philosophy and social criticism

Sensazioni estreme e ordalie senza fine. «Il giocatore» dal descrivere diagnostico al comprendere psicopatologico

Paolo Francesco Peloso

Il gioco d’azzardo estremo

Il gioco d’azzardo rappresenta un comportamento umano le cui origini si perdono nella preistoria, se ne parla nel mondo classico e nella modernità già il medico e giocatore d’azzardo Girolamo Cardano (1501-1576) scrisse un volume sul tema, Liber de ludo aleae, pubblicato postumo nel 1663. Nel 1657 un altro matematico, Christiaan Huygens (1629-1695) si pose un problema che tormenterà sempre Dostoëvskij, quello della possibilità di riportare l’azzardo, cioè il caso, a leggi razionali[1] nel V capitolo del suo libro, intitolato De ratiociniis in ludo aleae. Già nel 1561, poi, tale Justus Pascasius aveva dedicato un manuale al trattamento dei giocatori problematici, Alea. De curanda ludendi in pecuniam cupiditate[2].

A metà del XIX secolo, quindi negli stessi anni nei quali scriveva Dostoëvskij, nel 1841 un medico divulgatore francese, Jean Baptiste Félix Descuret  (1795-1871), nel suo libro La medicina delle passioni definisce la passione del gioco come: «un bisogno abituale di arrischiare i propri beni alle probabilità della sorte, o ad incerte combinazioni nelle quali l’abilità ha maggiore o minore parte (…). V’hanno giochi di puro azzardo, e altri in cui l’azzardo va unito all’abilità»[3]. Non è male come definizione. Ancora per Descuret, al giocatore: «è necessaria un’agitazione febbrile e continua, che non trova se non dinanzi a’ mucchi d’oro offerti alla sua cupidigia; quella è la sua felicità, il suo idolo (…); ora spogliato ora arricchito dalla fortuna, ogni giorno va a bruciare a quest’idolo nuovo incenso, nuove speranze»[4]. Vedremo come anche queste parole siano calzanti coi personaggi dei quali ci andremo ad occupare. Lo stesso Descuret ci offre poi un prezioso ritratto del giocatore:

«Guarda quel maniaco seduto immobile a un tavolo da giuoco (…). Il volto è pallido, lo sguardo fiso e impaziente; alla trista severità dei suoi lineamenti lo credereste uno dei favolosi giudici infernali; la bocca, quasi sempre muto, proferisce soltanto a lunghi intervalli qualche parola tronca. Tratto tratto gira gli occhi d’un modo strano, e la sua fisonomia esprime allora un non so che di terribile: dispetto, furore, gioia maligna mista a inquietudine vi appariscono a vicenda; ma perché si vergognerebbe di lasciar trapelare i sentimenti che prova, riassume tosto la sua apparente impassibilità. Da ben dodici ore ha alternativamente vinto e perduto quanto basterebbe all’agiatezza di venti famiglie; lo crederesti perciò sazio delle commozioni di cui si pasce? Evvia: la fortuna ora favorevole, ora contraria, la febbre che gli accende sangue e cervello, l’ora inoltrata della notte, l’ora specialmente, l’ora maledetta in cui si chiude la bisca, tutto contribuisce ad eccitare a più doppi la passione che lo divora, e che tiene sospeso ogni altro suo bisogno. In quel momento più che mai, il cuore, l’anima, i sensi, tutto il suo essere è nel giuoco: se la casa scossa minacciasse ruina, se il fulmine gli scrosciasse a’ piedi, non si distrarrebbe; il suono dell’oro soltanto può commuoverlo. Eppure, ben diverso in ciò dall’avaro, del quale ha tutta la cupidigia, il giuocatore non ammassa mai ricchezze: si anima alla vista di quel metallo solo perché lo riguarda come un mezzo di soddisfare la sua passione; quando n’è in possesso, l’espone di nuovo al medesimo rischio, poiché i doni del caso né giovano, né danno contentezza: non sono per lui che l’emblema de’ mali di cui va in cerca e che sfida. Giocare è il suo scopo, il suo elemento, la sua vita: null’altro vede al di là. Che gl’ importano la sua ruina, l’onore, i più sacri doveri , purché giuochi ? Se gli rimane un so scudo per tentare la sorte, non si perde d’animo; l’oro esposto innanzi a’ suoi occhi gli dice ancora: spera»[5].

Recentemente, Paola de Sanctis Ricciardone ha rintracciato un opuscolo di impronta lombrosiana del 1898 nel quale il medico lombardo Gerolamo Caramanna distingue tra i giocatori tre tipologie: occasionali, professionali e per passione. Quest’ultimo tipo è dominato da una voluttà speciale che lo porta a giocare «per irresistibile tendenza, per la voluttà della lotta, per la gioia delle emozioni necessarie». E’ da notare che in esso, con un limite che ritroviamo anche negli odierni sistemi classificatori, la passione per il gioco è considerata una forza a sé (passione, impulso), e non è invece considerata lo specchio, la maschera rivelatrice di altri abissi dell’uomo con «i suoi tramestii emozionali e con il mare di significati magici, provvidenziali o persecutori, che attribuisce alle sequenze aleatorie che i giochi d’azzardo, infaticabili, producono senza sosta»[6].

Ma non è certo solo la letteratura scientifica, matematico-filosofica o medica ad essersi occupata del gioco d’azzardo. E in un volume recente, infatti, Casarino e Selis[7] hanno rintracciato riferimenti al tema nella narrativa, citando e commentato brani che vanno dai classici del mondo greco-latino a questi ultimi anni[8].

Non tutto il gioco d’azzardo, va da sé, può essere considerato “patologico” o, come mi sembrerebbe più opportuno dire con espressione meno gravata di implicazioni, perché non dà per scontata l’opportunità di una lettura medica del problema, “estremo”, “eccessivo” o “disfunzionale. Esso diventa tale soltanto quando comincia a mettere a rischio il funzionamento complessivo, l’uso del tempo e soprattutto il patrimonio di un soggetto, e numerosi criteri sono stati proposti per distinguere il gioco d’azzardo in sé dalla sua degenerazione in comportamento disfunzionale.

Come è assai noto anche a chi ne conosca solo superficialmente la biografia, Dostoëvskij fu per una decina d’anni un accanito giocatore di roulette, e questa abitudine assunse nel suo caso aspetti preoccupanti. Disponiamo di testimonianze delle sue emozioni della roulette nell’Epistolario, quando è lui stesso a parlarne, nonché nelle memorie che scrissero le due giovani donne in compagnia delle quali effettuò alcuni dei suoi viaggi in Europa, Apollinaria Suslova prima e Anna Smitkina poi.

A questo fenomeno, che conosceva dunque molto bene in prima persona, dedicò nel 1866 il racconto Il giocatore. Romanzo. Dalle memorie di un giovanotto. Esso occupa un posto importante nella vita dell’autore e nel suo sforzo di comprensione della mente dell’uomo (innanzitutto della propria) e delle diverse forme che l’esistenza umana può assumere. Del resto questo romanzo breve, che ha per oggetto il gioco, nacque esso stesso dal gioco; Dostoëvskij fu infatti costretto a ultimarlo velocemente per il contratto capestro al quale l’editore Stellovski lo aveva obbligato per la sua situazione debitoria che nasceva, certo non solo, ma anche dal gioco.

Ancora, l’interesse e l’attualità del romanzo nascono dall’esattezza con la quale rappresenta l’ambiente delle sale di roulette e la mente delle varie tipologie di giocatore, attraverso soprattutto i due personaggi del protagonista e della bizzarra nonna che irrompe, a un certo punto, sulla scena. Su questo punto mi sono concentrato quando, nel 2005, mi sono occupato la prima volta del romanzo, applicando ai due personaggi i criteri diagnostici della classificazione internazionale dell’OMS, ICD 10, del DSM IV dell’American Psychiatric Association e di una moderna rating scale, la SOGS (South Oaks Gambling Screen) di Lesieur e Blume (1987)[9]. Ho scoperto solo successivamente che allo stesso esercizio si era già dedicato, nel 1996, Luigi Cancrini, utilizzando l’edizione precedente del DSM, il III TR, per introdurre un’edizione italiana del romanzo[10].

In quell’occasione, avevo presentato il problema dell’inquadramento nosografico del Gioco d’azzardo patologico – allora classificato nella categoria Disturbi delle abitudini e degli impulsi – tra i disturbi mentali. Esso può essere infatti accostato per affinità agli altri disturbi tra i quali era allora compreso – si tratta indubbiamente di un’abitudine nella quale l’impulsività ha senz’altro una parte – ma per altri aspetti sembra avvicinarsi anche ai fenomeni di carattere ossessivo e compulsivo (per la forza dell’impulso a giocare, la tendenza alla ritualità, l’importanza dei numeri, una certa indubbia propensione a scivolare nel pensiero magico e nella superstizione[11], una certa dimensione egodistonica che può certo essere presente). Altri autori ancora – e Cancrini tra questi – tendevano invece già allora a valorizzare gli aspetti di affinità con i Disturbi da dipendenza, per l’importanza del craving e per la dipendenza che il giocatore può sviluppare verso il gioco; l’American Psychiatric Association nella redazione della nuova edizione della sua classificazione dei disturbi mentali, il DSM 5 (2013)[12], è andata in questa direzione, cambiando la denominazione del disturbo in quella di Disturbo da gioco d’azzardo, dove l’elemento patologico non sembra più tanto nelle caratteristiche che il gioco assume, ma nelle conseguenze che esso ha, in quanto tale, per un determinato soggetto – e spostandolo appunto nella categoria dei Disturbi da dipendenza.

Nel nostro ragionamento, quindi, vedremo se le modalità di gioco dello stesso Dostoëvskij, e poi di Aleksej e la nonna, corrispondono a quelle stabilite dal DSM 5, ma non ci fermeremo a questo.

L’interesse del breve romanzo peraltro va ben oltre la rappresentazione dei meccanismi del gioco, perché esso anticipa alcuni temi importanti che saranno meglio successivamente; tra di essi il rapporto tra amore e violenza, che ritorna in particolare ne L’idiota (1869); quello tra denaro, potere e autostima, ne L’adolescente (1875); quello tra funzionamento mentale e responsabilità penale, ne I fratelli Karamazov (1880)[13]. Ma, per fermarci alla questione del gioco, c’è altro ancora.

La vicenda del giocatore Aleksej mette infatti anche in guardia, mi pare, dai rischi della soluzione proposta dall’odierna nosografia ma non solo, che fa del Disturbo da gioco d’azzardo un disturbo a sé stante,  allorché la relazione tra il giovane e la roulette sia letta in parallelo con quella del suo rapporto con Polina, la donna della quale è innamorato. La conclusione cui ci pare di poter giungere è allora che, almeno nel caso del nostro protagonista, non è tanto utile – e potrebbe anzi essere riduttivo e fuorviante – considerare il Disturbo da gioco d’azzardo (dal quale indubbiamente a partire da un certo momento è affetto) come una malattia in se stessa[14]. Perché esso costituisce piuttosto uno dei sintomi di una organizzazione mentale e relazionale complessiva che investe anche altre aree della sua esperienza umana – il modo in cui ama per esempio – e deve perciò ad essa essere riportato per poter essere affrontato con quel “comprendere genetico” che rappresenta uno degli strumenti fondamentali della nostra psicopatologia[15]     

Ma procediamo con ordine; senza addentrarci in questa occasione nelle ipotesi esplicative di carattere neurobiologico, psicosociale o psicoanalitico[16], sulle quali ci siamo soffermati nel 2005 e che non mi pare abbiano conosciuto, da allora, significativi progressi[17].

