Politiche del desiderio: riprendere l’intuizione del ‘68
di Amador Fernández-Savater
traduzione di Elisa Fiorucci
Su che cosa il ‘68 può oggi far riflettere noi, che vogliamo una trasformazione sostanziale dell’ordine delle cose? Deve sicuramente avere a che fare con un’intuizione apparsa allora con la quale è urgente riprendere contatto, se vogliamo uscire dalle posizioni reattive nei confronti del neoliberalismo e tornare a prendere l’iniziativa.
L’intuizione del ‘68
Qual è il significato del ‘68 all’interno della storia rivoluzionaria del XX secolo? Potremmo dire che è l’inizio di una crisi e di una decadenza: il declino dell’ipotesi rivoluzionaria attraverso la presa di potere egemonica, a partire dalla rivoluzione russa dell’ottobre 1917.
Il ’68 non è stato solo il maggio francese, ma un’onda lunga nel tempo e nello spazio che ha attraversato Stati Uniti, Messico, Cecoslovacchia, Italia, Spagna, etc. In nessuno di questi paesi si è trattato di prendere il potere attraverso un partito d’avanguardia. Emerge quindi un’intuizione: non si cambia la società (solo) impossessandosi del potere, e nemmeno dei soli mezzi di produzione.
Che cosa è successo in Unione Sovietica con il 1917? Senza dubbio si è prodotto un grande cambiamento nel potere politico. Senza dubbio si è prodotto un grande cambiamento nei rapporti di produzione: scomparsa del mercato, della proprietà privata dei mezzi di produzione, della concorrenza, etc. Tuttavia si sono riprodotte le logiche più profonde del capitalismo burocratico: la divisione rigida fra dirigenti ed esecutori, la concentrazione verticale del potere di decisione, il culto della “scienza” degli esperti, la taylorizzazione del lavoro, la crescita e la produttività come fine ultimo, etc.
Chiamo quella emersa con il ’68 un’“intuizione” perché non si tratta di una formulazione chiara già presente a quel tempo, ma di qualcosa di confuso e balbuziente, con molte versioni differenti. C’è anche chi critica l’URSS all’interno della cornice concettuale marxista-leninista, chi pensa che la presa del potere deve accompagnarsi a una rivoluzione culturale (è il messaggio di Mao o del Che), etc. Ma un sentimento generale dichiara: non basta una rivoluzione politica. Allora?
Economia politica, economia libidinale
Gli anni Settanta in Francia sono anni di altissima produttività filosofica. L’intellettuale argentino León Rozitchner diceva: “se il popolo non lotta, la filosofia non pensa”. Come a dire, la filosofia non è una bolla che funziona in un circuito chiuso, ma si alimenta degli impulsi e dei problemi che vengono posti nella società. Se il popolo lotta, la filosofia protende al massimo il suo impegno. E questo è esattamente ciò che avviene negli anni Settanta in Francia.
Propongo di immaginare questa produttività filosofica come animata dai vari tentativi di farsi carico, sul piano delle idee, dell’intuizione del ‘68. Negli anni ’70 si dispiegano complesse elaborazioni sul potere, sul sapere, sulla sessualità, sull’immaginario, sullo scambio simbolico, etc. Si tratta di una ri-concettualizzazione generale che fuoriesce dal marxismo come quadro teorico esclusivo o privilegiato. E della quale continuiamo a nutrirci ancora oggi.
Uno dei pensatori che prova a farsi filosoficamente carico dell’intuizione del ‘68 è Jean-François Lyotard, che negli anni Cinquanta-Sessanta aveva militato nel gruppo autonomista Socialisme ou barbarie e che ha vissuto la tempesta del ‘68 nel suo epicentro: l’università di Nanterre e il Movimento 22 Marzo.
Oggi la figura di Lyotard viene inchiodata alla nozione di postmodernità, ma nella sua vita fece molti altri percorsi teorici. Negli anni Settanta, per esempio, Sviluppò una complessa filosofia intorno al concetto di desiderio, che entrò in dialogo con quella più conosciuta di Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Che forma conferisce Lyotard all’intuizione del ‘68? Riassumo l’approccio in una sola frase e poi passo a spiegarla: Lyotard dice “non c’è economia politica senza economia libidinale”. Cosa significa? Molto sinteticamente: non c’è modo di produzione se non all’interno di una determinata posizione del desiderio: nel contesto, cioè, di un determinato tipo di attitudine, di motivazioni e di disposizione nei confronti degli altri, del mondo, della vita in generale.
