philosophy and social criticism

In commercio con l’invisibile: per un nuovo regime della visibilità

Alessandro Simoncini

Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 3: “Trasparenza”, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2007.

Accumulando il visibile sul visibile non si stimola

Come tutti i numeri di Fata Morgana, la rivista quadrimestrale di cinema e visioni animata da un folto gruppo di studiosi riconducibili all’area più intellettualmente fertile dell’Università della Calabria, anche il terzo, di recente uscita, è dedicato ad una categoria centrale del pensiero filosofico-politico. E come tutti, anche questo numero è aperto da una ricca intervista a chi su quella categoria ha fornito alcune tra le più acute riflessioni oggi disponibili. Trasparenza dunque: a parlarne, sulla scia del filo conduttore tracciato dalle domande di Bruno Roberti, è Jean-Louis Comolli, già caporedattore dei Cahiers du cinema, cineasta e autore di una vasta produzione bibliografica, tra cui spicca il recente, bellissimo Voir et pouvoir. L’innocence perdue:cinéma, télévision, fiction, documentaire (Éditions Verdier, Lagrasse 2004), meritoriamente tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Donzelli nella primavera del 2006.

Onnivisibilità e trasparenza. O dell’accecamento

Comolli chiarisce subito che “trasparenza”, per il fatto di essere inserito in un complesso reticolo di significati storico-politici («qualcuno ad esempio ha detto glasnost…»), è oggi diventato “un termine politico” in virtù del fatto che, a partire dalla metà degli anni ’80, la potenza dei media si è installata nel reale imprimendovi la «pretesa che tutto sia visibile». [1] I media hanno cioè fabbricato qualcosa di simile ad un “tutto trasparente” in cui ciò che restava nascosto potesse essere totalmente disvelato. Al tempo della mondializzazione del capitalismo, la trasparenza mediale regnante, riattiva in questa operazione una genealogia che comprende le utopie razionaliste settecentesche della “casa di cristallo” e della città ideale (finalizzate a debellare l’orrore praticato al riparo delle mura degli interni famigliari o negli opachi anfratti della realtà urbana), il panopticon (la struttura carceraria progettata da Jeremy Bentham sulla base del principio di una sorveglianza in trasparenza che, se applicata all’intera società, avrebbe condotto le moltitudini ad interiorizzare la disciplina necessaria alla maggiorazione delle proprie forze e alla buona funzionalità dell’ordine egemone), e le concrete realizzazioni architettoniche dei “palazzi di cristallo” che a partire dal 1851 ospiteranno le Esposizioni Universali («i luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce» in cui Walter Benjamin scorgeva il luogo di emergenza di quel soggetto moderno che, «godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri», sarà progressivamente, massicciamente assorbito dalla fantasmagoria della civiltà capitalistica).

Comolli chiarisce subito che “trasparenza”, per il fatto di essere inserito in un complesso reticolo di significati storico-politici («qualcuno ad esempio ha detto glasnost…»), è oggi diventato “un termine politico” in virtù del fatto che, a partire dalla metà degli anni ’80, la potenza dei media si è installata nel reale imprimendovi la «pretesa che tutto sia visibile». [1] I media hanno cioè fabbricato qualcosa di simile ad un “tutto trasparente” in cui ciò che restava nascosto potesse essere totalmente disvelato. Al tempo della mondializzazione del capitalismo, la trasparenza mediale regnante, riattiva in questa operazione una genealogia che comprende le utopie razionaliste settecentesche della “casa di cristallo” e della città ideale (finalizzate a debellare l’orrore praticato al riparo delle mura degli interni famigliari o negli opachi anfratti della realtà urbana), il panopticon (la struttura carceraria progettata da Jeremy Bentham sulla base del principio di una sorveglianza in trasparenza che, se applicata all’intera società, avrebbe condotto le moltitudini ad interiorizzare la disciplina necessaria alla maggiorazione delle proprie forze e alla buona funzionalità dell’ordine egemone), e le concrete realizzazioni architettoniche dei “palazzi di cristallo” che a partire dal 1851 ospiteranno le Esposizioni Universali («i luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce» in cui Walter Benjamin scorgeva il luogo di emergenza di quel soggetto moderno che, «godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri», sarà progressivamente, massicciamente assorbito dalla fantasmagoria della civiltà capitalistica).

