, di un’aristocrazia romantica. Gli zombi sono forza lavoro, senza romanticismo e senza aristocrazia. Masse informi, proliferanti, masse senza soggettività propria.

Mera forza lavoro, senz’altra specificazione. Bestie da soma, sotto-uomini, più che uomini, caduti nella complete disponibilità altrui. Così li descrive:

«It seemed that while the zombie came from the grave, it was neither a ghost, nor yet a person who had been raised like Lazarus from the dead. The zombie, they say, is a soulless human corpse, still dead, but taken from the grave and endowed by sorcery with a mechanical semblance of life-it is a dead body which is made to walk and act and move as if it were alive. People who have the power to do this go to a fresh grave, dig up the body before it has had time to rot, galvanize it into movement, and then make of it a servant or slave, occasionally for the commission of some crime, more often simply as a drudge around the habitation or the farm, setting it dull heavy tasks, and beating it like a dumb beast if it slackens».

Gli zombi abitano la soglia che divide la morte dalla vita, ma non sono né veramente vive, né veramente morte. Non hanno singolarità, di loro si parla quasi solo al plurale. Sono massa, massa al suo più basso grado. Molteplicità che degrada senza fine e, senza fine, prolifera e si moltiplica. Non sono, come i vampiri, creature della notte. Non sono, come i fantasmi, creature senza corpo. Il corpo è tutto ciò che hanno. Ma è un corpo immediatamente disponibile al lavoro e allo sfruttamento. Per questo, osserva Rocco Ronchi, gli zombi hanno una connotazione di classe. A dispetto di altre creature che popolano l’immaginario occidentale, non sono, come il vampiro, singolarità aristocratiche. Sono massa, moltitudine indifferenziata.

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The Magic Island (1929), illustrazione di Alexander King

Ma esistono, gli zombi? Sì, esistono. E sono tra noi. Di questo sono certi due giovani studiosi, Stefano Tomelleri e Martino Doni, un sociologo e un antropologo che hanno da poco pubblicato Zombi. I mostri del neocapitalismo (Medusa, Milano 2015). Gli autori ci spiegano che il mito dello zombi – un mito d’oggi, alla Barthes – sarebbe capace di «raccogliere la natura parassitaria del neocapitalismo perché ne è in qualche modo l’espressione più elementare e nello stesso tempo più fedele».

Detto in altre parole, caratteristica essenziale del mito- zombi sarebbero quella di trasfigurare, ma anche di individuare i processi materiali, quindi molto concreti, di una realtà in atto. Attraverso gli zombi – lavoratori invisibili, soggetti di diritti mai esigibili, corpi esposti alla tratta e agli abusi, smontabili per “sostituire” organi e pezzi ai figli dei padroni – individuiamo tutti que i «dispositivi di produzione, sfruttamento, oppressione e rimozione che caratterizzano i legami sociali, culturali ed economici del nostro tempo». Quello degli zombi è un mito ma, puntualizzano Tomelleri e Doni, «gli zombi esistono, sono attorno a noi. Il mito serve non tanto per nascondere, quanto per mitigare e giustificare la loro realtà, serve per trasformare le vittime reali in personaggi di finzione, di cui magari si dice anche “è tutto vero”, ma senza crederci troppo».

Gli zombi sono gli altri, i già morti, coloro che, quando avranno morte reale, per fuoco, per terra o per mare come cantava Leonard Cohen, non potranno che confermare la loro vocazione: esseri indifferenziati, senza storie e senza nome, , la cui fine ci spaventa solo perché mette fine a una prestazione votata al benessere altrui. Forse anche il nostro. Dead men working, insomma. Stessero così le cose, vuoi vedere che ci toccherà pure rivalutare quel matto di Seabrook e dire che, in fin dei conti, aveva proprio ragione?

 

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 30, issue no. 33 april 2016
issn: 2037-0857
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