Giorni di grazia di Arthur Ashe
Giulia Zoppi
Nel 2014 TYSM ha pubblicato un articolo IL PADRE DI AGASSI, I SILENZI DI FEDERER E LE DEPRESSIONI DI MCENROE per rendere omaggio a tre grandissimi del tennis i cui libri erano usciti in Italia a poca distanza l’uno dall’altro.
Affiancati da fior di scrittori Agassi e McEnroe riuscirono a realizzare per lettori appassionati di tennis e non, testimonianze sincere e mai banali delle loro carriere sportive e delle loro vite, con risultati a dir poco sorprendenti, se li accostiamo alle biografie di atleti di successo.
Nel caso dell’opera di Agassi soprattutto, Open – La mia storia (Einaudi editore), ci siamo trovati al cospetto di un’autobiografia di indubbio valore, scritta grazie al sostanziale aiuto del premio Pulitzer J. R. Moehringer, che ha meritato di svettare nelle classifiche dei libri più venduti per molte settimane tra Stati Uniti e Europa.
Open è risultato essere non solo un’opera unica per sensibilità e profondità dei temi trattati, ma anche e soprattutto, il racconto controverso e avventuroso di un tennista diventato campione suo malgrado (il libro non ha potuto raccogliere critiche negative, solo qualche dubbio sulla sua sincerità, come ebbe a scrivere il decano dei commentatori del tennis, nonché ex tennista e scrittore, Gianni Clerici, in più di un’occasione), che rivela al mondo tutte le sue debolezze, senza censure.
Non altrettanto grande è stato il successo raccolto da John McEnroe con Non puoi dire sul serio (Piemme editore) che, grazie all’aiuto di James Kaplan, ha confezionato un testo prezioso ma non altrettanto incisivo, mentre su Federer abbiamo dato conto del libello scritto dal filosofo francese André Scala (I silenzi di Federer, ObarraO edizioni) che vira il discorso sul gesto tennistico dell’atleta più dotato di tutti i tempi Roger Federer, tralasciando il dato biografico.
A distanza di tre anni, nel maggio scorso, Add edizioni pubblica in italiano l’autobiografia di Arthur Ashe, Giorni di grazia (Days of Grace, A memoir), uscita negli USA nel 1993 con il contributo del noto scrittore Arnold Rampersad e l’impatto è forte, siamo al cospetto di un testo importante e denso, pieno di riflessioni e domande, dubbi e sofferenze e non possiamo accostarlo ai precedenti, il racconto è troppo articolato e complesso per assurgere al ruolo di testimonianza biografica di un tennista di successo; sarebbe giusto considerarlo invece una lunga meditazione sul senso della vita, della morte e della malattia, prodotto da un atleta di colore che ha attraversato il tennis lasciando impronte indelebili nel mondo, grazie alla sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua cultura e il suo profondo senso della giustizia, conquistandosi uno spazio nella memoria di tutti, tennisti e non tennisti, uomini bianchi o colorati, malati o sani.
Arthur Ashe nacque a Richmond, Virginia, nel 1943 da una famiglia di origini modeste e perse la madre quando ancora era un bambino. Il padre lo crebbe con un’educazione assai rigorosa, nondimeno le ristrettezze economiche non gli impedirono di laurearsi in economia e finanza né gli impedirono di avvicinarsi allo sport con profitto.
Allora più di oggi in quella parte di America la disparità dei diritti tra bianchi e neri era ancora molto marcata così, quando Arthur volle cominciare a giocare a tennis nel campo comunale, fu emarginato, perché nessun nero prima di allora aveva osato praticare lo sport che più di ogni altro era appannaggio della borghesia bianca.
Tuttavia e qui sta la prima grande differenza tra quest’opera e le due che ho citato, prima di imbatterci sulla carriera tennistica di Arthur, dobbiamo scorrere quasi un centinaio di pagine perché Ashe apre il suo lungo racconto affrontando temi a lui più urgenti: l’educazione impartitagli dal padre amatissimo e saggio (che si risposò poco dopo la morte della madre, dandogli la possibilità di avere una figura materna vicina anche nell’infanzia), il forte senso del dovere che da essa derivava e la necessità di sentirsi un individuo responsabile e consapevole del proprio ruolo nel mondo.
Arthur è cresciuto con l’ossessione di essere investito dal peso della sua condizione di uomo nero e di successo, laddove, specie a quei tempi, era molto raro raggiungere fama e agiatezza tra gli afroamericani.
Nella sua continua ricerca di perfezione (spesso si è sentito rimproverare di essere un uomo impassibile, freddo e poco empatico) è consapevole del vuoto lasciato dalla madre, sulla quale l’atleta non smette di interrogarsi lungo tutto il suo memoir, cercando l’aiuto di uno psicologo durante una grave depressione, prima di dover affrontare il lungo percorso psicoterapeutico intrapreso a causa delle sue malattie.
Ed è la malattia l’altro tema su cui poggia questo libro commovente e profondo; argomento che segna la sua breve esistenza (nacque nel ’43, morì 50 anni dopo) ricca di eventi spettacolari quanto di incidenti e dolore, al punto da condizionare il suo pensiero, le sue scelte, l’impegno politico a favore delle minoranze e in stretta connessione con chi soffre.
Molti membri della famiglia di Arthur sono colpiti da malattie cardiovascolari congenite, così accade anche a lui, già noto tennista, di dover affrontare un intervento urgente e delicato al cuore, rischiando la vita: siamo nel 1979 e non sarà il solo episodio, purtroppo.