Per Comolli, l’effetto di ipervisibilità prodotto dai media eredita e riattiva proprio il concetto di trasparenza che quelle pratiche hanno stratigraficamente depositato nella storia occidentale. I media danno forma a un “tutto trasparente” che da una parte permette la realizzazione delle pulsioni scopiche e psichiche dello spettatore-consumatore e dall’altra contribuisce a garantire l’oggettivazione di una soggettività il cui desiderio, interamente sussunto a ciò che solo si può vedere e consumare, viene funzionalizzato ai dispositivi di potere-sapere e ai giochi di verità che disegnano i lineamenti del tempo presente. Al tempo in cui si diffondono pervasivamente sul territorio le telecamere di sorveglianza e lo spettacolo dell’insicurezza urbana, la paura sorregge la proliferazione delle retoriche sicuritarie (che contribuiscono alla genesi di un elettorato spaventato e rancoroso, composto da lavoratori precarizzati, consumatori indebitati e risparmiatori terrorizzati) e il visibile mediatico diviene «il luogo dell’adattamento al mondo, del suo possibile addomesticamento, della sua rassicurazione». [2]

In un simile contesto il cinema può tracciare linee di fuga, garantendo all’occhio la possibilità di praticare altrimenti il “desiderio di vedere”, di trasgredire gli stringenti limiti imposti al visibile dalla macchina della comunicazione di massa. Se è vero infatti che lo spettatore cinematografico è costitutivamente preso all’interno della contraddizione consustanziale al dispositivo cinematografico – quella per cui il cinema è un artificio estremo che viene tuttavia sistematicamente naturalizzato dallo sguardo di chi rifiuta di vedere l’artificio in nome del desiderio di una presunta innocenza, trasparenza e verità del mondo -, egli può sempre innescare quel “lavoro del vedere” che lo sottrae alla vera e propria “intimidazione della coscienza” che proviene dalla trasparenza della visione (mediatica o cinematografica essa sia): «lo schermo è un dispositivo sinottico che nasconde precisamente la possibilità di vedere» [3] In altri termini, ad un “ipervedere” privo di zone d’ombra, ad un “ipervisibile” che produce «la cecità di chi guarda in maniera troppo fissa il sole» (come scrive Roberti citando il La Bruyère di Rossellini), il buon cinema risponde articolando visibile e invisibile, ombra e luce, nascosto e mostrato. Lo scopo è quello di realizzare un regime di visibilità capace di sottrarre l’occhio dello spettatore all’ impero della visibilità del mercato e alla fantasmagoria delle merci, contrastando l’onnivisibilità e la trasparenza di una forma della civilizzazione che – come ha sostenuto il filosofo Peter Sloterdijk – rende «lo spazio mondano interno del capitalismo» (Weltinnenraum) sempre più simili ad un immenso palazzo di cristallo entro il quale «l’essere uomo diventa una questione di potere d’acquisto e il senso della libertà si rivela nella capacità di scegliere tra prodotti del mercato». [4]