 

Fëdor Dostoëvskij, biografia del giocatore

Dostoëvskij scoprì la roulette in occasione del suo secondo viaggio in Europa; essa era infatti vietata allora in Russia, ed era consentita nelle stazioni termali tedesche Hombourg, Baden-Baden e Wiesbaden (le ultime due sulla strada tra la Russia e il cuore d’Europa), dove si era trasferito dalla Francia Louis Blanc, il fondatore della prima roulette, e di qualche località svizzera come Ginevra[18].

Il primo riferimento al gioco nell’edizione italiana dell’Epistolario[19] mi pare sia in una lettera al fratello Michail[20] da Torino del 20/8 settembre 1863:

«A Wiesbaden io avevo creato un sistema di gioco, servendomi del quale avevo vinto subito 10.000 franchi. La mattina dopo ho abbandonato quel sistema eccitandomi, e subito ho perduto. La sera sono tornato al mio sistema con precisione e senza fatica ho guadagnato di nuovo 3.000 franchi. Dimmi un po’ come era possibile non entusiasmarsi, non aver fede che seguendo rigidamente il mio sistema avrei avuto la fortuna nelle mie mani? (…). Arrivato a Baden mi sono avvicinato subito al tavolo da gioco e in un quarto d’ora ho vinto 600 franchi. Ciò mi ha spronato. E a un tratto ho cominciato a perdere e non mi sono potuto trattenere e ho perduto tutto (…). Presi gli ultimi denari e andai a giocare: con 4 napoleoni vinsi 35 napoleoni e li persi tutti e 35» (Epistolario, vol. I, pp. 310-311).

In realtà, però, già l’anno precedente in una lettera del 2 settembre 1862 da Parigi alla cognata, durante il primo viaggio in Europa, troviamo un riferimento al gioco: in quel caso ha vinto, anche se meno di quanto avrebbe voluto, e le raccomanda di non raccontare l’accaduto al figliastro[21].

Il successivo 30/18 ottobre 1863 Dostoëvskij scrive a Turgenev, col quale prima della rottura che avrebbe avuto luogo in seguito pare in confidenza, da Torino: «E oltre a tutto questa maledetta “rivolta delle passioni”. Se non sperassi di far qualcosa di più saggio in avvenire, adesso dovrei vergognarmi molto. E che fare? Domandare perdono a se stessi?». (Epistolario, vol. I, p. 323).

Sembra evidente che si stia riferendo al gioco. E in queste due prime notazioni compaiono già alcuni dei temi che rimarranno costanti per i dieci anni successivi. La ricerca del “sistema” che  consenta di padroneggiare il caso (una ricerca il cui carattere irrazionale appare in tutta evidenza, ma nella quale invece il giocatore cade regolarmente); l’eccitamento che si prova vincendo[22]; la tendenza a percorrere il dirupo delle perdite, una volta avviatosi, fino in fondo; l’aspetto conflittuale della partecipazione al gioco (che è una “maledetta” passione, e che provoca vergogna).

In una lettera ad Apollinarija Suslova da Wiesbaden, il 22/10 agosto 1865, emerge un quadro desolante, che vedremo ripetersi costantemente negli anni successivi, delle condizioni di miseria e umiliazioni nelle quali le perdite riducono Dostoëvskij:

«Appena tu sei partita (…), all’albergo mi hanno avvertito che non mi avrebbero dato né pranzo, né the, né caffè (…). Il grosso proprietario tedesco mi ha spiegato che io non “l’ho meritato” il pranzo, e così mi nutro soltanto di the (…). E non mi puliscono i vestiti e le scarpe e quando chiamo non viene nessuno e i servi mi trattano col più inesprimibile, il più tedesco disprezzo (…). Se tu sei arrivata a Parigi e in qualche modo puoi ottenere qualcosa dai tuoi amici e conoscenti, mandami (…). Me ne sto fermo a leggere per non eccitare col movimento l’appetito. In nome di Dio non mostrare la mia lettera a nessuno e non raccontar nulla. Una cosa disgustosa» (Epistolario, vol. I, pp. 383-385).

Un quadro che, purtroppo, è costretto a ribadire due giorni dopo, il 24/12 agosto:

«Io continuo a bombardarti di lettere (e tutte senza affrancatura) (…). Non affranco perché non ho neppure un centesimo. Continuo a non pranzare ed è già il terzo giorno che vivo del solo the della mattina e della sera e, strano, non ho affatto voglia di mangiare. Il guaio è che mi fanno ogni sorta di angherie e talvolta mi rifiutano la candela per la sera se è rimasto anche un minuscolo mozzicone del giorno precedente. Io del resto esco alle tre dall’albergo e ritorno alle sei per non far vedere che non pranzo (…). Polja, amica mia, prendi in prestito per me, salvami!» (Epistolario, vol. I, pp. 385-389).

Insieme al quadro disperato della sua condizione, si tratta di una richiesta di denaro che lo scrittore rivolge a una ragazza giovane, in viaggio da sola, anch’essa in condizioni finanziarie non floride, della quale è stato amante e con la quale ha interrotto una relazione tempestosa e difficile. Tutto l’epistolario di quegli anni è un succedersi, del resto, di richieste di denaro in anticipo agli editori in Russia, per intercessione degli amici. E anche le sue relazioni con gli altri intellettuali russi all’estero in quegli anni, sono rese imbarazzanti da costanti richieste di prestiti. Così è per Herzen, per Turgenev. Ogarëv, Goncarov.

Quanto alla Suslova, nonostante un’evidente incongruenza nella datazione, sembra che le sue note nel Diario si riferiscano agli stessi giorni delle lettere di Dostoëvskij quando scrive a Baden Baden (6 settembre mattina): «Non fa che giocare alla roulette tutto il tempo, e in genere è molto spensierato[23]. E poi la sera stessa: «FM ha perduto al gioco, ed è un po’ preoccupato perché abbiamo poco denaro per il nostro viaggio. Mi fa pena, e mi dispiace anche un po’ di non potergli alleviare in nessun modo queste sue preoccupazioni; ma ché farci, non posso»[24].

Rientrata a Parigi, poi (27 ottobre): «Ieri ho ricevuto una lettera di FM: ha perduto al gioco e mi prega di mandargli del denaro. Io non ho denaro (…). Ho deciso d’impegnare l’orologio e la catenella»[25]. E’ una generosità che stupisce, e testimonia di una larghezza d’animo della ragazza, e di una tolleranza verso la dispendiosa abitudine di Dostoëvskij che ritroveremo, poi, anche in Anna.

Quanto a lui, il gioco d’azzardo ricomincia a tormentarlo allorché, due anni dopo, è di nuovo in viaggio in Europa, questa volta con la moglie Anna Smitkina, alla quale scrive da Homburg il 18 maggio 1867:

«Durante tutto il giorno avevo voglia di dormire. E in queste condizioni il gioco, da cui non potei strapparmi; ti puoi immaginare in che stato di eccitazione mi trovassi (…). Ecco la mia considerazione definitiva, Anja: se si è ragionevoli, cioè se si è come di marmo, freddi e attenti inumanamente, assolutamente, senza alcun dubbio, si può guadagnare quel che si vuole. (…). E intanto questo guadagnare denaro gratuitamente, come qui (non del tutto gratuitamente; lo si paga con la sofferenza) ha qualcosa di irritante e opprimente, e quando pensi per che cosa ti servono i denari, quando ripensi i debiti e a coloro ai quali serve oltre che a me, senti che non puoi andartene. Ma mi immagino la sofferenza se perderò e non farò nulla; quanta  nausea prendere gratuitamente e ripartire ancora più pezzente di quando sono arrivato» (Epistolario, vol. II, pp.  24-25).

La scrittura del racconto Il giocatore, che nel frattempo ha avuto luogo, non pare aver avuto nessun effetto catartico, e ritornano quindi l’irragionevole e magica fiducia nel “sistema”, l’ambivalenza verso il gioco cercato e disprezzato al tempo stesso, ma ora anche l’idea di un “dovere” di giocare, per ribaltare con la vincita la situazione della moglie e ei parenti che, in un modo o nell’altro, dipendono da lui.

Poi riprende l’alternarsi di vincite e di perdite, così il 20 maggio 1867 scrive ancora alla moglie:

«Pensa che ieri ho perduto tutto, fino all’ultima copeka, fino all’ultimo fiorino e così avevo deciso di scriverti di mandarmi il denaro per la partenza. Ma mi sono ricordato dell’orologio, e sono andato dall’orologiaio per impegnarlo (…). E pensa un po’, con questi denari ho rivinto» (Epistolario, vol. II, p. 28).

Ma il 24 maggio è costretto a rettificare:

«Anja, cara, amica mia, moglie mia, perdonami, non chiamarmi infame. Io ho commesso un delitto, ho perduto al gioco tutto ciò che mi hai mandato, tutto, fino all’ultimo kreuzer; ieri l’ho ricevuto e ieri stesso l’ho giocato e perduto. Anja, come oserò ora guardarti, che dirai ora di me! Una sola cosa, soltanto una cosa mi atterrisce adesso: che cosa dirai tu, che cosa penserai tu di me (…). Io odio il gioco; non solo ora, ma anche ieri, ieri l’altro, l’ho maledetto appena ricevuti ieri i denari. Cambiato il biglietto sono andato a giocare pensando di riguadagnare un po’ del perduto (…). Da principio ho perduto un poco, ma poiché perdevo ho sentito il desiderio di rifarmi e poiché ho perduto ancora di più, già senza volerlo ho continuato a giocare per recuperare almeno il denaro necessario per partire e ho perduto tutto. Anja io non ti scongiuro di avere pietà di me, anzi è meglio che tu sia spietata (…). Subito, appena ricevuta questa lettera, spedisci 10 imperiali (…). Angelo mio, non pensare neppure che io giochi anche questi! Non offendermi fino a questo punto! Perché in me c’è pure qualcosa di umano» (Epistolario, vol. II, pp. 30-32).

E’ evidente, in quest’ultimo passaggio, la doppia trappola nella quale il gioco ha irretito Dostoëvskij: si vince, e bisogna continuare il gioco perché, forse, è la giornata fortunata (esistono in realtà giornate calde o fredde, piovose o secche, solari o cupe, ma non esistono giornate “fortunate”!) e guai a non profittarne. Si perde, e bisogna continuare forsennatamente il gioco per ritornare, almeno, in pari. Si vinca o si perda, insomma, si deve giocare in ogni caso.

