philosophy and social criticism

Il riproporsi dell’Ursprung. Una nota su accumulazione originaria, sussunzione formale e reale

di Adelino Zanini

Tratto da Aa. Vv., millepiani n. 37/38, Usciti dal futuro, Eterotopia, Milano, 2011 e ripreso da Sinistra in rete

wall_street_19sept20081. Quando si ragioni sui problemi connessi alla finanziarizzazione dei modelli sociali, in termini storici, il pensiero corre immediatamente all’interpretazione datane da Rudolf Hilferding, il quale sosteneva che nel capitale finanziario si risolveva e si superava la distinzione tra capitale bancario e capitale produttivo, in modo tale che la forma più universale e assurda (begriffloseste) – così egli si esprimeva – del capitale, ossia il capitale monetario (D-D’), veniva ad assumere il suo senso più specifico.[3]

E tuttavia, nella storia del pensiero economico, possiamo trovare strumenti interpretativi non meno interessanti già in Marx (in cui è presente appunto la definizione di capitale monetario a cui Hilferding si riferiva) e, soprattutto, in Schumpeter e Keynes (trascurando, un po’ colpevolmente, altri autori meno celebri ma non meno significativi, quali Knut Wicksell, Gunnar Myrdall, Frank Hahn). Strumenti che non sono necessariamente “segnati”, per così dire, dal dibattito epocale sull’Imperialismus (e sulle forme ad esso connesse: trust, cartelli, etc.) e sono perciò tali da poter essere richiamati senza soverchie preoccupazioni storiografiche.

Ad esempio, la centralità del mercato monetario in Schumpeter, sostenuta dalla funzione di liquidità creata ex novo, a prescindere dal risparmio, spiega non solo come sia possibile il concretizzarsi dei processi innovativi, ma anche perché in una particolare fase del ciclo economico si assista di norma alla cosiddetta “liquidazione abnorme”, che fa seguito alla creazione di liquidità in eccesso sotto forma di moneta creditizia e quindi indirizzata anche a fini speculativi. Quanto a Keynes, non è solo o tanto l’invocata e celeberrima eutanasia del rentier a stigmatizzare il ruolo del settore finanziario, quanto piuttosto l’impatto delle aspettative – e dell’incertezza conseguente – sulla dinamica del ciclo del credito. Si ricordi il cosiddetto paradosso benthamita indicato dall’economista inglese: ovvero il fatto che proprio gli operatori professionali sul mercato finanziario fossero i primi e maggiori artefici delle crisi speculative, dato il loro muoversi nel breve periodo al fine di anticipare il mutamento nello stato della fiducia.

Come Simmel aveva osservato pochi decenni prima, con la Geldform è lo spirito della metropoli ad imporsi. In essa “c’è un gran numero di professioni che non presentano nessuna forma oggettiva e nessun carattere deciso di attività”. Molte sono le esistenze indeterminate che popolano la metropoli e tutte “vivono delle più diverse e casuali opportunità di guadagnare qualcosa”. “Il denaro, l’elemento assolutamente mobile, è per esse il punto fermo, intorno al quale la loro attività oscilla con una latitudine sconfinata”. Si tratta di “personalità incerte, che non è possibile afferrare bene e ‘collocare’, perché la mobilità e la poliedricità impediscono loro di fissarsi, per così dire, in una situazione qualsiasi”.[2]

Tra Marx, Schumpeter e Keynes c’è un tratto omogeneo molto significativo: ovvero, l’impossibilità di fatto di separare il settore reale da quello finanziario e, allo stesso tempo – questo vale soprattutto per Schumpeter e Keynes, in Marx il discorso è certamente più complesso, dato il ruolo assegnato alla coniazione di metalli preziosi-, la conseguente difficoltà di ridurre l’autonomia “critica” del settore finanziario. A dispetto di tutta la retorica neoclassica circa la neutralità della moneta, possiamo sintetizzare le tesi qui richiamate facendo riferimento alla teorizzazione del cosiddetto circuito monetario, secondo cui, sin dall’inizio, il capitale si presenta in primo luogo come un anticipo costituito da moneta creditizia.[3] Non è che i beni reali, materiali e non, siano irrilevanti; tuttavia, è comunque sempre e solo la loro espressione monetaria a permettere l’avvio del ciclo.