Nel palazzo di cristallo. Degli “ultimi uomini” e dello spettacolo del capitale

In questo nostro palazzo di cristallo, solcato dai dispositivi di potere del consumo individuale di massa e da quelli mediatici dell’ «azione a distanza di uno spirito sull’altro» (preconizzato da Gabriel Tarde), è in via di realizzazione «il progetto di trasporre nell’immanenza del potere di acquisto tutta la vita di lavoro, desideri ed espressione dell’uomo». [5] Sulla base della promessa di un «denso complesso di sgravi, assicurazioni e garanzie di comfort» è avvenuta la produzione in massa di quelli che Nietzsche chiamava “gli ultimi uomini”: uomini perlopiù interessati a massimizzare il metabolismo del sistema, a situarsi, cioè, negli interstizi più comodi e meglio climatizzati di quella che si presenta come una «mega-architettura del benessere, del comfort e della sicurezza interna». [6] Per Sloterdijk, l’uomo è ormai principalmente l’animale immunizzato ed individualizzato che abita la grande serra capitalistica dei comfort o desidera abitarla: incitando i soggetti ad un eccitato e reiterato passaggio all’atto di consumo, e saturando il loro sguardo, la potenza domesticatrice degli schermi televisivi, cinematografici, pubblicitari – eredi in ciò della trasparenza ammaliante del cristallo, della vetrina e della fantasmagoria delle merci – ha giocato un ruolo decisivo nell’assoggettamento materiale dei viventi ai dispositivi di governo del «capitalismo ottico». [7] Si tratta di una modalità dell’esercizio del potere che, come osserva Marcello Walter Bruno nel suo contributo al volume, fonda le condizioni di possibilità della propria potenza sulla trasparenza del vetro che «apre le botteghe e i negozi allo sguardo metropolitano del flâneur», folgorato e catturato da una «semiotica della seduzione» attivata dal «sex appeal del merceologico» secondo una linea che condurrà fino al cinema – «occhio vitreo del Novecento» – e ai mass-media più recenti. [8]

Ma è proprio a questa cattura della pulsione scopica ad opera del capitalismo ottico che, per Comolli, il cinema è oggi chiamato ad opporre un regime della visibilità che permetta ai viventi nuovi processi di soggettivazione, altre forme di vita. La struttura stessa della macchina-cinema può infatti permettere di sospendere la rappresentazione mediatica dominante, poiché nel momento stesso in cui lo spettatore entra nella sala cinematografica, la pressione del mondo si allenta, si sospende temporaneamente. «Svuotando la testa – scrive Comolli – [il cinema] permette di accedere a una rappresentazione del mondo sospesa, virtuale». [9] Prende così forma un altro atto di pensiero che – «aprendo la possibilità di mettere a distanza il mondo», di dislocarlo, di reintrodurre in esso qualcosa di non visto e di “segreto” – può opporsi all’annichilimento del pensiero prodotto dalla pressione del mondo stesso. [10] Mentre nulla si perde nell’ipervisione del “tutto trasparente” mediatico (di cui è parte attiva il cinema spettacolare, in cui la pulsione scopica viene soddisfatta da un’acritica accumulazione infinita del visibile), il cinema critico-espressivo – grazie anche al fuori campo che consustanzialmente lo abita – dice costantemente allo spettatore che egli non può vedere tutto; che non sempre «ciò che appare è buono e ciò che è buono appare»- per riprendere quello che per Guy Debord era il motto esemplare della società dello spettacolo; che le immagini, tutte le immagini, sono artificiali e quindi reversibili. Dotando lo spettatore della coscienza dei propri limiti e del vuoto che abita – della cecità che lo affligge in regime di onnivisibilità -, il cinema critico lo sottrae all’effetto di veridizione di cui gode oggi il regime della trasparenza egemone nell’industria culturale: la sua pulsione scopica e il suo desiderio di vedere vengono soddisfatti sì, ma permettendo al soggetto di divenire altro dal voyeur che abita passivamente il palazzo di cristallo in cui va costantemente in scena lo spettacolo del capitale. Lo spettatore, allora, implicato in un vedere che tende ad un toccare, partecipa nella durata a ciò che vede sottraendosi alla fascinazione di quel regime delle immagini trasparenti che, sincronizzandolo ad esse, lo piega quotidianamente ad una risposta meramente senso-motoria.