Erving Goffman propone di scomporre il gioco d’azzardo in quattro fasi: propensione al rischio; determinazione nel governo del caso; fase di apertura (corrispondente all’annuncio dei numeri); fase del riposo, quando le perdite sono pagate e le vincite raccolte[26]. Ed è in quest’ultima fase, evidentemente, che nel giocatore estremo scatta qualcosa – qualcosa che sembra avere a che fare con la mancanza di una sorta di freno che altri invece hanno – e ha forse  a che fare con la dipendenza e con l’oralità, che non gli consente di essere mai appagato se vince, né di rassegnarsi ai capricci del caso quando perde.

Vincere tutto o perdere tutto, è questo quello che cerca il giocatore. Perciò non è possibile fermarsi e, se si vince, occorre tornare a perdere o dissipare in altro modo, per riprendere il gioco. Così nel gioco estremo, che non è a questo punto più soltanto un gioco, la roulette tende a trasformarsi in “roulette russa”. Perché a quel punto è in gioco la vita.

Il 28/16 agosto 1867, così, scrive al critico Majkov da Ginevra:

«Passando non lontano da Baden, pensai di tornarvi. Mi tormentava un pensiero seducente: sacrificare 10 luigi d’oro, e forse vincere più di 2.000 franchi (…). Il peggio è che a me anche prima era capitato di vincere qualche volta. E ancor peggio è che la mia natura è vile e troppo appassionata: dovunque e in tutto io vado fino all’estremo limite, durante tutta la vita ho oltrepassato i limiti. E un demone s’è subito fatto gioco di me[27]: in circa 3 giorni ho vinto 4.000 franchi, con straordinaria facilità. Adesso vi lascio immaginare che cosa rappresentava ciò per me: da un lato questa vincita facile (…). Dall’altro i debiti (…). Infine, in terzo luogo, e più importante di tutto, il gioco stesso. Voi sapete come attiri. No, ve lo giuro, non è soltanto l’avidità di lucro, quantunque a me anzitutto occorresse il denaro per il denaro (…). Arrischiai ancora e perdetti. Puntai fino all’ultimo quattrino, tremando di febbre; perdetti. Puntai i vestiti. Anna impegnò tutto il suo (…). Infine, basta, tutto era perduto» (Epistolario, vol. II, pp. 43-44).

Come autodiagnosi, non si potrebbe chiedergli di più: in un primo momento, Dostoëvskij sembrerebbe considerarsi quello che lui stesso definirà un giocatore mauvais genre, spinto al gioco dalla necessità di denaro, dalle tante persone che sono in quel momento economicamente a suo carico, dai debiti. Ma subito dopo la verità affiora, lampante: è la sua natura che è troppo appassionata, il gioco è un demone a cui non sa resistere perché, molto più che spingerlo al gioco le necessità, è il gioco in se stesso, la sfida con la fortuna, ad attirarlo.

Nella stessa lettere descrive l’incontro intorno al tavolo da gioco con Goncarov, e si chiede significativamente perché lui stesso abbia perso tutto e non, come l’altro, solo il superfluo; e  traccia così, implicitamente, il limite tra il giocatore moderato e quello estremo (lui stesso, appunto):

«Non appena giunto a Baden, il secondo giorno, incontrai alla stazione Goncarov. Come si confuse sulle prime Ivan Aleksandrovic! Anche lui giocava. Ma quando fu chiaro che non era possibile nasconderlo, e poiché io stesso gioco con molta rude schiettezza, anch’egli tralasciò di nascondersi. Egli giocava febbrilmente (al piccolo giuoco, in argento): giocò durante le due settimane che fu a Baden, e pare che abbia perduto abbastanza. Ma che Iddio gli dia la salute, a questo uomo cortese quando io ebbi perduto tutto (ed egli aveva veduto fra le mie mani molto oro) mi dette a mia richiesta, 60 franchi in prestito. Mi ha dovuto giudicare orribilmente: “Perché avevo perduto tutto, e non già la metà come lui?”» (Epistolario, vol. II, p. 45).

Eppure, nonostante tanta consapevolezza, il gioco lo attira e resistergli è impossibile. E così scrive ancora ad Anna da Saxon les Bains, il 6 ottobre 1867:

«Anja cara, io sono peggio di un bruto! Ieri sera alle 10 avevo una vincita netta di 1.300 franchi. Oggi nemmeno una copeka. Tutto! Tutto ho riperduto! E tutto ciò perché quel mascalzone del cameriere (…) non mi ha svegliato, come gli avevo ordinato per poter partire alle 11» (Epistolario, vol II, p. 70).

Ancora, un nuovo tema che vedremo ricorrere insistentemente ne Il giocatore è quello del disguido ferroviario che, impedendo la partenza, espone alla tentazione. E la tentazione diventa irresistibile. Passano i mesi, ma lo stillicidio si  ripete, e ritorna, prepotente, il tema dell’autodenigrazione, che raggiunge quasi tonalità masochistiche; trionfa l’ambivalenza e, finalmente, la promessa: è stata l’ultima volta[28].

Ma la promessa non è mai destinata a essere mantenuta; e così ancora ad Anna, quando alle responsabilità di marito si sono aggiunte quelle di padre, da Saxon les Bains, il 4 aprile 1868 mattina:

«Ho perduto tutto, appena arrivato. In mezz’ora ho perduto. Che ti dirò adesso, angelo mio divino, che io tanto tormento. Perdona, Anja, ti ho avvelenato la vita. E per di più avendo Sonja! Ho impegnato l’anello (…). Angelo mio, mandami 100 franchi (…). Non giocherò» (Epistolario, vol. II, pp. 130-131).

E poi ancora, la sera, di nuovo una promessa: «Via adesso il gioco, questo miraggio maldetto!» (Epistolario, vol. II, p. 139)[29]. Ma ancora tre anni dopo, da Wiesbaden, il 28 aprile 1871 si rivolge ad Anna:

«Ho perduto tutto al gioco, tutti e 30 i talleri che mi hai mandato (…). Io, vedendo che occorreva aspettare fino alle sei e mezza per partire di qui, mi diressi alla stazione. Adesso, Anja, mi creda tu o non mi creda, ti giuro che non avevo intenzione di giocare (…). Io non volevo giocare per due ragioni: 1. La tua lettera mi aveva colpito troppo (…); 2. Questa notte ho visto in sogno mio padre, ma in un aspetto così terribile, quale due volte sole m’era apparso nella vita, profetandomi una terribile sventura e tutte e due le volte s’era verificata (…). Ma arrivato alla stazione mi sono messo vicino al tavolo da gioco e nel pensiero ho incominciato a indovinare e dieci volte di seguito, non ci crederai, ho indovinato. Ne sono stato così sbalordito che ho incominciato a giocare e in 5 minuti ho vinto 18 talleri. E qui, Anja, non mi ricordo più (…). Ricordati che non sono un infame, ma solo un appassionato giocatore. (Ma ricordati anche che adesso questa fantasia è finita per sempre. Anche prima ti ho scritto che è finita per sempre, ma mai ho provato quel sentimento con cui adesso ti scrivo). Alle  nove e mezzo avevo perduto tutto e uscii come pazzo (…). Anja, salvami per l’ultima volta, mandami 30 talleri (…). Non giocherò. Credimi. Credimi per l’ultima volta e non te ne pentirai (…). Non pensare che io sia pazzo. Si è verificato in me qualcosa di grande; è sparita l’ignobile fantasia che mi ha tormentato per quasi dieci anni. per quasi dieci anni (o per meglio dire, da quando morì mio fratello e io mi sentii sotto il peso dei debiti[30]); sognavo di vincere, lo sognavo seriamente, con passione. Ora tutto è finito! E’ stata veramente l’ultima volta! Mi credi, Anja, che adesso ho le mani sciolte? Io ero legato al gioco e adesso penserò a quel che debbo fare e non fantasticherò per notti intere intorno al gioco, come è stato finora» (Epistolario, vol. II, pp. 297-301).

Quanto quest’ultima lettera nella quale si fa riferimento al nostro tema sia importante, lo apprendiamo da Anna, nel diario che tenne scrupolosamente della vita col marito[31]:

«Non potevo credere subito a questa grande felicità. F. M. mi aveva promesso molte volte di non giocare e non gli era stato possibile mantenere la sua promessa. Invece la felicità si realizzò: quella fu veramente l’ultima volta che F. M. giocò alla “roulette”. Nei suoi viaggi successivi all’estero (1871-75-76-79) egli non pensò nemmeno ad andare nei luoghi dove si giocava. È vero che in Germania erano sospese le “roulettes”, ma c’era Montecarlo e la distanza non avrebbe impensierito F. M., se avesse avuto voglia di giocare. La fantasia di vincere era per lui una specie di malattia, dalla quale, dunque, era guarito per sempre» (Diario, pp. 142-143).

Ma cosa aveva propiziato il miracolo? Anna ce lo racconta qualche riga più sopra, e non possiamo fare a meno di pensare che la coraggiosa sposina abbia usato, in quel caso – in quella che oggi potremmo definire una sorta di paradossale prescrizione del sintomo – proprio l’azzardo per vincere la passione dell’azzardo nel marito. Ha vinto evidentemente la scommessa, e buon per lei:

«F. M. mi diceva spesso che il suo talento era inevitabilmente destinato a perire e si lamentava di non saper mantenere la sua cara famiglia, che andava crescendo; cosicché qualche volta perdevo anch’io il coraggio. Per tranquillizzarlo un poco e distrarlo da quei pensieri, che non gli lasciavano la possibilità di concentrarsi nel suo lavoro, dovetti ricorrere all’unico rimedio che si mostrava efficace. Approfittando del fatto che in quel momento avevamo a nostra disposizione circa 300 talleri, cominciai a parlare del gioco e domandai a mio marito se non volesse tentare ancora una volta la fortuna alla “roulette” ricordandogli che gli era pur capitato di vincere. Chissà che questa volta la fortuna non tornasse a sorridergli? Non pensai neanche per un attimo alla possibilità di una vincita, e mi dispiaceva sacrificare cento talleri; ma sapevo per esperienza, dai suoi precedenti viaggi alla “roulette”. che, provando di nuovo le forti impressioni del gioco e soddisfacendo il suo gusto del rischio, F. M. sarebbe tornato a casa più calmo, convinto della fragilità delle sue speranze; e si sarebbe rimesso al lavoro con maggior energia (…). La mia idea ebbe l’approvazione di mio marito, che partì con centoventi talleri per Wiesbaden, dove si trattenne per una settimana e dove, in caso di perdita, avrei dovuto mandargli il denaro per il viaggio di ritorno. Come prevedevo, il risultato del gioco fu disastroso e F. M. perdette e spese centottanta talleri, somma per noi abbastanza forte. Le terribili sofferenze che egli provò in quella settimana, rimproverandosi di avere tolto tanti soldi alla famiglia, ebbero una profonda influenza su di lui, e lo persuasero a non giocare mai più alla “roulette” (Diario, p. 142).