2. Quando però ci si interroghi sui fenomeni che rendono possibile l’esistenza di quell’“anticipo” che costituisce ciò che Marx definisce denaro come denaro, si devono registrare differenze profonde. In breve, solo in Marx troviamo quella che è, ad un tempo, una trattazione storica e teorica intesa a definire ciò che altrimenti sembrerebbe essere un fenomeno creato dal nulla. Si tratta, come noto, dell’arcano della cosiddetta accumulazione “originaria” (ursprüngliche). “Abbiamo visto – si legge in apertura del celeberrimo capitolo 24 di Das Kapital – come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale. Ma l’accumulazione del capitale presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione ‘originaria’ (‘previous accumulation’ in A. Smith) precedente l’accumulazione capitalistica: un’accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico”.[4]

Quale sia il definirsi di questo Ausgangspunkt è presto detto: “La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella”.[5] L’arcano è perciò svelato: espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre, legislazione sanguinaria contro gli espropriati e connessa riduzione dei salari, creazione di un mercato interno per il capitale industriale, etc. Una lunga evoluzione, caratterizzata dalla violenza generatrice la separazione (Scheidungsprozeß) del lavoratore dalla proprietà delle condizioni oggettive del processo lavorativo. Insomma, l’accumulazione originaria altro non sarebbe che la preistoria del capitale (die Vorgeschichte des Kapitals), il cui tratto violento renderebbe ragione dell’esistenza di liberi lavoratori, nel duplice significato di non-schiavi e di privi (perché liberi dai) dei mezzi di produzione.

Ora, a prescindere dall’annosa questione storiografica circa la transizione dal feudalesimo al capitalismo,[6] negli ultimi decenni si è tornati a considerare con grande attenzione il tema dell’accumulazione originaria, mettendone in discussione la dinamica causale e l’unicità spazio-temporale. Werner Bonefeld, ad esempio, ha inteso concettualizzare il significato assiologico della cosiddetta accumulazione originaria, al fine di “sostenere che essa non si limita a descrivere il periodo di transizione che ha condotto all’emergere del capitalismo”.[7] Questo significa che è il processo di accumulazione capitalistico en général a dar conto del significato storico dell’accumulazione originaria, non viceversa. “Il feudalesimo – ha scritto al proposito Massimiliano Tomba – è una delle situazioni storiche (historischer Zustand) che portano alla messa in forma di lavoratori liberi. Non un passaggio obbligato, ma una situazione storica”.[8] In altri termini, l’accumulazione originaria non sarebbe una forma iniziale, generante un nesso storico-causale espressosi una sola volta, “ma una modalità sempre presente di estorsione di plusvalore”. Come già si leggeva più di venti anni or sono nell’editoriale di un ormai celebre numero monografico della rivista americana “Midnight Notes”, significativamente intitolato The New Enclosures, per la tradizione marxista le enclosures erano state un processo espressosi una sola volta ed esauritosi agli albori del capitalismo. Viceversa, esse rappresentano una risposta ricorrente rispetto ai processi accumulativi.[9]

Com’è evidente, siamo a fronte di un’intenzione di ricerca che ha quale suo obiettivo non tanto una più corretta reinterpretazione delle pagine marxiane, forse, quanto la necessità di dar conto di un processo capitalistico multipolare, all’interno del quale convivono stadi di sviluppo molto differenti (l’importanza dell’elemento geografico va perciò ripensata in toto rispetto alla percezione ottocentesca marxiana) e in cui, soprattutto, nell’ambito di uno stesso stadio di sviluppo, si danno tipologie estremamente differenti di lavoro subordinato, tanto che – come ha scritto Yann Moulier Boutang – “[i]l lavoro salariato libero è una specie particolare di lavoro dipendente”, giacché “(…) nei laboratori più avanzati, nell’Unione Europea, in Giappone e negli Stati Uniti, si assiste a un formidabile superamento del lavoro salariato tradizionale, a nuove forme di lavoro dipendente che miscelano stranamente una libertà senza precedenti e nuove forme di assoggettamento alle variabili del mercato”.[10]