Lo sguardo degli “ultimi uomini” è totalmente sincronizzato ai trasparenti assiomi dell’ultimo capitalismo. Il cinema critico-espressivo permette un’operazione mentale capace di tenere a distanza quella rappresentazione organicistica del mondo che inibisce l’emergenza soggettiva di uno “spettatore indisciplinato”. Nella macchina mediatica dello spettacolo l’immagine vive di una trasparenza autoreferenziale finalizzata a garantire nel consumo delle immagini una soddisfazione surrettizia che – sostiene Comolli citando le ricerche di Bernard Stiegler – sortisce l’effetto, solo apparentemente paradossale, di distruggere il desiderio incidendo così radicalmente, e negativamente, sulla stessa vitalità di un capitalismo, che di quel desiderio ha fatto notoriamente il proprio motore. Al contrario nel cinema critico-espressivo – Comolli cita a titolo di esempio Joseph von Sternberg e il suo “erede” Abbas Kiarostami – l’immagine viene risvegliata dallo spettatore, che non si soggettiva più nella trasparenza del tutto visto e nell’ illusione del vedere tutto, ma subisce una parziale frustrazione della pulsione scopica che gli consente di situarsi entro un fertile gioco «tra mostrato e nascosto, trasparenza e fuori campo», un gioco capace di favorire l’approdo del pensiero a nuove, possibili forme di soggettivazione. [11]

Al centro delle riflessioni di Comolli sui dispositivi contemporanei del vedere e sulla «trasparenza che nasconde sta dunque la questione filosofica del soggetto, puntualmente ripresa nella rivista da Mario Perniola. L’autore de Il sex appeal dell’inorganico sottolinea come la trasparenza risponda perfettamente «all’esigenza fondamentale della società dello spettacolo», la quale, rendendo impossibile la percezione degli opposti (su cui si fonda l’arte di disputarsi a colpi di retorica l’egemonia sull’opinione pubblica), punta ad indebolire le abilità logiche e a «sprofondare il pubblico in uno stato di confusione e di ignoranza, adatto a fargli credere tutto e il contrario di tutto, per esempio a togliergli la capacità di distinguere la guerra dalla pace». [12] Ad affermarsi è il neo-oscurantismo del dumbing down (un termine approssimativamente traducibile con iper-abbrutimento, super-instupidimento), uno scenario dominato dall’istituzionalizzazione di dispositivi della comunicazione trasparente che permettono di affermare tutto e il contrario di tutto costruendo progressivamente forme di soggettività consensuali la cui esperienza culturale appare radicalmente deteriorata fin nelle sue stesse condizioni di possibilità. Si tratta di forme di vita – sostiene Perniola citando un passaggio simmeliano de La morte del sole di Manlio Sgalambro – concepite all’insegna della trasparenza di quell’equivalente universale generale – il denaro – che «riassume tutti i valori e li veicola tutti: il valore della vita è ormai il valore del denaro». [13]

Tra panopticon e sinopticon: per un cinema della zona d’ombra

Tuttavia per il cinema sarebbe esiziale una deriva verso il naturalismo, verso il recupero di un’autenticità e di un’immediatezza che nel tempo presente si danno solo come prodotti di consumo attraverso i quali la stessa industria culturale – anche quella dell’ultima generazione, del web, di You Tube e dei blog – estende il proprio raggio di azione. Il cinema invece è e resta macchina della trasparenza, ma di una «trasparenza che nasconde» e si oppone ai dispositivi ottici di controllo dell’immaginario che operano attraverso il divertimento, l’intrattenimento e la massiccia messa in circolo di immagini compensatorie finalizzate a produrre e recuperare i sogni e i desideri dei più.