Questa volta Dostoëvskij è riuscito a perdere una somma “abbastanza forte”, dunque, superiore del 50% a quella prevista; ma a darsi un limite. E’ il segnale che la fine dell’inferno si avvicina. Prima del miracolo, però, le stazioni dello stesso calvario che abbiamo visto nelle lettere di Fëdor, ma vissuto questa volta dal vertice di osservazione del partner, capace d’infinita pazienza:

«Eravamo a Dresda da più di tre settimane, quando mio marito mi parlò della “roulette” e mi confessò che, se fosse stato solo, sarebbe andato a giocare un po’. Ricordavamo spesso come era stato scritto il romanzo Il giocatore. Poiché io non volli mai essere un ostacolo per mio marito, gli chiesi perché non andasse a giocare (…). Io lo persuasi (…). Fedja cominciò a rifiutare, ma, poiché il suo desiderio di “provare la fortuna” era forte, si decise infine (…). Passarono due o tre giorni e cominciai a ricevere lettere in cui Fedja mi diceva che aveva perduto e mi pregava di spedirgli altri soldi; soddisfeci subito la sua richiesta; senonché egli perdette anche quelli e me ne chiese ancora. Ignorando affatto che cosa fosse l’emozione del gioco, la credevo ancora più forte di quanto non sia e temevo che essa potesse nuocere alla salute di mio marito (…). Mi accusavo di grave, quasi criminale egoismo, perché in quei momenti così tristi per lui non potevo aiutarlo (…). Dopo una settimana Dostoevskij tornò a Dresda, felice che io, non solo non lo rimproverassi o esprimessi rincrescimento per i soldi perduti, ma lo consolassi pregandolo di non pensarci. L’insuccesso del viaggio ad Amburgo influì molto sul suo umore. Mi riparlava spesso della “roulette”, rimpiangeva i soldi perduti e si accusava di aver perduto giocando male. Mi assicurò che la fortuna gli aveva sorriso più d’una volta, ma lui non aveva saputo approfittarne perché si affrettava a cambiare le puntate, provava altri metodi di gioco e, in conclusione, perdeva sempre» (Diario, pp. 108-109).

Certo, Anna è la giovane sposa, inesperta dell’Europa, di un uomo maturo, ma questo suo atteggiamento di totale remissione alla passione del marito non può mancare di essere qui rimarcato. Tanto più che ritorna:

«Nei suoi viaggi precedenti era andato tre giorni alla “roulette”, con pochi mezzi; il che non gli aveva permesso di seguire il suo preferito metodo di gioco. Diceva che, se avesse potuto passare due o tre settimane in una città di gioco, avendo un po’ di fortuna e senza fretta, avrebbe potuto guadagnare una forte somma, almeno quanto bastava per coprire le perdite precedenti. Dostoevskij parlò in modo molto eloquente, citando tanti esempi in difesa della sua tesi, e mi persuase. Così, quando si parlò di andare in Svizzera, diedi il mio consenso al progetto di restare per due settimane a Baden-Baden, pensando che la mia presenza al tavolo di gioco avrebbe agito su F. M. come forza moderatrice» (Diario, pp. 109).

La presenza di Anja, però, non salva Dostoëvskij da nuove perdite, tanto da costringerla ad annotare: «Quando rileggo ciò che avevo scritto stenografando il mio libretto, riguardo alle cinque settimane passate a Baden Baden, mi persuado sempre più che mio marito era allora sotto l’influenza di un sentimento terribile, dal quale non si poteva liberare». Poi la lettera prosegue, ripercorrendo di perdita in perdita lo sfacelo che abbiamo già tante volte constatato[32].  E a seguire i saggi ragionamenti della giovane:

«Dopo le prime perdite, capii che F. M. non avrebbe mai vinto o, per meglio dire, anche se avesse vinto una forte somma, nello stesso giorno o, al più tardi, il giorno seguente, se la sarebbe fatta ringhiottire dal gioco. Ero proprio certa che non sarei riuscita a persuaderlo a non giocare più. Da principio mi pareva molto strano che F. M., il quale aveva saputo sopportare con tanto coraggio diverse circostanze tragiche, come la reclusione in fortezza coi lavori forzati, l’esilio, la morte della moglie e dell’amato fratello, non avesse abbastanza volontà per frenarsi e non giocare fino all’ultimo tallero. Mi pareva perfino che tutto ciò fosse umiliante e poco degno della sua anima così elevata; e soffrivo nell’aver scoperto questa debolezza nel carattere del mio caro marito. Ma presto capii che non si trattava di una semplice debolezza o di abulia, ma di una passione profonda, capace di paralizzare tutti i centri di volontà e alla quale non poteva ribellarsi neanche un carattere forte. Bisogna rassegnarsi si a considerare la passione per il gioco come una malattia incurabile» (Diario, pp. 111-113).

Così non sarà, almeno in questo caso fortunato, e lo si è visto; ma certo occorrerà alla giovane moglie ancora tanta pazienza:

«A dire la verità, non rimproverai mai a mio marito queste perdite, né ci furono fra di noi contrasti a causa del gioco che a mio marito piaceva molto. Senza rancore, gli consegnavo gli ultimi soldi (…). Mi era profondamente penoso vedere come soffriva F. M. Tornava a casa (…) pallido, sfinito, reggendosi appena in piedi mi chiedeva dei soldi (li faceva tenere sempre a me), e tornava a giocare; rientrava dopo una mezz’ora, ancora più stanco e abbattuto, e così via, fino a quando non aveva perso tutto ciò che possedevamo. Se non poteva andar a giocare, cadeva in preda alla disperazione, era triste, cominciava a piangere, si metteva in ginocchio davanti a me e mi supplicava di perdonarlo per le sofferenze che mi procurava. Non mi era facile calmarlo, mostrargli che la nostra condizione non era senza speranze, escogitare una via di uscita. Com’ero felice quando mi riusciva di distrarlo (…). Appena i soldi arrivavano, la nostra bella vita si tramutava in un inferno» (Diario, p. 114).

Eppure sembrava proprio che la possibilità di giocare fosse il solo balsamo per un animo geniale, ma anche sempre tormentato; e lo nota ancora la moglie:

«Egli si avvilì e io, per distrarlo, gli suggerii di andare a Saxon-les-bains, dove poteva tentare ancora una volta la fortuna alla roulette.  Non si fece pregare troppo (…). Il gioco della roulette, come del resto temevo, non gli portò nessun vantaggio materiale, ma un grande sollievo spirituale. Il cambiamento, il viaggio, le emozioni provate durante il gioco, mutarono il suo umore ed egli tornò a Ginevra completamente trasformato» (Diario A.S., pp. 118-119).

Ma che cos’era a turbare Dostoëvskij al punto da poter essere liberato dalle sue angosce soltanto attraverso l’esperienza catartica del gioco estremo e della perdita totale? Freud, come è noto, ipotizzò che Dostoëvskij soffrisse di una epilessia che era in realtà istero-epilessia (e sappiamo che ciò non è vero) e di un craving masochistico dal gioco in rapporto alle vicissitudini edipiche che lo interessavano, al senso di colpa cioè che avrebbe inconsciamente provato per avere desiderato la morte del severo padre nel momento nel quale essa avveniva[33]. Soltanto costretto dalla miseria “guadagnata” alla roulette, si sarebbe sentito autorizzato dal sentimento di colpa a liberare la creatività artistica e disporsi, con quali felici risultati lo sappiamo, al lavoro. L’ultimo dei suoi romanzi e il più riuscito, I fratelli Karamazov, sarebbe perciò la confessione, certo in forma artistica e inconsapevole, dell’impulso parricida che aveva inconsciamente provato in corrispondenza della morte del padre. E’ un’ipotesi audace; e certo il fatto che Dostoëvskij, nella lettera che abbiamo visto del 28 aprile 1871 faccia corrispondere la fine del gioco d’azzardo con la comparsa in sogno del padre – circostanza che probabilmente Freud non poteva conoscere – parrebbe a prima vista suggestiva a questo riguardo.

Ma non lo è poi del tutto. Perché a guardare con maggiore attenzione il sogno, alla comparsa del fantasma onirico del padre castrante non corrisponde affatto, come dovrebbe essere seguendo il ragionamento di Freud, l’impedimento all’esercizio del lavoro creativo (l’attività libidica) e la condanna alla roulette (l’attività antilibidica). Ma corrispondono invece, proprio al contrario,  l’interruzione del gioco (la roulette, l’attività dissipativa), e il richiamo al lavoro per far fronte ai suoi doveri di padre di famiglia e debitore[34].

Aleksej, fenomenologia del giocatore

 Il primo riferimento dell’Epistolario al romanzo Il giocatore è in una lettera da Roma al critico Strachov del 30/10 settembre 1863, tre anni prima dunque della pubblicazione. In essa, viene soprattutto tracciato un profilo di quello che dovrà essere il protagonista:

«La nota caratteristica in lui è che tutti i suoi succhi vitali, le sue forze, la sua turbolenza, il suo ardire mettono capo alla roulette. Egli è un giocatore, ma non un semplice giocatore (…). Egli è nel suo genere un poeta, ma egli stesso si vergogna di questa poesia, perché sente profondamente la sua bassezza, anche se la necessità del rischio lo nobilita ai suoi stessi occhi (…). Se la “Casa di morti” ha richiamato su di sé l’attenzione del pubblico come rappresentazione degli ergastolani che nessuno aveva rappresentato con tale evidenza prima, questo racconto richiamerà immancabilmente su di sé l’attenzione come evidente e minuta rappresentazione del gioco della roulette (…). La “Casa di morti” è pur riuscita interessante. E qui si tratta della descrizione di una specie di inferno, di una specie di “bagno” penale» (Epistolario, vol. I, p. 317).

Il gioco, dunque, è un inferno, un bagno penale nel quale, come si è visto, Dostoëvskij è entrato relativamente da poco, ed è destinato a permanere altri otto anni. Notiamo che – già in questa prima rappresentazione – Aleksej è sì un giocatore, ma non è solo un giocatore. E forse, del resto, nessun giocatore lo è.

Entrando nel romanzo, le prime notazioni del giovane sul gioco suonano ad autogiustificazione:

«Per quanto sia ridicolo che io tanto mi aspetti dalla roulette, mi sembra però ancora più ridicola l’opinione corrente, ammessa da tutti, che sia sciocco e futile aspettarsi qualcosa dal gioco. E perché il gioco sarebbe peggiore di un qualsiasi altro metodo di far denaro, per esempio, anche del commercio?[35] E’ vero che guadagna uno su cento, ma a me che importa?» (Il giocatore,  p. 272).

E, poi:

«Tutto questo lucro e tutta questa sozzura del lucro, se volete, mi erano, quando entrai nella sala, in certo modo più alla mano, più familiari. La cosa più simpatica è quando gli uomini non fanno cerimonie a vicenda, ma agiscono apertamente e con franchezza. E poi a che scopo ingannare se stessi?» (Il giocatore,  p. 273).

Parole orgogliose, dunque, queste del giovane giocatore, che lo avvicinano a tanti altri personaggi più noti che lo seguiranno (Raskolnikov, Stavroghin, Ivan ecc., ciascuno ribelle e inquieto a modo proprio), alle quali particolarmente bene si adatta quanto scrive lo psicoanalista Edmund Bergler sulla relazione tra gioco d’azzardo e orgoglio, ribellione[36].