Non c’è macro senza micro. I rivoluzionari che provarono a introdurre dei cambiamenti sociali radicali senza prendere in considerazione la questione della soggettività fallirono miseramente. Vennero cambiati i contenuti senza toccare le forme e si riprodusse in questo modo il male del dominio, che non sta solo fuori ma anche dentro noi stessi.
Trasformazione della posizione del desiderio
Occorre quindi immaginare la trasformazione sociale – dice Lyotard – come una trasformazione radicale della posizione del desiderio.
Perché “posizione”? Perché non è solo la sostituzione dell’oggetto del desiderio con un altro, ma un cambiamento della modalità stessa di desiderare, del luogo stesso dal quale lo si fa: non solo di ciò che si desidera, ma di come si desidera ciò che si desidera. Non solo altri politici, ma un’altra relazione con il politico, non solo un altro lavoro, ma un’altra relazione col lavoro, etc.
Si desiderano altre cose, si desidera diversamente. La trasformazione di cui parliamo implica una redistribuzione radicale di ciò che è desiderabile e di ciò che è indesiderabile, di ciò che conta e di ciò che non conta, di ciò che ci fa vibrare e di ciò che ci lascia indifferenti. A livello di corpo e di pelle, non a livello meramente ideologico.
In breve, il cambiamento sociale secondo Lyotard è un problema di metamorfosi. Una trasformazione nella configurazione stessa dell’umano. La rottura di determinate cuciture antropologiche, la produzione di un’umanità differente e di altre possibilità di esistenza: un cambiamento di pelle.
Una metamorfosi che sarebbe sbagliato vedere come un processo felice, lineare o necessario, perché è allegra e dolorosa al tempo stesso, è attraversata da crampi o contraddizioni, da alti e bassi e deviazioni, da salti in avanti e regressioni, traboccante di sporcizia, sangue, fango, impurità… è una trasformazione desiderata, fatta propria, ma anche temuta e rifiutata. A volte entrambe le cose, nella stessa persona, contemporaneamente.
1968: un regime regolatore dell’energia
Qual è la posizione dominante del desiderio negli anni ’60, nell’epoca del fordismo e della società industriale? Lyotard parla di un regime “regolatore” delle energie che tende a “normalizzare” i corpi e a produrre solo intensità medie, mediocri.
Nell’ambito del lavoro la posizione dominante è il taylorismo secondo il quale “l’operaio deve essere un mix di orangotango e robot”, come diceva lo stesso Taylor. Definizione standardizzata dei compiti, esclusione di qualsiasi forma di partecipazione o implicazione affettiva nel processo di lavoro, sottomissione assoluta a una gerarchia o struttura piramidale. Il capitalismo degli anni Sessanta è altamente repressivo e disciplinare: esercita un potere autoritario che fissa i corpi a luoghi e funzioni. Nella fabbrica, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella scuola, nell’ospedale, nell’esercito, etc.
Nell’ambito del consumo la posizione dominante è il trionfo assoluto del valore di scambio: qualsiasi oggetto può entrare e circolare nel sistema se è suscettibile di essere scambiato con il denaro. Niente è sacro, non esiste niente di “intoccabile”, tutto può essere profanato: vendere, comprare, commercializzare. Il denaro è l’intermediario assoluto, che distrugge tutti gli altri: i vecchi codici pre-capitalistici che un tempo reggevano la produzione e circolazione dei beni. In fondo, non ci sono cose, persone, attività, saperi o credenze: esistono solo diverse maschere del valore di scambio.
Il “tipo umano” che si produce e riproduce, quindi, è l’homo oeconomicus che risparmia, calcola, negozia, difende i suoi interessi, lavora; è docile, sobrio, serio, moderato. Non si tratta di un essere “senza desiderio”, ma con un desiderio obbediente e stabilito dall’astrazione.
La deriva del desiderio nel 1968
Come comprendere, da qui, i movimenti degli anni Sessanta? Non sono movimenti sociali, localizzati e ristretti, con le loro rivendicazioni e richieste, quanto piuttosto derive del desiderio. Movimenti nelle placche tettoniche della società.