In questo modo, facendo scorrere il nastro delle vittorie atletiche conseguite sul campo (tre vittorie al torneo del Grande Slam tra il 1968 al 1975, tra cui un memorabile Wimbledon con una finale combattutissima vs Jimmy Connors) e le malattie, che Ashe srotola la sua esistenza ricca di successi e gratificazioni, di pari passo coi i deficit fisici che lo obbligano a prendere consapevolezza della sua vulnerabilità.
Colpisce la modestia con la quale Ashe descrive le sue prodezze sul campo: il racconto non indulge sui meriti, quanto piuttosto si dirige verso la ricerca di un senso delle cose e le maniere con cui egli stesso sceglie di intervenire per migliorarle e questo ci pone di fronte alle sue innumerevoli imprese personali nelle vesti di attivista, pensatore, imprenditore e genitore (la presenza della bellissima moglie Jeanne e della figlia Camera è costante in ogni piega del libro, tanto quanto la figura paterna e quella fantasmatica della madre defunta, con il conseguente corredo di sensi di colpa).
L’impegno e la dedizione durante gli anni dove ricoprì l’incarico di Capitano di Coppa Davis, subito dopo il ritiro dall’agonismo per motivi di salute (1979), coprono una parte importante e testimoniano un attaccamento al ruolo che non ha pari, tanto da sembrare la sua ultima missione.
Nell’estate del 1980 infatti, Arthur Ashe è al National Tennis Center di Flushing Meadows, sta guardando gli US Open, quando Marvin Richmond, in procinto di diventare presidente della USTA, lo ferma: Tony Trabert, il capitano con cui Ashe ha giocato il suo ultimo incontro da giocatore in Davis, vuole lasciare l’incarico, non ne può più del comportamento dei giocatori.
Ashe comincia nel 1981, un anno che segna uno spartiacque essenziale nella storia della manifestazione: nasce infatti il World Group. Per la sua prima volta da capitano c’è di nuovo il Messico, lo stesso avversario del suo debutto da giocatore. A Carlsbad, Ashe convoca John McEnroe e Roscoe Tanner come singolaristi, e dopo l’infortunio di Stan Smith sceglie per il doppio Marty Riessen e Sherwood Stewart.
La squadra americana che Trabert abbandona per stanchezza, diventa da allora la missione principale di Arthur che ne sopporta inquietudini e indisciplina, diventando un gruppo che resterà negli annali dello sport.
Il tennista nero che oggi compare al 21esimo posto dei migliori al mondo, lo stesso capace di vincere il torneo di Wimbledon contro l’imbattibile (ed insopportabile) Connors, unico tra i giocatori di colore ad arrivare a tanto, è stato un esempio di rettitudine e serietà anche e soprattutto quando era a capo di una nazionale di solisti di indubbio talento (McEnroe in primis) che nessuno sapeva gestire, dopo aver dato esempi di correttezza e gentilezza sul campo.
Del resto l’eleganza di Ashe è rimasta memorabile tanto quanto la sua impassibilità.
Indimenticabili i suoi incontri con il romeno Ilie Nastase, tennista talentuoso quanto bizzarro al limite del maleducato (vederlo giocare è uno spasso) che con Ashe ebbe a discutere più di una volta (durante un incontro in notturna Nastase si rivolse allo statunitense con un: “vieni fuori Arthur che non riesco a vederti…” alludendo al suo carnato scuro) ma con cui strinse un’amicizia duratura e sincera.
L’uomo impegnato nel mantenere in campo una condotta irreprensibile (basti leggere i commenti di McEnroe e di Noah, per farsene un’idea, tra i tanti) , riuscì a diventare un uomo costantemente in contatto con la Storia del suo tempo.
Non aderì mai al radicalismo di Malcom X preferendogli la moderazione di Martin Luther King, evitando di prendere posizioni troppo nette sulla questione razziale (l’aneddoto della bambola con cui la figlia Camera gioca durante un incontro di tennis sugli spalti, è molto significativo nel rimarcare il suo rifiuto di dividere il mondo tra bianchi e neri buoni e cattivi), ma diventò amico e collaboratore di Nelson Mandela con cui lavorò in favore delle minoranze emarginate (cosa che attuò anche in proprio: attraverso la sua Fondazione si prese cura dei malati, dei poveri, degli orfani, dei bambini che volevano riscattare la loro solitudine con lo sport).
Ogni suo aspetto della vita venne investito dall’impegno, sia che fosse qualcosa che inerisse al mondo del tennis, che della finanza, conosciuta grazie agli studi universitari.
Tra gli aspetti meravigliosi di una vita piena di amore e gratificazione (senza dimenticare le ombre delle sue depressioni), come si diceva, si frappose molto presto una cardiopatia congenita che dopo una trasfusione gli “regalò” l’HIV, una malattia che allora mieteva vittime spaventando il mondo intero.
Ashe venne costretto a raccontare in diretta radiofonica di essere malato e di aver contratto il virus in sala operatoria, per evitare che la stampa scandalistica lo distruggesse con pettegolezzi e illazioni.
Nemmeno gli amici, le persone più vicine poterono proteggerlo dal rumore scomposto che la notizia suscitò tra i media e le persone.
Poco tempo dopo morì con la stessa grazia con la quale era vissuto. Le sue ultime parole alla figlia sono quanto di più bello un uomo possa dedicare a qualcuno di prezioso. Indimenticabili.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
issn: 2037-0857
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