Dostoëvskij distingue, tra i giocatori d’azzardo, una categoria che gioca allo scopo di guadagnare, che definisce “mauvais genre”, e un’altra costituita dai “gentlemen”, che non si appassionano eccessivamente, in genere si controllano, e per lo più non permettono che siano messe a rischio le basi di sicurezza indispensabili per vivere (e ripensiamo al momento nel quale, intorno al tavolo, Dostoëvskij si sarebbe poi confrontato con Goncarov)[37]. A queste due categorie, mi pare però indispensabile per la comprensione dei nostri casi aggiungerne una terza, corrispondente alla versione eccessiva, disfunzionale, estrema del gioco d’azzardo spinto “all’ultimo sangue”[38], al ciglio del precipizio. E’ a quest’ultima versione che credo che tanto Dostoëvskij che il suo personaggio appartengano[39]. Ed è evidente, peraltro, che delle tre categorie è solo quella del gentleman a “giocare” in senso proprio. Per le altre due, alle quali alternativamente Dostoëvskij dichiara di appartenere, il gioco è rovinato dalla necessità di rispondere a bisogni altri, che non sono più interni al gioco; di tipo materiale, il denaro, per il mauvais genre, e di tipo psicologico, la risposta a istanze emotive insopprimibili che con il gioco non c’entrano, per il giocatore estremo.

Gli ambienti sono descritti in modo efficace, e del resto erano ben noti all’autore:

«Non c’è sfarzo alcuno in queste miserabili sale (…). In primo luogo, tutto mi parve così lurido (…). Particolarmente brutti, a primo sguardo, erano in tutta quella marmaglia da roulette quel rispetto per la propria occupazione, quell’aria seria e perfino reverente con cui tutti attorniavano i tavoli» (Il giocatore,  pp. 272-273)[40].

L’esperienza del gioco, dunque, è al centro del romanzo (anche se non lo esaurisce, come Dostoëvskij aveva scritto a Strachov), e su di essa molti passaggi sono degni d’interesse. Scrive infatti Aleksej:

«Penso che si fossero riuniti nelle mie mani, in forse cinque minuti, circa quattrocento federici. A questo punto avrei dovuto venir via, ma in me era sorta una certa strana sensazione, come un senso di sfida al destino, come un desiderio di scoccargli un buffetto, di mostrargli la lingua (…).Poi, accaloratomi, cavai fuori tutto ciò che mi rimaneva, feci un’altra puntata uguale e tornai a perdere, dopo di che mi allontanai dal tavolo come intontito » (Il giocatore, p. 284).

Nessuna confusione dunque: il denaro non è lo scopo. Il giocatore cerca altro: vuole essere sicuro di poter controllare, soggiogare il destino. Anzi, ne è assolutamente certo, forte di una irragionevole sicurezza e dice a Polina, la donna romanticamente amata, nel rigettare la sua richiesta di giocare per suo conto:

«Io sono pienamente sicuro che, appena comincerò a giocare per mio conto, non mancherò di vincere (…). So unicamente che ho necessità di vincere, che questa è anche l’unica mia via di uscita. Be’, ecco perché, forse, mi pare di dover vincere assolutamente» (Il giocatore, p. 291).

Così, dopo il primo lungo incontro con Polina sul quale, per l’enorme importanza che riveste, torneremo a suo tempo, eccolo finalmente sul campo:

«Entrai al casinò con una speranza così salda e, nello stesso tempo, in preda a una tale agitazione quale non avevo mai provato (…). Ero come in preda a febbre ardente, ho puntato tutto quel mucchio di soldi sul rosso e d’un tratto tornai in me. E solo una volta, in tutta la sera, per tutta la durata del gioco, la paura mi ha attraversato con un soffio freddo e si fece sentire con un tremito alle braccia e alle gambe. Con terrore percepii e in un attimo riconobbi cosa avrebbe significato per me perdere in quel momento! Era in gioco tutta la mia vita (…). La rabbia si impadronì di me (…). Del resto, fu un solo attimo d’attesa simile, forse, come impressione, all’impressione provata da madame Blanchard quando, a Parigi, precipitò dall’aerostato al suolo (…)[41]. Ricordo solo, come in un sogno (…). Non mi ricordo se per tutto quel tempo abbia pensato almeno una volta a Polina. Provavo una certa indescrivibile delizia nell’arraffare e rastrellare le banconote che si ammucchiavano davanti a me (…). Ricordo distintamente che a un tratto, in realtà, senz’alcuna sollecitazione dell’amor proprio, s’impossessò di me un’estrema bramosia di rischio. Forse, passando per tante sensazioni, l’anima non se ne sazia, ma solo ne è stimolata, ed esige sensazioni ancora sempre più forti, sino alla spossatezza definitiva» (Il giocatore, pp. 380-384).

Ma che cos’è, quello qui descritto, se non un orgasmo? O il “flash” di un  “buco” di eroina? Il momento del massimo rischio in uno sport estremo? Qualcosa di simile, l’attimo in cui la pallina fa la propria scelta, a quello supremo del condannato a morte o dell’assassino, o a quello in cui la scossa epilettica rapisce il corpo, e sono entrambi temi, anch’essi, centrali per Dostoëvskij.

Fu lo psicoanalista Otto Fenichel, del resto, a paragonare le emozioni del gioco d’azzardo a quelle dell’orgasmo o dell’assassinio[42]. Sono sensazioni estreme e in gran parte fisiche, quelle qui descritte. Il corpo del giocatore è assoluto protagonista in questo brano: vi si parla di febbre ardente, soffio freddo, tremito, senso di vertigine[43], spossatezza. E, insieme, un senso di precipizio, una bramosia insaziabile di rischio, di sensazioni appunto estreme. E’ questa sensazione di rischio assoluto, che si impadronisce dell’anima e del corpo, quello che cerca questo giocatore nel vedere girare la pallina, nell’instaurare con essa un dialogo impossibile per costringerne il destino. E poi ancora:

«Quella sera stessa mi avviai alla roulette. Oh, come batteva il mio cuore! No, non i quattrini mi erano cari! Allora avevo solo voglia che il giorno dopo tutti quegli Hinze, tutti quei Kellner, tutte quelle splendide dame di Baden, che tutti costoro parlassero di me, narrassero la mia storia, si meravigliassero di me, mi esaltassero e s’inchinassero davanti alla mia nuova vincita. Tutti questi sono sogni e pensieri infantili, ma… chissà, avrei forse incontrato anche Polina, le avrei raccontato e lei avrebbe veduto ch’io son superiore a tutti questi assurdi colpi del destino…. Oh, non i quattrini mi son cari! (…).Perché sono sicuro che non sono avaro (…); intanto però con che palpito, con che sospensione ascolto il grido del croupier: trente et un, rouge, impair et passe, oppure: quatre, noir, pair et manque. Con che avidità guardo la tavola da gioco, sulla quale sono sparsi luigi, federici e talleri, le colonnine d’oro, quando dalla paletta del croupier si sparpagliano in mucchi ardenti come brace, o le colonne d’argento lunghe un arsin, giacenti intorno alla ruota. Ancora nell’accostarmi alla sala da gioco, due stanze più in qua, appena odo il tintinnio del denaro che si sparge, mi vien quasi lo spasimo (…). Io acquistai ciò più che rischiando la vita, osai rischiare, ed ecco, ero daccapo nel novero degli uomini! (…). Io vivo in costante ansietà, faccio il gioco minimo e aspetto qualcosa, calcolo, me ne sto giornate intere al tavolo da gioco e osservo il gioco, perfino in sogno[44] vedo il gioco; ma con tutto questo mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma» (Il giocatore, pp. 407-408).

E la pallina? Essa è il tiranno al quale il giocatore si è consegnato:

«Qui il fatto è questo: un giro di ruota, e tutto cambia, e quegli stessi moralisti per primi (ne son sicuro) verrebbero con amichevoli celie a congratularsi meco. E non si scosterebbero tutti da me come adesso. Ma me n’infischio di loro tutti! Che sono io adesso? Zéro. Che posso esser domani? Domani posso risuscitar da morte e cominciare a vivere!» (Il giocatore, pp. 406-407).

Così, perde: è rovinato, i debiti lo portano in carcere, cerca un impiego da lacchè (Il giocatore, p. 407). Così, vince, ma quel denaro gli è inutile, perché non basta a comprare l’amore. Rifiutando il denaro, Polina lo inflaziona precipitosamente, lo riduce a carta straccia tra le sue mani. Lei chiede di essere riconosciuta nella sua realtà di persona storica, reale, e rifiuta il ruolo che il giocatore le attribuisce, quello di dare un valore e un senso alla sua vincita con l’essere per lui quella «promessa di estasi, la visione angelicante della dama che bacia chi si gioca tutto solo per un suo sguardo»[45]. Ci penserà Blanche, invece, più semplice e simpatica furba figura di opportunista e arrampicatrice sociale, a rimediare: facendoselo regalare, il denaro, e dandogli lei sì valore; e regalando anche ad Aleksej qualche giorno di leggerezza insieme a lei. In definitiva, poi, liberandolo dal denaro, così che lui possa ritornare alla roulette nel modo che solo gli piace, con la possibilità di giocarsi l’ultimo spicciolo rimasto, di giocarsi la vita (Il giocatore, pp. 393-405).

E poi? Qual è il destino del giocatore dopo quest’avventura parigina? Ancora il gioco. «Vivo in costante ansietà» – dice di sé, appunto – e poi: «perfino in sogno vedo il gioco» (p. 408).

E il dialogo finale con l’amico-rivale inglese Astley illumina al riguardo:

«- Oh, il diavolo se lo porti [il gioco]! Ma lo lascerei sull’istante, solo che….

– Solo che adesso vi rifacciate? Così pensavo io; non finite di dire – lo so – voi questo l’avete detto alla sprovvista, per conseguenza avete detto la verità[46]. Dite, oltre che del gioco, non vi occupate di nulla?

– No, di nulla….

– Vi siete fatto di legno[47], non solo avete rinunciato alla vita, agli interessi vostri e sociali, al dovere di cittadino e di uomo, agli amici vostri (e tuttavia ne avevate), non solo avete rinunciato a uno scopo quale che sia… eccetto quello di vincere al gioco, voi avete rinunciato perfino ai vostri ricordi. Io vi rammento in un momento ardente e intenso della vostra vita; ma son sicuro che avete dimenticate le vostre migliori impressioni di allora; i sogni, quelli di adesso, i vostri quotidiani desideri non vanno oltre  pair e impair, rouge, noir, i dodici medi e così via» (Il giocatore, pp. 410-411).