Insomma, il problema non è più quello dell’origine (primitiva o meno che fosse) dell’accumulazione, bensì quello dei regimi di accumulazione e delle stratificazioni porose caratterizzanti ogni odierno regime d’accumulazione. Una generalizzazione indistinta non sarebbe però utile al fine di spiegare fenomeni che presentano differenze considerevoli, quando si consideri, com’è necessario, che l’accumulazione generata dai nuovi processi di espropriazione in realtà presuppone comunque come già avvenuta la trasformazione del denaro in capitale. Ad esempio, quando il Big Pharma sottrae ai contadini del sud del mondo pratiche, conoscenze millenarie, territori, imponendo loro la catena killer delle sementi geneticamente modificate, genera di certo new enclosures, mettendo a profitto processi che producono in loco una spoliazione “originaria”, mentre i profitti sono immediatamente finanziarizzati. E ciò, lungi dal riproporre l’idea classica di imperialismo e dei suoi correlati, fa sì che l’elemento spaziale (quello che in Marx era geograficamente omogeneo) non sia più tale non a dispetto, ma proprio a causa del suo essere globale. Il fatto che esistano asimmetrie spaziali (“asymmetric exchange relations”) e che su di esse possa fiorire quella che David Harvey ha definito “accumulation by dispossesion” è quindi indubbio. Da ciò non mi sembra però derivare la possibilità di riconiare un’idea efficace di new imperialism. [11] Ed è perciò che la rendita finanziaria complica non poco la comprensione di quanto avviene a latitudini diverse, in termini di soggettività sfruttate, allo stesso tempo inchiodate al suolo e spinte altrove (perché già libere e ri-liberate). Tuttavia, anche in simili casi, il punto di partenza non è il denaro als Geldvermögen, ma il capitale nella sua già matura espressione finanziarizzata, in quanto tale, certamente, del tutto aliena allo schema causale centro/periferia.

Si muove cioè dal denaro come capitale finanziario, potendo assumere come dato, a questo punto, quello che per Marx era invece da spiegarsi storicamente, secondo nessi causali piuttosto definiti, al fine di dar conto però non solo della genesi del capitalismo, ma anche della formazione della classe operaia. Perché qui stava il punto: qui, dove la lettura a mio avviso più interessante di Marx, quella operaista, colse il problema, non potendo proprio fare a meno di generalizzare l’eccezione europea – segnatamente inglese, prima, e statunitense, poi – per poter muovere dai “punti alti” dello sviluppo capitalistico. Detto in breve, la questione della classe operaia era riducibile all’esistenza di liberi lavoratori solo e in quanto essi erano potentialiter “classe operaia”.[12] Che da ciò potesse derivare un uso “concettuale” della categoria storica di classe e una sottovalutazione delle lotte di classe senza classe – per dirla con Edward P. Thompson – [13] è, naturalmente, questione di non poco conto.

3. Diciamo allora, in modo più esplicito, che il problema non è più quello stesso problema, e che pertanto del concetto di “origine” si può e si deve fare un diverso uso, svincolandolo dalla condizionatezza storica che in Marx indubbiamente c’è, quantunque egli stesso attestasse – come Sandro Mezzadra ricorda – [14] che l’ineluttabilità storica (die “historische Unvermeidlichkeit”) di quanto descritto in relazione al caso inglese nel capitolo 24 di Das Kapital non costituiva affatto una legge ferrea, una filosofia della storia, ed era perciò espressamente (ausdrücklich) limitato ai paesi dell’Europa occidentale.[15]

L’uso diverso da farsi è in relazione ai differenti regimi d’accumulazione e alla loro porosità. Per spiegare i quali torna utile riferirsi non solo, per così dire, al riproporsi dell’origine, ma anche al dispiegarsi in essa di nuovi rapporti tra sussunzione formale e sussunzione reale. Qui, un ruolo centrale è svolto dalla categoria di “popolazione”, in senso foucaultiano. Diversi regimi di accumulazione sono oggi più che mai vincolati all’“uso” della popolazione: variabile sempre più strategica, grazie anche alla sua costantemente accresciuta mobilità, imposta o scelta che sia. La quale caratterizza certamente, in primo luogo, i flussi migratori e la loro autonomia rispetto alle determinanti oggettive,[16] ma connota anche, ormai ampiamente, tutte le forme di lavoro. Una ragione in più a sostegno della tesi secondo cui gli odierni regimi d’accumulazione sarebbero caratterizzati da ricorrenti fenomeni accumulativi “originari”, dal riaprirsi costante, nello sviluppo capitalistico, del rapporto tra storia e “preistoria” del capitale.[17]