Da una parte, essi suppongono un gigantesco ritiro del desiderio che svuota di linfa vitale i canali e gli oggetti istituiti: la famiglia tradizionale, il lavoro in fabbrica, l’individualismo serializzato, l’autorità, il denaro, il consumo e la proprietà, la relazione di coppia come proprietà dell’altro, etc. Erosione gigantesca e invisibile: il tipo umano proposto dal capitalismo burocratico non viene semplicemente criticato e denunciato, ma viene disertato in massa attraverso una dislocazione dell’investimento libidinale.
Non si vuole più ciò che si voleva prima. Il desiderio non si lascia organizzare mediante le istituzioni stabilite, il potere disciplinare non è capace di produrre e riprodurre un determinato tipo di corpo, i giovani non si riconoscono né si comportano come homo oeconomicus e il sistema si ammala.
Dall’altra parte, il desiderio si dispone in maniera differente, inizia a funzionare diversamente, investe altre cose e altri “valori”: l’autonomia contro la disciplina e l’autorità; l’intensificazione delle passioni contro il vincolo strumentale col mondo; la comunità contro l’individualismo ermetico degli atomi sociali. Le esperienze politiche e contro-culturali degli anni Sessanta danno forma a una vera a propria società parallela composta di spazi e tentativi comunitari, reti d’appoggio e vincoli passionali. Il desiderio sociale fugge verso un “fuori”.
Cancellare l’intuizione del ‘68
Come vengono letti oggi gli anni Sessanta? Dal punto di vista della destra, sono il “capro espiatorio” verso il quale dirigere le paure contemporanee: quindi gli anni Sessanta – e non le politiche di precarizzazione e insicurezza della vita – finiscono per essere identificati come i veri colpevoli della decadenza di tutti i valori, del disorientamento generalizzato e del “caos” della società attuale.
Ma i movimenti degli anni Sessanta sono oggetto di critica anche dall’altra parte. In una curiosa complicità con la destra, vediamo oggi critici di sinistra inveire contro questi movimenti. Ci viene detto che il ‘68 è stato, in fondo, un movimento liberal che ha accelerato l’emergenza o il consolidamento della società del consumo e della “modernità”, frammentando la classe operaia, promuovendo l’individualismo, rifiutando tutte le tradizioni e tutte le discipline in nome del narcisismo, etc.
Queste analisi, in linea generale, non hanno né capo né coda. Ma ciò che conta è leggere il sotto-testo delle critiche: occorre abbandonare le politiche del desiderio e tornare alle forme della politica classica. Il Partito e la conquista (elettorale) del potere, la rappresentazione del popolo identificato come vittima, l’identità o la morale come molle e leve, la sinistra, etc. L’unico orizzonte possibile della politica di emancipazione sarebbe, secondo questi critici, la difesa dello Stato sociale in fase di smantellamento.
Si pretende così di cancellare l’intuizione del ’68.
La mia idea va proprio all’opposto. La forza attuale del neoliberalismo non si deve solo alla sua capacità di ingannare e reprimere, ma al fatto di sapersi presentare come evidente e desiderabile. É necessario leggere la controrivoluzione neoliberale degli ultimi decenni non solo come attacco alla composizione operaia e al salario, bensì come contrattacco in termini di desiderio.
Negli anni Sessanta i movimenti procedevano con decisione e il potere li perseguitava, acchiappando i giovani che fuggivano e riconsegnandoli a casa, etc. Oggi avviene l’esatto opposto. Pensiamo ad Airbnb (un esempio fra mille): il neoliberalismo prende l’iniziativa e la politica di sinistra si limita (nei migliori dei casi) a “regolare”. Il capitale percepisce le correnti sociali profonde, capta il desiderio, sa tradurre tutte le energie in denaro, inventa e crea. E nel frattempo la sinistra aspira solamente a imporre questa o quella tassa sui flussi di mercato.
Se oggi le forze di emancipazione sono così deboli è proprio perché hanno perso il contatto con l’intuizione del ‘68. Non si interrogano più sulle forme di vita desiderabili e indesiderabili, ma si limitano alle opinioni critiche, alle politiche comunicative, alla resistenza in cui niente resiste.