Lo sostiene Roberto De Gaetano – il direttore della rivista – in uno stimolante contributo nel quale analizza la convivenza di disciplina e spettacolo nella direttrice vincente del potere moderno. Già nel dispositivo utopico-carcerario che fungerà da modello ad ogni istituzione della società disciplinare – il panopticon di Bentham -, si trova infatti inscritto un momento spettacolare integrato a quello della sorveglianza. Se infatti il sorvegliante, collocato nella torre centrale che sovrasta la prigione, può scrutare la vita dei sorvegliati in ogni momento mentre questi non lo vedono – dal momento che, come scrive Bentham, il loro sguardo è inibito da «persiane alte fino a dove lo sguardo dei prigionieri può arrivare dalle celle» – ciò non significa che essi non vedano nulla. [14] Il loro sguardo è infatti costantemente direzionato verso la messa in scena di un potere che – contrariamente all’esibizione magnificente del sovrano nell’età classica – si dà celandosi; i loro occhi convergono verso «un vuoto che alimenta l’immaginazione di un pieno», e che garantisce così la continuità del controllo tramite l’interiorizzazione del principio di autorità. [15] La struttura architettonica panottica assicura che l’immaginazione dei sorvegliati, il cui sguardo è ammaliato dallo spettacolo di un potere vuoto, si figuri la presenza del sorvegliante e senta il suo sguardo che tutto vede anche quando egli è assente. È in quello spettacolo di un potere impersonale e sottratto alla vista che i molti sorvegliati non cessano di vedere ragioni per obbedire e per condizionare i propri comportamenti. Come sottolinea De Gaetano richiamando il recente libro di Roberto Escobar La libertà negli occhi, è proprio quella macchina spettacolare sinottica, in cui molti guardano uno, a sostenere il buon funzionamento del dispositivo panottico della sorveglianza, in cui uno guarda molti.

Disciplina e spettacolo, dunque, convivono fin dalle prime problematizzazioni del potere moderno. In seguito la stessa logica sinottico-spettacolare sarà all’opera dapprima nel dispositivo cinematografico (dove l’icona del divo verrà glorificata dalle masse) e nella fantasmagoria della merce (in cui riprenderà vita l’aura defunta dell’opera d’arte), poi nella moda, nella televisione, nell’informazione e nell’intera gamma dei linguaggi espressivi di un’industria culturale capace di attrarre lo sguardo affascinato dei governati grazie alla potenza ammaliante e compensativa di un nuovo “sacro”: un paradossale sacro-profano destinato ad abitare, come una ricorrente “ritualità urbana”, lo spazio disincantato della società moderna. [16] Sarà quel sacro a generare, nello spettacolo, un effetto di auratica trasparenza in cui i governati rinverranno la possibilità di soddisfare i propri desideri, i propri piaceri; e sarà quel sacro a garantire il controllo delle menti e dell’immaginario delle moltitudini: proprio mentre esse ricercavano – in quello stesso sacro – vie di fuga al grigiore quotidiano, al disciplinamento attivato dalle istituzioni dell’ordine borghese (la fabbrica, la famiglia, la caserma, la prigione…).

Le cose si complicano quando nell’ultimo stadio della società dello spettacolo – quello esemplificato dalle immagini-controllo dei reality show – lo sguardo delle masse degli spettatori-consumatori non converge più verso i soli divi dello star-system, ma viene orientato da coloro che – pur essendo perfettamente anonimi – possono a turno ricoprire la posizione della star e calcare lo «spazio glorioso della scena» per poi presto ritornare nello «spazio spettatoriale della sala». [17] Come se tutti ormai non mirassero che a trovare parte attiva in quell’immane dispositivo spettacolare di governo dei viventi il cui efficace funzionamento dipende, in ultima analisi, dal modo in cui il gioco della libertà dei singoli viene regolato biopoliticamente, e “democraticamente”, dai nuovi linguaggi mediatici della trasparenza. Nel “tutto visibile” riprodotto incessantemente da una rinnovata industria culturale il soggetto si impiega attivamente nel certosino lavoro tramite cui produce il proprio auto-assoggettamento.