La distinzione tra sussunzione formale e reale, dapprima connessa ad una successione spazio-temporale, dev’essere perciò interamente ripensata. Nel lessico marxiano, come noto, per sussunzione formale s’intende, a un tempo, la sottomissione di un modo di lavoro già sviluppato prima che il rapporto capitalistico sorga, ma anche la forma specifica che questa sottomissione assume nel momento in cui lo stesso processo si svolga sotto la direzione del capitalista e a seguito dell’imporsi di un rapporto puramente monetario tra acquirenti e venditori di forza lavoro. Sulla base di un processo lavorativo dato, frutto della tradizione, la sussunzione formale del lavoro è quindi caratterizzata dal progressivo imporsi della separazione tra proprietà e lavoro, sancita da uno scambio formalmente ineccepibile, ma caratterizzata da un rapporto di coercizione (Zwangsverhältnis) inteso soltanto a spremere pluslavoro prolungando la giornata lavorativa oltre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro. Si tratta però di un rapporto solo nominalmente capitalistico: non tanto (o non solo) perché tale prolungamento è soggetto a limiti fisici, quanto perché la scala della produzione non è ancora tale da determinare l’incremento e da richiedere l’impiego “delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine […]”.[18]

Tale impiego caratterizza invece la sussunzione reale, il cui fine è la produzione per la produzione, senza alcun vincolo nei riguardi di prestabilite e predeterminate limitazioni dei bisogni. Decisivo appare qui l’impatto tecnologico, che modifica la natura del processo lavorativo e le sue reali condizioni, rendendo possibile lo sfruttamento del fondamentale apporto costituito dalla massificazione dei processi lavorativi. Perciò, “con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza lavoro sempre più socialmente combinata […]”.[19] La sussunzione reale si fonda infatti sull’operare di un lavoratore collettivo (Gesamtarbeiter), di una forza lavoro collettiva, la cui produttività è incrementata dallo specifico apporto tecnologico e dal proprio cooperare come Gesamtarbeitsvermögen. Il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro è rivoluzionato.

Si tenga però conto che questo giudizio marxiano,[20] pur implicando di certo un passaggio storico epocalmente determinato, non esclude, come lo stesso Marx afferma nei Grundrisse, l’esistenza simultanea di sussunzione formale e sussunzione reale; un’esistenza che si qualifica attraverso la dialettica tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo. “La tendenza del capitale è, naturalmente, di collegare il plusvalore assoluto con quello relativo; ossia: massima estensione della giornata lavorativa col massimo numero di giornate lavorative simultanee, simultaneamente con la riduzione al minimo, da una parte, del tempo di lavoro necessario, dall’altra, del numero di operai necessari. […] Una conseguenza necessaria di tale esigenza è la massima moltiplicazione possibile del valore d’uso del lavoro – ovvero delle branche di produzione – talché la produzione del capitale, se per un verso produce costantemente e necessariamente lo sviluppo dell’intensità della forza produttiva del lavoro, per l’altro verso produce costantemente e necessariamente l’illimitata molteplicità delle branche di lavoro, vale a dire la ricchezza universale, di contenuto e di forma, della produzione, sottomettendo ad essa tutti gli aspetti della natura”.[21]

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, ci parve di poter rapportare a questa dialettica i processi di scomposizione del ciclo fordista,[22] sottolineando quello che ci sembrava essere fondamentale. Ossia, che tale dialettica riguardava già allora, e a maggior ragione dopo la “rivoluzione” degli anni ’80, la compresenza di differenti regimi d’accumulazione. In altri termini, nel momento in cui il ciclo produttivo caratterizzato da una spiccata integrazione verticale fu ridisegnato da un lato dai processi di robotizzazione e dall’altro da quella primitiva forma di outsourcing rappresentata dal decentramento, fu subito chiaro come quest’ultimo sintetizzasse diverse forme produttive: alcune, più tradizionali, a basso valore aggiunto, altre, grazie alla cosiddetta rivoluzione microelettronica, ad alto valore aggiunto. Quello che però era costante era la scomposizione politica della forza lavoro e la possibilità di coniugare, in forme diverse, plusvalore assoluto e plusvalore relativo, nell’ambito di uno stesso segmento produttivo, anche a seguito della dualizzazione del mercato del lavoro facilitata dall’entrata in esso di forza lavoro migrante.[23]