Prendere di nuovo l’iniziativa può consistere solo nel porre di nuovo la questione sul piano del desiderio: che tipo di esseri umani siamo e vogliamo essere? Ma occorre farlo in condizioni diverse, perché oggi viviamo in un’altra economia del desiderio, molto diversa da quella degli anni Sessanta.
2018: un regime predatorio dell’energia
Qual’è oggi la posizione dominante del desiderio? Lyotard, in alcune pagine visionare del 1974, parla di un regime “predatorio” delle energie.
Il “predatore” non è semplicemente il vampiro che succhia il sangue. Si tratta di una figura diversa, più complessa e interessante: il predatore esalta le energie (per rubarle), saccheggia le energie sovraeccitate.
Questo è in forte sintonia con il capitalismo finanziario, le politiche estrattive, la speculazione deregolamentata, la penetrazione del capitale fra gli strati dell’essere (umano e non umano) una volta incontaminati, il saccheggio e la violenza maschilista come forme di conquista: con tutto quello, cioè, che va sotto il nome di neoliberalismo.
E il desiderio? Il neoliberalismo non solo reprime o disciplina, ma intensifica le energie: mobilita, agita, stimola. Il “tipo umano” che produce e riproduce non è più l’homo oeconomicus bensì quello che potremmo chiamare il “massimizzatore”, un individuo animato dal desiderio del sempre-di-più. Il massimizzatore non cerca il risparmio, la moderazione, la sobrietà o la serietà, ma il superamento indefinito di se stesso: formazione continua, massima flessibilità, valutazione costante, competenza permanente, etc.
È il “lupo” di Wall Street: squilibrato, sempre dopato, dissipatore, predatore dei contatti sessuali, sovraccelerato, eccessivo, impaziente, spudorato. Sempre sballato: il tipo di intensità che ci propone il neoliberalismo è lo sballo.
Dalla noia alla depressione
Il neoliberalismo non dice no (“non puoi”), dice sì (puoi e devi). Non ci obbliga come un potere esterno, ma interno e volontario. Non reprime il godimento (o non posiziona il godimento nella repressione), ma lo suscita. É una modulazione del desiderio dalla quale appare molto più difficile scappare.
Ma succede anche qualcos’altro: nel farsi carico del desiderio il neoliberalismo lo maltratta e provoca un’enorme sofferenza. Occorre allora partire da questo malessere, da questa sofferenza. Che cosa intendo dire?
L’antico regime regolatore reprimeva, disciplinava e fissava rigidamente i corpi a luoghi e funzioni, producendo noia di massa.
La noia come vita priva di passione, come minimizzazione del godimento, è stata una tra le spinte maggiori della contestazione rivoluzionaria degli anni Sessanta. «Noi non vogliamo vivere in un mondo nel quale la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia», scriveva il situazionista Raoul Vaneigem in una pagina del suo Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations che è diventata parola d’ordine popolare[1].
Il regime predatorio mobilita, costringe ed esige, producendo così quello che colloquialmente chiamiamo oppressione. Un mix di ansia e stress per il sovraccarico di compiti, la mobilitazione ininterrotta delle energie mentali, lo stimolo costante dell’attenzione, l’illimitatezza del tempo di lavoro confuso con la vita.
Dalla noia all’oppressione, dalla repressione della vita (incanalata, incasellata, ingessata) alla mobilitazione della vita (sovraccaricata, sovraeccitata, sovra-stimolata). Dall’oppressione alla “stanchezza”, un esaurimento di cui si parla in mille conversazioni quotidiane e che non sarebbe quello del lavoratore trasformato in “orangotango e robot”, ma la fatica mentale causata da stress, angoscia e colpa per “non essere sempre all’altezza”. E dalla fatica alla depressione: il crollo radicale delle energie, la perdita di motivazione, l’altra faccia del regime predatorio.
Il desiderio oggi è mortificato e frammentato. Mortificato, perché è costantemente sotto pressione da richieste esterne. Frammentato, perché è catturato nell’interruzione e nella discontinuità costante, nella segmentazione e nella corrosione di qualsiasi durata.
La deriva del desiderio nel 2018
Alla fine del suo L’uomo a una dimensione – celebre saggio di critica della società degli anni Sessanta – Herbert Marcuse riprende la celebre citazione di Walter Benjamin: “è solo grazie ai disperati che ci è data la speranza” “Solo grazie ai senza speranza ci è data una speranza”[2].