Se è vero, allora, che fin dagli inizi – come osserva De Gaetano – il cinema incarna sia le istanze della disciplina e del controllo, sia quelle dell’evasione e della libertà, è in queste ultime che esso può reperire le armi per combattere l’ «incessante autocelebrazione del mercato» che Luca Venzi vede all’opera nella trasparenza mediatica, «l’illuminazione generale che domina su tutto» per dirla con Comolli. [18] Il cinema può infatti contribuire a spingere lo sguardo dei molti – o almeno di quei pochi tra i molti disponibili a sottrarsi alla macchina mediale dell’ipervisibilità -nella direzione di ciò che sta oltre l’immagine e che «tra le immagini non si vede»; [19] può valorizzare la potenza del buio, entrando in commercio con l’invisibile nell’intento di produrre una nuova macchina della visibilità, una visibilità non totalizzante e aliena da ogni utopia della trasparenza senza fine.

In altri termini, si tratta di produrre un regime della visibilità in cui trovi spazio una declinazione della trasparenza disponibile ad accogliere la zona d’ombra del reale, come accade in modo solo apparentemente paradossale proprio nel neorealismo di Ladri di biciclette di De Sica e Zavattini, analizzato nella rivista dal saggio di Daniela Angelucci. In quella «storia di una camminata per le strade di Roma di un padre e di suo figlio», come Bazin ebbe a definire il film, prende sì forma la volontà di afferrare l’ “integrale della realtà”, ma quel reale è denso di incidenti, elementi casuali, piccoli eventi marginali che lo abitano intimamente [20] Incarnazione pura di un “cinema della realtà”, Ladri di biciclette mette in scena una visibilità in cui la trasparenza non soffoca l’accidente e lascia spazio all’imprevedibile, al nuovo: «l’operaio può ritrovare la sua bicicletta, ma non è detto che la ritrovi. Scrive Bazin che De Sica non fa propaganda: non vuole «dimostrarci che l’operaio non può ritrovare la sua bicicletta […], si limita a mostrarci che l’operaio può non ritrovare la sua bicicletta» [21].

All’onnivisibilità di una trasparenza mediatica che addomestica il reale e i soggetti che lo abitano, il cinema può resistere restituendo – nel segno di un’altra soggettivazione possibile – tutta la complessa ambiguità di un reale che non si esaurisce mai in ciò che di esso si offre immediatamente alla vista. È dalla sua zona d’ombra che può infatti emergere la più temibile opzione a disposizione dei governati: la scelta dell’indocilità riflessa.

Note

[1] Bruno Broberti (a cura di), La trasparenza che nasconde. Conversazione con Jean Louis Comolli, in “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”, Trasparenza, n. 3 (2007), pp. 9-10.

[2] Idem, p. 12.

[3] Idem, pp. 14-15.

[4] Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, a cura di Gianluca Bonaiuti, traduzione di Silvia Rodeschini, Meltemi, Roma 2007, p. 42.

[5] Ibidem.

[6] Idem, p. 43

[7] Marcello Walter Bruno, Cinema e vetro, in “Fata Morgana”, 3, cit., p. 36.

[8] Ibidem.

[9] Bruno Roberti, La trasparenza che nasconde, cit., p. 17.

[10] Idem, p. 18.

[11] Idem, p. 24.

[12] Mario Perniola, Trasparenza e dumbing down, in “Fata Morgana”, 3, cit., p. 29.

[13] Idem, p. 34.

[14] Jeremy Bentham, Panopticon, Venezia, Marsilio, 2002, p. 36, cit. in Roberto De Gaetano, Lo spettacolo della trasparenza, in “Fata Morgana”, 3, cit.

[15] Roberto De Gaetano, Lo spettacolo della trasparenza, cit., p. 106.

[15] Idem, p. 108.

[16] Idem, p. 109.

[17] Luca Venzi, Sans soleil. Su un’immagine e sul suo avvenire, in “Fata Morgana”, 3, cit., p. 114.

[18] André Bazin, Che cos’è il cinema, Milano, Garzanti, 2000, p. 314, cit., in Daniela Angelucci, E se l’operaio ritrovasse la sua bicicletta?, in “Fata Morgana”, 3, cit.

[19] Ibidem, p. 115.

[20] Daniela Angelucci, E se l’operaio ritrovasse la sua bicicletta?, cit., p. 62

[21] André Bazin, Che cos’è il cinema, cit., p. 307-308.