Facile profezia, questa dell’inglese, perché sotto il profilo psicopatologico la forma che l’esistenza di Aleksej ha assunto è ormai da tempo quella che Ludwing Binswanger definirebbe l’esaltazione fissata: la vita ha perso per lui l’ampiezza delle sue possibilità, e nel suo mondo non c’è spazio che per la roulette, pensiero intenso ed esclusivo che lo occupa nella veglia e nel sonno[48]. E, infatti appena lasciato l’inglese ricomincia:

«Oh, io ho un presentimento, e non può essere altrimenti! Ho adesso quindici luigi, e avevo cominciato con quindici fiorini![49] A cominciar cautamente…. e possibile, possibile ch’io sia un tal bambinetto! Possibile che non capisca io stesso che sono un uomo perduto ? Ma perché mai non posso risorgere? Sì! Non c’è che da essere, almeno una volta nella vita, calcolatore e paziente, ed ecco tutto! Non c’è che da mantenersi almeno una sola volta in carattere, e in un’ora posso mutar tutto il destino! L’essenziale è il carattere. Basta rammentare ciò che m’accadde in questo senso sette mesi fa a Roulettenburg, prima della mia perdita definitiva. Oh, fu quello un notevole caso di risolutezza: avevo allora perduto tutto, tutto…. Esco dal Casino, guardo: nella tasca del panciotto si muove ancora un fiorino: “Ah, vi sarà dunque di che pranzare!” pensai, ma, fatti un cento passi, mutai pensiero e tornai indietro. Puntai quel fiorino sul manque (quella volta fu sul manque), e, davvero, v’è qualcosa di particolare nella tua sensazione, quando solo, in paese straniero, lontano dalla patria, dagli amici, e non sapendo quel che mangerai oggi, punti l’ultimo forino, l’ultimo, proprio l’ultimo! Io vinsi e di lì a venti minuti uscii dal Casino con centosettanta fiorini in tasca. E’ un fatto! Ecco ciò che a volte può significare l’ultimo fiorino! Ebbene, se io allora mi fossi perduto d’animo, se non avessi osato risolvermi?… Domani, domani tutto finirà![50]» (Il giocatore, pp. 415-416).

Ma Alksej non è il solo dei personaggi del breve romanzo a interessarci dal punto di vista della fenomenologia del gioco d’azzardo. Ad un certo punto irrompe infatti, sorpresa per alcuni particolarmente sgradita, improvvisamente sulla scena la nonna che era data per moribonda e prossima a rifocillare le traballanti finanze dei parenti con una cospicua eredità. La nonna che si avvicina al gioco con curiosità, e non senza una certa saggezza e soggezione; e che, di fronte a un uomo che vince e non riesce a fermarsi in quel momento, commenta severa: «Che rabbia! Quell’uomo è rovinato! Vuol dire che lui stesso lo vuole… non posso guardarlo, mi rimescola tutta. Che tonto!» (p. 339).

E che, invece, commenta ammirata “lei non perde” di fronte a una donna che Aleksej ci descrive in questi termini:

«Compariva al tavolo da gioco ogni giorno, all’una del pomeriggio, e se ne andava alle due in punto; ogni giorno giocava un’ora. Già la conoscevano e subito le accostavano una poltrona. Ella cavava di tasca un po’ d’oro, alcuni biglietti da mille franchi e cominciava a puntare tranquillamente, a sangue freddo, facendo i suoi calcoli, segnando sulla carta col lapis le cifre, e tentando di trovare il sistema secondo cui a un dato momento si raggruppavano le probabilità. Faceva puntate considerevoli. Vinceva ogni giorno mille, duemila, al massimo tremila franchi, non più, e, dopo aver vinto, subito andava via»[51] (Il giocatore, p. 339).

Ma non ci mette molto, la nonna, a lasciarsi attirare dal gioco come da una calamita e a cominciare inesorabilmente a scivolare prima, e poi rapidamente a franare. E allora, la vediamo vincere, perdere, affannarsi agli schiaffi violenti della fortuna:

«Ancora! Ancora! Ancora! Punta ancora! (…). La nonna tremava addirittura spiando la ruota. Una risoluta convinzione di vincere le brillava sul viso, la sicura attesa che ecco, tra poco avrebbero gridato: zero! – Zero, gridò il croupier. – Eh!!! Si rivolse a me con frenetico trionfo la nonna (…). Ero io stesso un giocatore; lo sentii proprio in quel minuto. Le mani, le gambe mi tremavano, la testa mi martellava» (Il giocatore, p. 342).

E ancora entusiasmarsi delle vincite, ostinarsi nelle perdite; pentirsi, rinsavire per un attimo, ma poi non sapere resistere e ritornare a provarci:

«Dovessi morire, mi rifarò. Punta! (…). Dovessi morire, punta ancora! (…). Un’ora dopo, per quanto ci battessimo, avevamo perso tutto (…).  – Oh che sciocca, oh che scioccona! Vecchia, vecchia scioccona che sei! (…).  Quindicimila rubli d’argento mi sono giocata (…)!» (Il giocatore, pp. 352-359).

E poi ancora: «Dovessi morire, mi rifarò!» (Il giocatore, p. 363). La sua fortuna fu avere terminato il denaro che aveva portato con sé e quello che era riuscita a ricevere ancora, ma avere ben distante, al riparo in Russia, una parte ancora cospicua del patrimonio.

Ma i protagonisti de Il giocatore non sono i soli frequentatori del gioco d’azzardo nei romanzi di Dostoëvskij. Nove anni dopo vi ritroviamo anche Arkadij, il giovane protagonista de L’adolescente, il romanzo che Dostoëvskij scrisse nel 1875 ritornando sul tema del denaro  e del gioco. Qui l’ambiente non è più quello dei grandi casinò europei, ma quello delle bische clandestine di Pietroburgo.

Il rapporto col gioco, anche nel suo caso, è ambivalente: «provavo un godimento straordinario, ma quel godimento passava attraverso il tormento»[52] (L’adolescente, p. 338).

Anch’egli gioca sì per il denaro, che gli è necessario, ma anche «per il gioco in sé, per le sensazioni, per i godimenti, il rischio e così via» (p. 339). E ancora, una volta che è seduto al tavolo il gioco non è più per lui solo strumento per fare denaro; è la prova della propria padronanza di se stesso, il riscatto dalle umiliazioni patite nell’infanzia, la sfida in cui cercare prova del proprio valore, l’orgoglio di fronte al giudizio di familiari e conoscenti. Anch’egli, come Alexej, ripete quello che scriveva il loro creatore nelle lettere:

«Sono convinto anche adesso che, nel gioco d’azzardo, con una totale calma di carattere , la quale conservi tutta la lucidità della mente e del calcolo, sia impossibile non sconfiggere la grossolanità del caso» (L’adolescente, p. 339)[53].

Ma già con le prime vincite «tutto intorno a me cominciò a girare e danzare» (p. 341). Altro che calma e freddo calcolo! E ancora: «ormai non potevo resistere in alcun modo». E poi:

«a questo punto la gloria della vincita mi annebbiò definitivamente (…). Non ero più in grado di spiegarmi tranquillamente e circostanziatamente. La testa mi girava e le gambe mi cedevano (…). Ammucchiavo macchinalmente (…). Puntavo a casaccio» (L’adolescente, pp. 341-342).

Il gioco via via pervade la vita e persino il sonno del giocatore, e quindi:

«Per tutta quella notte sognai la roulette, il gioco, l’oro, i calcoli[54]. Continuavo a calcolare qualcosa, come se decidessi una posta al tavolo da gioco, scrutassi qualche probabilità, e questo mi oppresse per tutta la notte come un incubo (…). Quella vincita mi aveva addentato il cuore. Possibile che io fossi nato giocatore? (…). Persino adesso, mentre scrivo tutto ciò, a volte mi piace pensare al gioco! Mi avviene talvolta di passare intere ore seduto in silenzio, con i calcoli del gioco nella mente e con i pensieri di come tutto ciò si svolga, di come io punti e prenda» (L’adolescente, p. 371).     

Diagnosi del giocatore

Come abbiamo accennato nell’introduzione, la separazione tra il Disturbo da gioco d’azzardo e il gioco d’azzardo ordinario è uno degli impegni coi quali si è maggiormente cimentata la nosografia. Così, l’ICD 10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il Gioco d’Azzardo Patologico come:

«Episodi frequenti e ripetuti di gioco d’azzardo che minano la vita del soggetto a detrimento dei valori e degli obblighi lavorativi e familiari, fino a mettere a repentaglio l’occupazione, portare a indebitarsi per grosse cifre e a mentire o infrangere la legge per ottenere denaro o per evitare il pagamento di debiti».

I principali criteri di inclusione sono:

  • – 2 o più episodi di gioco d’azzardo in un periodo di almeno un anno
  • – Questi episodi non hanno un esito vantaggioso per la persona ma persistono nonostante la sofferenza personale e l’interferenza con il funzionamento dell’individuo nella vita quotidiana
  • – L’individuo descrive una necessità impellente di giocare che è difficile da controllare e riferisce di essere incapace di smettere di giocare con uno sforzo di volontà
  • – L’individuo è spesso alle prese con idee o immagini mentali dell’atto di giocare o delle circostanze che accompagnano l’atto stesso

Appare evidente che tanto l’autore che il protagonista de Il giocatore rientrano in questa definizione. Cambia il discorso per la nonna la quale soddisfa sì i criteri 2, 3 e 4, ma non il n. 1, in quanto per lei il disturbo ha durata di pochi giorni e poi riesce a rientrare in patria avendo, peraltro, salvato una parte cospicua del suo avere. Più articolato è il discorso per il DSM 5 dell’American Psychiatric Association, il quale stabilisce per il Disturbo da Gioco d’Azzardo questi criteri:

Comportamento da gioco d’azzardo problematico ricorrente e persistente che porta a stress o a un peggioramento clinicamente significativo, come indicato dalla presenza nell’individuo di 4 (o più) dei seguenti sintomi per un periodo di almeno 12 mesi:

 

  1. Necessità di giocare una quantità crescente di denaro con lo scopo di raggiungere l’eccitazione desiderata
    2. È irritabile o irrequieto quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo
    3. Ha effettuato ripetuti sforzi infruttuosi per controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo
    4. È spesso preoccupato per il gioco d’azzardo (per esempio, ha pensieri persistenti di rivivere esperienze passate del gioco d’azzardo, di problematiche o di pianificazioni future, pensando come ottenere danaro con cui giocare)
    5. Spesso gioca quando si sente in difficoltà (per esempio, assenza di speranza, in colpa, ansioso, depresso)
    6. Dopo aver perso soldi al gioco, spesso torna un altro giorno (perdite “inseguite”)
    7. Racconta bugie per nascondere il coinvolgimento nel gioco d’azzardo
    8. Ha messo a repentaglio o ha perso una relazione significativa, il lavoro, lo studio o una opportunità di carriera a causa del gioco d’azzardo
    9. Si basa su altri per cercare denaro per alleviare le disperate situazioni finanziarie causate dal gioco d’azzardo

 

Come abbiamo visto, tanto Dostoëvskij negli anni dal 1863 al 1871 che Aleksej soddisfano il criterio temporale, nonché quello sintomatologico per ben 8 item su 9 (escluso solo, mi pare, per entrambi il punto 7), e il loro disturbo può pertanto essere considerato “grave”. Diversa è la situazione della nonna, la quale sembra soddisfare solo i criteri n. 1, 2, 6, 9, presentandosi quindi come un caso di gravità “media”, ma lo fa limitatamente a pochi giorni e in una sola occasione; perciò il Disturbo, nel suo caso, non può essere diagnosticato. Tanto è bastato però a farle perdere una somma cospicua, e ad aiutarla a prendere coscienza di essere un soggetto a rischio che farà bene, dopo questa avventura, a non avvicinarsi al tavolo verde.