Era dunque chiaro già allora come la dialettica tra sussunzione formale e reale riguardasse anche i paesi “centrali”. Oggi, a maggior ragione, li riguarda ancor più, giacché è riduttiva e francamente erronea l’idea che tale dialettica possa essere semplicisticamente ricondotta a quelle che Mezzadra ha efficacemente definito “le coordinate spaziali del capitalismo contemporaneo”.[24] Durata e dis-locazione non sono perciò assoggettabili ad una netta separazione di tempi di lavoro e di spazi di produzione. Massima produttività e allungamento della giornata lavorativa possono convivere e di norma convivono. Questo perché è la funzione di capitale fisso ad essere stata ampiamente riformulata: non solo a seguito della già menzionata revisione dei criteri di integrazione verticale e di scala di produzione, ma anche con il trasferimento al capitale variabile di alcune delle funzioni precipue del capitale fisso. Quando si parla di knowledge economy si parla anche di ciò.[25]

Bene, assodato che le coordinate spaziali del capitalismo contemporaneo, ancorché elastiche e spesso ingannevoli, non possono di certo essere per questo trascurate o, peggio, ignorate – tra Detroit e Kinshasa le differenze sono molte, e molto contano –, quanto ai regimi d’accumulazione è difficile poter definire un’area geografica in cui sia strettamente prevalente la sussunzione formale ed una in cui viga esclusivamente la sussunzione reale. E, soprattutto, non si tratta di piccole quote o di marginali interferenze. A livello internazionale, l’impiego di contratti di sub-fornitura e delle reti di produzione permettono e richiedono di coniugare estrazione di plusvalore assoluto e relativo, frazionando in senso verticale e orizzontale le fasi dei cicli produttivi e avvalendosi di segmenti di manodopera sparsi, i cui livelli salariali e la cui intensità di lavoro sono differenti.[26]

Mobilità e flessibilità nei settori ad alto tasso di labour-saving, non solo convivono, ma spesso sono connesse con nuove forme di schiavitù;[27] del pari, molte forme di lavoro formalmente libero, in alcuni settori (dall’edilizia alla ristorazione, dalla cura delle persone alla logistica “porta a porta”), richiamano di sovente forme di dipendenza di tipo personale, soggette al ricatto dell’espulsione e quindi a condizioni in cui ad essere in gioco non è più solo un salario di sopravvivenza, ma l’esistenza in quanto tale. La categoria foucaultiana di “cura” entra in gioco qui, ma singolarmente rovesciata.

In questo contesto, appare dunque fuori luogo assumere che la sussunzione reale sia una funzione descrittiva pressoché esclusiva di un rapporto storico già consolidato tra spazi geografici determinati e la raggiunta maturità del capitale fisso. Di qui l’opportunità di fare riferimento non al processo di accumulazione, ma ai regimi d’accumulazione, al cui interno è perfettamente contemplabile il ritorno di forme di accumulazione originaria.

Per non cadere in un equivoco nient’affatto marginale, è però necessario avere presente che, quale che sia la lettura che si vuol dare dell’esistenza di questo ritorno o della mai avvenuta scomparsa dell’accumulazione originaria, il capitalismo, per così dire, già c’è ed è ubiquitario. Che non si dia in forma classica e pura in nessun luogo determinato, che lo schema centro/periferia dica poco o nulla, che i regimi d’accumulazione siano porosi …, tutto ciò è vero; ma non può togliere il fatto che gli attuali processi di finanziarizzazione muovono non dal denaro als Geldvermögen, ma dal denaro als Finanzkapital. Anzi, lo esige. Insomma, l’arcano è già stato svelato.