Continua ad essere cosi. La speranza sta nel malessere generato dall’imperativo alla prestazione, tra chi dice “non ne posso più”, “non voglio più”.
Gli angosciati, gli asfissiati, gli oppressi, gli esauriti, gli abbattuti, i sommersi, gli stressati, gli umiliati, gli annientati: sono quelle e quelli che oggi possono (possiamo) lottare contro la posizione dominante del desiderio: il sempre-di-più.
Ma cosa può creare disturbo oggi? Come possiamo sottrarci all’imperativo della prestazione? Come disertare la figura del “massimizzatore”? È necessario un nuovo attacco all’ “economia libidinale” del neoliberalismo, alla sua organizzazione del desiderio. È necessario un certo blackout delle nostre energie desideranti.
Questa “lotta” non è necessariamente epica, eroica e collettiva. Non bisogna sottovalutare la defezione goccia a goccia e i blackout personali. David Le Breton ha studiato, per esempio, sottili modalità di oltraggio all’imperativo dell’“essere se stessi”, dell’essere permanentemente connessi e disponibili, dell’essere sempre all’altezza. Parla del “silenzio” e del “camminare”. Ci propone di vederli come forme di resistenza politica. Come fughe attive dal rumore della connessione permanente, come modi per riprendere contatto non con l’Io, ma con il proprio desiderio; come esercizi di attenzione verso la propria forza (ritmo, corpo, respirazione); come godimento non mercificato, che non viene “capitalizzato”, che non è mezzo per arrivare a un fine.
Ci sono anche istanti di blackout collettivo. Alcuni frammenti della società si mettono a vibrare insieme. A volte rivendicano qualcosa, altre volte no; a volte portano avanti un discorso elaborato, altre volte no: l’importante è che si organizzino in modo da rimettere in questione la forma di vita neoliberale. Si vive in maniera diversa, si afferra il gusto di un esistere differente. Per un certo lasso di tempo si pone fine all’angoscia, all’ansia, alla corsa folle del criceto. Le energie vengono travasate dal lavoro e dal consumo al sostegno di momenti di vita collettiva. Non vogliamo più stare in un posto diverso da quello in cui siamo. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Concentrazione massima dell’energia. Sfinimento, ma sfinimento felice. Molte patologie della vita quotidiana si volatilizzano e il desiderio si rigenera.
Vivere con tempi morti e godere degli ostacoli
Nel ‘68 sui muri di Parigi qualcuno ha scritto: “vivere senza tempi morti e godere senza ostacoli”. Era uno slogan conto la noia. Tuttavia oggi non possiamo più opporre semplicemente la vita alla morte, la liberazione alla repressione, il nuovo al vecchio, l’intensità alla noia, ciò che sta fuori a ciò che sta dentro. I blackout sono proprio i tempi morti, in quanto ci fermiamo a pensare e recuperiamo il contatto col nostro desiderio come centro di gravità. Non si tratta di rompere – coi padri, con il lavoro, con il contesto -, ma di interrompere la logica predatoria della relazione con tutto. Non si tratta di uscire dalla società verso “zone liberate”, bensì di spingere la trasformazione lì dove stiamo. Non si tratta di vivere nello sballo permanente, ma di affermare altre intensità (più sottili, con alti e bassi) e un’altra relazione con queste.
Si possono cambiare le cose nella sostanza solo iniziando a vivere in un altro modo. Questa è l’intuizione del ‘68. Oggi sono solo cambiate le condizioni e i termini della sfida.
Riferimenti bibliografici:
Jean-François Lyotard, Derivas a partir de Marx y Freud, Editorial Fundamentos, 1975.
Id., Dispositivos pulsionales, Editorial Fundamentos, 1981.
Id., Economía libidinal, Siglo XXI, 1991.
Christian Laval y Pierre Dardot, La nueva razón del mundo, Gedisa, 2016.
Note
[1] R. Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle nuove generazioni (1967), Roma, Castelvecchi, 2006, p. 28 (ndt).
[2] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Torino, Einaudi, 1967, p. 365 (ndt).
FONTE: EL DIARIO, 15 maggio 2018
[cite]
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philosophy and social criticism
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