Rimane ancora Alekseij, il protagonista de L’adolescente. Anche nel suo caso il gioco d’azzardo estremo ha avuto durata inferiore all’anno richiesto. Non solo; è stato fortunato, ha vinto e così attraverso il gioco non solo non aggrava, ma anzi risolve la sua situazione debitoria. I criteri soddisfatti sarebbero, così, soltanto i primi cinque, quelli per così dire di carattere psicologico, mentre quelli a carattere biografico, che dipendono però in grande misura dalle circostanze, non sono qui soddisfatti.

Ma può valere una scriminante diagnostica nella quale di quattro soggetti che, posti in una sala da gioco, hanno dinamiche psicologiche, emozioni, sostanzialmente identiche, soltanto due potrebbero essere classificati come affetti dal disturbo? E ciò in relazione al fatto di vincere o perdere, e al tempo di durata che può dipendere da un’infinità di circostanze che nulla hanno a che fare con la mente del soggetto? Non credo, e mi pare che anche da questo nasca una necessità di andare oltre la classificazione nosografica, per avvicinarci a una più significativa comprensione del fenomeno.

Il giocatore: dal descrivere diagnostico al comprendere psicopatologico

Avvertiamo perciò la necessità di passare dal semplice descrivere della diagnosi psichiatrica al comprendere psicopatologico per indagare più a fondo i meccanismi mentali sottostanti al giocatore di gioco d’azzardo estremo. E intuiamo che, per questo, dobbiamo esplorare il comportamento del giocatore in altre aree della vita e verificare se gli stessi meccanismi che abbiamo identificato nel suo rapporto col gioco sono ricorrenti anche altrove.

Del resto, non è solo un giocatore, scriveva Dostoëvskij a Strachov, il nostro Aleksej. E’ anche un precettore, si potrebbe dire; ma in questo non lo vediamo mai attivo. Raramente i personaggi di Dostoëvskij maturo sono colti nel momento in cui lavorano. E’ anche un petulante chovinista che ragiona per luoghi comuni; e questo può irritare, ma qui non rileva gran che.

Piuttosto, è un uomo romanticamente innamorato di Polina, e questo sì è interessante. Polina è smisuratamente più intelligente di Aleksej, il quale è qui l’incarnazione di chi ama in modo romantico che, lungi dall’essere esaltato da Dostoëvskij come vorrebbe sorprendentemente il critico Giuseppe D’ambrosio Angelillo[55], ci è mostrato invece nella sua inadeguatezza con lo stesso ironico compatimento, direi, con il quale Cervantes tratta nel Don Quijote l’amore cavalleresco – del quale l’amore romantico non rappresenta infondo che una riedizione – in particolare nelle scene che riguardano il corteggiamento di Cardenio e amici per Marcella e il falso suicidio dell’astuto Basilio per conquistare Chitteria[56].

Il battibecco tra i due che ha luogo nel giardino sembra quello tra un bambino capriccioso e una bambinaia che con fastidio lo sopporta, e a lui che non è in grado di immaginarsi al cospetto di lei altro che schiavo o schiavo riscattato dal denaro, lei replica evidentemente irritata:

 

  • – «Se volete, sì, io dubito che vi crucci qualcosa di serio. Voi potete crucciarvi, ma non seriamente. Siete un uomo disordinato e senza fermezza. A che scopo vi occorre denaro? In tutte le ragioni che allora mi presentaste, non trovai nulla di serio (…).
  • – Lo ripeto, io sono il vostro schiavo, e degli schiavi non ci si vergogna, né lo schiavo può offendere.
  • – Tutte insulsaggini! Io non posso soffrire questa vostra teoria della “schiavitù”.
  • – Prendete nota, che io non parlo della mia schiavitù perché desideri essere vostro schiavo, ma ne parlo semplicemente come di un fatto che non dipende per nulla da me (…). A che scopo il denaro, mi domandate? Come a che scopo? Il denaro è tutto.
  • – Comprendo, ma non bisogna mica, nel desiderarlo, piombare in una simile follia! Anche voi infatti arrivate alla frenesia, al fatalismo. Qui sotto c’è qualche cosa, un qualche scopo speciale.
  • – Nient’altro che questo: che  col denaro diventerò per voi un altro uomo, e non uno schiavo (…). Be’, sì, sì, per me esservi schiavo è una delizia. C’è, c’è una delizia nell’estremo grado dell’avvilimento e dell’annichilimento.(…). Il diavolo[57] lo sa, forse c’è anche nello scudiscio, quando lo scudiscio piomba sul dorso e strappa la carne a brandelli (…). Ma io voglio forse provare anche altri godimenti (…). Io, dal canto mio, forse desidero appassionatamente prendere il marchese Des Grieux in presenza vostra per il naso.
  • – Discorsi da lattante. In ogni situazione ci si può atteggiare con dignità» (Il giocatore, 291-293).

E’ un climax. Dietro le parole dell’amore romantico di lui trapela una venatura dipendente e masochistica, che fa crescere in lei l’irritazione. Ma lui insiste, e l’amore romantico scopre il corno dell’ambivalenza e, subito dietro di esso, il pericolo, l’implicita minaccia, il ribaltamento violento di una così palese asimmetria: follia, suicidio, femminicidio[58]. E ancora insiste:

  • – «Non soltanto non ho forma, ma nemmeno dignità alcuna (…). Non c’è più nella mia testa un solo pensiero umano. Già da molto tempo non so più cosa ci faccia al mondo (…). Poiché non ho alcuna speranza e ai vostri occhi sono zero, lo dico francamente: io vedo dappertutto voi, e il resto mi è indifferente. Per che cosa e come vi ami, non lo so. Sapete che forse non siete affatto bella? (…). Il cuore di certo di voi non è bello; un’intelligenza priva di nobiltà, questo è possibilissimo.
  • – Forse è per questo che fate conto di comprarmi col denaro (…).
  • – Ebbene no, non è punto così. Vi ho detto che mi è difficile spiegarmi. Voi mi schiacciate. Non arrabbiatevi (…). Voi capite perché con me non ci si può arrabbiare: io sono semplicemente pazzo (…). Approfittate, approfittate della mia schiavitù, approfittatene! Sapete che un giorno vi ucciderò? Non vi ucciderò perché cesserò di amarvi o diventerò geloso, ma così, vi ucciderò semplicemente perché qualche volta mi sento trascinato a divorarvi (…). Sapete che anche passeggiare insieme è pericoloso? Molte volte mi son sentito trascinato irresistibilmente a battervi, a sfregiarvi, a soffocarvi (…). Ricordate, ieri l’altro, sullo Schlangenberg[59], vi sussurrai, da voi provocato: dite una parola, e io farò un balzo in questo abisso. Se aveste detto questa parola, avrei allora fatto il balzo. Possibile che non crediate che l’avrei fatto?
  • – Che stupide chiacchere! (…). A che scopo dovrei farvi saltar giù dallo Schlangenberg? Per me è del tutto inutile.
  • – Magnifico! Apposta avete detto questo magnifico “inutile” per schiacciarmi (…). L’uomo è despota per natura e gli piace torturare. A voi piace terribilmente» (Il giocatore, 293-295).

 

E pensa poi tra sé e sé, col che Dostoëvskij intende comunicare al lettore evidentemente che, al di là delle schermaglie, di questo Aleksej è proprio convinto:

«E in quanto allo Schlangenberg, lo giuro sul mio onore perfino adesso: se allora mi avesse ordinato di gettarmi giù, mi sarei gettato! Se l’avesse detto solo per scherzo, se l’avesse detto con disprezzo, sputandomi addosso, anche in tal caso avrei fatto il balzo! “Io vi credo” ella proferì, ma come lei soltanto sa pronunciare a volte, con tale disprezzo e perfidia, con tale alterigia che, perdio, avrei potuto ucciderla in quel momento. Ella rischiava. Anche a questo riguardo non mentii dicendoglielo[60]» (Il giocatore, pp. 295-296).

Poi ancora, è lei adesso a stare al gioco e con straordinaria intelligenza a rilanciare, ma insieme a ricondurre tante farneticazioni – e minacce dirette con leggerezza all’una e all’altro – nel limite di quel che è ragionevole:

 

  • – «Se vi dicessi: uccidete quell’uomo, lo uccidereste? (…).
  • – S’intende, ucciderò. Chiunque voi mi ordinerete, ma potete voi forse… ordinerete voi questo forse?
  • – E cosa credete, che vi risparmierò? Vi darò l’ordine, e io rimarrò in disparte. Sopporterete voi questo? Ma no, come potreste! Voi magari anche ucciderete secondo l’ordine, ma poi verrete ad ammazzare me, perché ho osato mandarvi (…).

Improvvisamente ella scoppiò in una risata (…):

– Vedete quella baronessa grassa? (…) Andate ora, avvicinatevi alla baronessa, levatevi il cappello e ditele qualcosa in francese (…). Giuravate che vi sareste gettato giù dallo Schlangenberg, giuravate di essere pronto a uccidere, se ve  l’avessi ordinato. In luogo di tutti questi ammazzamenti e tragedie, io voglio solo ridere un poco. Andate senza cercare pretesti. Voglio vedere come il barone vi bastonerà.

– Voi mi sfidate; credete che non lo farò?

– Sì, vi sfido, andate, così voglio!

– E sia, ci vado, anche se questa è una stramba fantasia.

Io mi sono voltato e in silenzio andai a eseguire il suo incarico. Certo, era una cosa stupida e, certo, non seppi cavarmela, ma quando presi ad avvicinarmi alla baronessa, rammento che fui io stesso come stuzzicato da qualche cosa, e precisamente mi stuzzicò la monelleria. Ed ero anche enormemente eccitato, come ubriaco[61]» (Il giocatore, pp. 296-297).

E poi, ancora, ripensando alla scena:

«Di togliermi il cappello me lo aveva ordinato lei, ma mi ero inchinato e avevo fatto il monello ormai per conto mio. Lo sa  il diavolo, che cosa mi ci avesse spinto! Mi pareva di volar giù da una montagna» (Il giocatore, p. 299).

Si vola sempre, si precipita, con Aleksej, insomma in qualche modo: da un aerostato sopra Parigi quando la pallina sta girando e non si sa dove deciderà fermarsi; dal precipizio quando è l’amata/odiata a ordinarlo; e ora anche quando, per strada, si consente una trasgressione all’etichetta e soprattutto al buon senso.

Anche nella monelleria, insomma Aleksej non tollera il limite e cerca la sensazione del precipitare, come alla roulette e nell’amore. Esagera, e le cose poi si complicano. Certo, oggi uno scherzo del genere sembrerebbe una sciocchezza, ma nel rigido codice d’onore tardoaristocratico dell’Europa borghese dell’Ottocento uno scherzo del genere, fatto da un precettore a una baronessa, è inaudito, e si arriva a prospettare la possibilità di un duello. E sarebbe per Aleksey la possibilità di passare a una nuova forma, più alta ed eccitante, del gioco d’azzardo, dove in gioco sarebbe direttamente la vita, e lui è naturalmente è eccitatissimo da questa prospettiva. Ma allora è Polina a trovarsi costretta ad assumere controvoglia davvero la funzione tirannica che in amore aveva deriso e rifiutato, col dirgli: basta sciocchezze, adesso devi smetterla. Al che lui, naturalmente, è ben felice di obbedire assumendo così la posizione che agognava e lei non voleva concedergli, quella di un cagnolino al suo guinzaglio.