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tysm literary review, Vol 6, No. 10,  December 2013

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ISSN:2037-0857

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Note

1.              R. Hilferding, Il capitale finanziario, tr. it. di V. Sermonti e S. Vertone, prefazione di G. Pietranera, Feltrinelli, Milano 1976, p. 309.

2.              G. Simmel, Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Utet, Torino 1984, pp. 612-613.

3.              Vedi A. Graziani, The Monetary Theory of Production, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

4.              K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, a cura di D. Cantimori, Editori riuniti, Roma 1972, I, 3, p. 171.

5.              Ivi, p. 173.

6.              Cfr., in sintesi, i testi compresi in La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Savelli, Roma 1975. Sarebbero altresì da considerare le differenze tra quanto Marx scrive nelle Formen (Quaderno V dei Grundrisse) e il cap. 24 di Das Kapital (su cui insistono, ad esempio, i contributi di L. Basso e, in particolare, di M. Tomba, entrambi in La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, a cura di D. Sacchetto e M. Tomba, ombre corte, Verona 2008). Del resto, per quanto qui interessa, ovvero, la separazione (Trennung) del lavoro dalle sue condizioni oggettive e il carattere monetario della formazione originaria del capitale come Geldvermögen (K. Marx, Lineamenti della critica dell’economia politica, tr. it. a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1974, I, p. 137), nulla muta.

7.              W. Bonefeld, “Accumulazione primitiva e accumulazione capitalistica: categorie economiche e costituzione sociale”, in La lunga accumulazione originaria, cit., p. 89.

8.              M. Tomba, “Forme di produzione, accumulazione, schiavitù moderna”, in La lunga accumulazione originaria, cit., p. 110.

9.              Introduction to The New Enclosures, “Midnight Notes”, 1990, 10, p. 1.

10.           Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, tr. it. di I. Bussoni, L. Campagnano e S. Bonura, manifestolibri, Roma 2002, pp. 19 e 12.

11.           Cfr. D. Harvey, The New Imperialism, Oxford University Press, New York 2003, pp. 137 ss. Per una critica, relativa, in particolare, allo “schizophrenic dualism of economic and political logics” caratterizzante l’analisi di Harvey, si veda W.I. Robinson, Beyond the Theory of Imperialism: Global Capitalism and the Transnational State, “Societies Without Borders”, 2007, 2, pp. 5-26.

12.           Mi sia consentito rimandare al mio On the ‘Philosophical Foundations’ of Italian Workerism: A Conceptual Approach, “Historical Materialism”, 2010, 18, 4.

13.           E.P. Thompson, Società patrizia cultura plebea, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981, pp. 356-360.

14.           S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, ombre corte, Verona 2008, p. 135.

15.           Il riferimento è alla celebre lettera da Marx indirizzata a Vera I. Sassulitsch l’8 marzo 1881 (MEW, Dietz Verlag, Berlin 1962, Bd 19, p. 243). Più in generale, si veda K. Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo post-coloniale: il caso indiano, tr. it. di A. Longo, Firenze, La Casa Usher 2010. Molto importante, anche per i riferimenti bibliografici, il saggio introduttivo di S. Mezzadra e G. Roggero.

16.           S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, ombre corte, Verona 2006, pp. 184 ss.

17.           Id., La condizione postcoloniale, cit., p. 148.

18.           K. Marx, Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, a cura di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 57.

19.           Ivi, p. 74.

20.           Ivi, p. 55.

21.           K. Marx, Lineamenti della critica dell’economia politica, cit., II, pp. 489-490.

22.           Ne scrissi, tra l’altro, su di un numero di “Sapere” del 1981.

23.           F. Gambino, Migranti nella tempesta. Avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio, ombre corte, Verona 2003, p. 27.

24.           S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 149.

25.           A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma 2007. Ma cfr. anche A. Zanini, U. Fadini (a cura di), Lessico postfordista, Feltrinelli, Milano 2001.

26.           Parafraso, generalizzandolo, D. Sacchetto, “Mobilità della forza lavoro e del capitale. Alcune note a partire dalle esperienze dell’Europa orientale”, in La lunga accumulazione originaria, cit., p. 151.

27.           K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, tr. it. di M. Nadotti, Feltrinelli, Milano 2000.