C’è poi un’altra scena altrettanto rivelatrice della natura dell’amore di Aleksej per Polina e si svolge nella stanza di lui dove la giovane, rovinata dalla fuga dell’amante francese, si è sorprendentemente rifugiata nella speranza – ci pare – di incontrare finalmente un uomo, un amico, uno spasimante maturo e non il solito sciocco giovanotto e aspirante schiavo. Ma anche questa volta, rimarrà delusa. Perché quello che incontra è soltanto un giovanotto immaturo e irresponsabile con la testa piena di insulsaggini, che non sa offrirle altro che esagerazioni, il duello[62] o la roulette, due modi di affidarsi, in fin dei conti, comunque in grembo all’azzardo.

Eccolo, il romantico: le ha promesso mari e monti, e al dunque non c’è perché è impantanato nelle sue insicurezze, i suoi complessi. E scappa dalla situazione dell’essere a tu per tu, alla pari, con lei in una stanza da letto, non regge quella situazione, scappa ed entra nel casinò, e questa volta vince, vince, vince incredibilmente una somma straordinaria, che può finalmente deporre ai piedi di Polina della quale gli pare di aver meritato così stima e amore. Ma lei:

«- Ebbene, eccoteli i tuoi cinquantamila franchi! Ella alzò il braccio e me li tirò addosso (…). Io lo so, ella, certo, in quel momento era fuori di sé, anche se non capisco quella sua momentanea follia (…). Penso che vi ebbe colpa in parte anche la sua vanità: la vanità le aveva suggerito di non prestarmi fiducia e di offendermi, sebbene tutto ciò apparisse, forse, poco chiaro anche a lei[63]» (Il giocatore, pp. 389-390).

Gettare, bruciare il denaro in faccia all’uomo è per la donna un atto di grande orgoglio, assai simile a quello di cui sarà protagonista, ne L’idiota, Nastasja quando getta una grande somma di banconote nel fuoco. Il rifiuto di Polina incenersice quel denaro, determina un’istantanea inflazione da Paese del terzo mondo; il tesoro che doveva permettere ad Aleksej di ergersi in dignità al livello dell’amata diventa, per un suo semplice gesto, carta straccia. Non è con il denaro vinto al gioco, senza merito alcuno, che Aleksej può guadagnare la stima, tanto meno l’amore della ragazza, che in realtà lei gli aveva già dato (e dato tutto!), così, gratuitamente, generosamente, col recarsi nella sua stanza; e che lui si era invece preoccupato di avere i soldi per comprare. Perciò, sarei prudente nell’accogliere l’opinione di  Girard quando trae da questa scena l’idea che, col concederglisi, l’amata abbia perso automaticamente valore agli occhi del nostro precettore[64]. Non è di questo che qui si tratta. Perché tra l’altro lui, a ben vedere, non è precisamente vero che l’avesse abbandonata. Piuttosto, era corso alla roulette per lei, perché si sentiva una volta ancora di lei indegno, impreparato, e voleva ripresentarsi a lei carico del denaro risolutore che potesse farlo splendere ai suoi occhi come un antico eroe. Colui che, soggiogata la fortuna, l’aveva costretta a piegarsi al suo volere e a consegnargli quel denaro da poter così deporre ai piedi dell’amata. Per un attimo sì, certo, preso dal gioco si era perso per strada, era stata la vincita stessa ad affascinarlo per un attimo, ma poi aveva comunque ritrovato la strada ed era a Polina che, ora carico di denaro, aveva fatto ritorno. La situazione è meno schematica, simmetrica; probabilmente più complessa di come il critico francese non la legga.

Ma è tardi! Perché la ragazza in quell’attesa ne ha forse avuto davvero abbastanza! C’è forse in quel momento nella giovane la disperazione di scoprire, ancora una volta, che quell’uomo, nella vita, non ha altra soluzione da offrirle che affidarsi alla pallina; e che, ancora, non riesce a considerarsi degno di lei senza immaginare gesti estremi, dimostrarle un coraggio incosciente compiendo per lei assurdità oppure coprirla di tutto il denaro del mondo. Polina a questo punto sente che, come fin dal primo dialogo aveva intuito, Aleksej non può immaginare di averla altro che comprandola, e non ci sta. E avverte anche, forse, che come in questo momento il caso aveva dato al giovane la possibilità di coprirla di denaro, a un nuovo giro della roulette avrebbe potuto costringerlo a precipitarla con sé nella miseria. E poteva questa fanciulla ironica e intelligente, affidare la sua vita a un tipo simile?

Molto meglio il compassato, saggio e noiosissimo mister inglese, allora; col quale, infatti, si rassegna a partire pagando, però, con una non meglio precisata malattia uno scotto a questa scelta.

L’amore romantico, estremo, che Aleksej sembra nutrire per Polina è la cartina di tornasole che ci consente di comprendere anche la sua passione per la roulette. Per questo, sarebbe pericoloso considerare quella passione come un disturbo a se stante, e non piuttosto la conseguenza di un’organizzazione mentale, di uno stile di relazione, che non può non dare segno di sé anche in altre aree della vita. Perché il gioco estremo è un sintomo, e non è un problema in sé, tanto meno una malattia. Un sintomo rivelatore di altro. E la chiave per comprendere quest’altro, va cercata anche altrove nella vita del soggetto.

Perché davvero, come coglie ancora Girard, con questa intuizione che al contrario dell’altra mi pare ampiamente condivisibile, l’erotismo e il gioco non sono per Aleksej che due diversi aspetti di una stessa “ordalia dell’orgoglio” nella quale “il gioco dell’amore fa qui tutt’uno col gioco dell’azzardo”. E allora, così come è il sentirsi considerato nulla da Polina, lo schiavo o l’eunuco al quale l’imperatrice può mostrarsi nuda come se egli non fosse presente, a rendere il desiderio di lei  tutto per lui; così è anche per la pallina che lo interessa nel momento in cui seduce, si fa inseguire, disprezza, domina e si sottrae, e nel momento in cui si lascia dominare, si concede,  gli viene a noia finché, speso in un modo o nell’altro tutto il denaro, non può ritornare a fare di lei la sua tiranna[65].

Qualcosa fa insomma sì che – e lo ha osservato Mauro Fornaro nel commentare l’atteggiamento del nostro giocatore come di altri protagonisti dei romanzi di Dostoëvskij – nel gioco ma anche in amore: «L’oggetto intenzionato nel desiderio non basta mai: l’idea che, conquistatolo, esso colmi il desiderio, si rivela presto illusoria. Il desiderio punta, come dice il nome, alle stelle (de-siderare), restando così aperto, insoddisfatto. Quest’assenza dell’oggetto adeguato comporta un continuo spostamento dell’oggetto cui mirare, generando una sorta di deriva infinita»[66].

Il giocatore ama giocare per vincere, non aver vinto. E anche nell’atteggiamento di aleksej verso l’amata identifichiamo insomma quelle dimensioni psicologiche ambivalenti che possono di volta in volta essere identificate nel gioco d’azzardo estremo: voler dominare il caso o essere da esso dominato; ingaggiare una battaglia col caso o rassicurarsi della sua benevolenza;  ricevere in dono denaro dal caso o essere da esso multato per punizione; inseguire l’onnipotenza attraverso l’arricchimento magico immediato o essere magicamente spogliato di ogni potere e di ogni cosa; non vivere che per la roulette e maledire la roulette.

All’origine dello stile con il quale ama e gioca Aleksej, insomma – e se vogliamo anche di quello con il quale affronta anche altri comportamenti sociali, come l’atto di teppismo ai danni della baronessa – intravediamo uno stesso meccanismo di funzionamento mentale. Che in questo caso ci sembra rimandare, per quattro ragioni, a un problema riferibile all’area tematica della depressione:

 

  1. La prima è un deficit evidente di autostima, che lo porta a pensare di non essere degno di avere successo nella vita, se non è il capriccio del caso a regalarglielo; ma anche di non essere degno dell’amore di Polina, se non consegnandosi a lei come schiavo o deponendole tutto il denaro del mondo ai piedi. Per questo il gioco diventa per lui un’ordalia senza fine: occorre verificare se veramente la fortuna, della quale è indegno, gli ha dato la sua benevolenza, e poi verificarlo ancora, e ancora in una spirale infinita fino a che la ruota gira. Un’ordalia senza dio, perché non c’è, in essa, alcuna consapevole personificazione del divino; c’è la fortuna, l’ombra del divino che ci è rimasta in una società secolarizzata, una divinità cieca, sorda, impersonale.
  2. La seconda è come una povertà di energia vitale, un sentimento di vuoto interiore che pare risucchiarlo, una perdita di significato e calore delle normali sensazioni, un vuoto al quale soltanto la ricerca di sensazioni forti, estreme (sensation seeking) gli permette di sottrarsi: è questo che cerca in amore, come alla roulette o negli atti di teppismo. Ricerca di sensazioni estreme e di un’ordalia senza fine rappresentano dunque le due cifre più caratteristiche  della sua vita mentale.
  3. La terza è una consapevolezza di non autonomia che comporta la necessità di dipendere da qualcuna o qualcosa che decida per lui, accettando il ruolo impegnativo  di tiranna. Polina e la pallina, in questo, svolgono per lui la stessa funzione, questa. Quella di chi  accetta di essere da lui al tempo stesso adorata od odiata per avere assunto il potere che egli stesso avverte la necessità di conferirle.
  4. La quarta ragione ha a che fate con un tratto evidentemente masochistico: il fatto che il termine tiranno designa non soltanto qualcuno che decide in vece nostra, ma che anche ci impone cose cattive. Un piacere nell’essere dominato in modo sadico dunque, non solo di ricevere la prescrizione, ma di ricevere quella di danneggiarsi o addirittura sopprimersi, che il dominio si trasformi in castigo, in espiazione che alludono a una colpa, castigo ed espiazione per i quali si soffre e, al contempo, si prova voluttà.

 

Il che non significa, beninteso, che la combinazione di questi quattro fattori debba costituire il quadro psicopatologico di tutti coloro che praticano il gioco d’azzardo estremo; ma significa che essi hanno importanza per il singolo caso del quale ci stiamo occupando. E che per ciascun altro caso di giocatore i fattori saranno probabilmente altri, ma non dobbiamo comunque omettere di considerarne l’esistenza. Che ogni giocatore d’azzardo, cioè, non è solo un giocatore d’azzardo.

Sotto ogni giocatore, come sotto ogni gioco, c’è un trucco. E il trucco può essere diverso caso per caso, ma non dobbiamo dimenticarci di guardare sotto il tavolo, l’apparenza che la diagnosi psichiatrica di Disturbo da gioco d’azzardo fotografa, se ci interessa avvicinarci a comprenderlo.

 

 

Note

[1] Su questa illusione, che vedremo ritornare con tanta insistenza tanto nell’esperienza di gioco di Dostoëvskij che dei suoi giocatori, richiamo volentieri per la lucidità il breve scritto, che prende le mosse dal racconto Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe (1842-43): G.S. Monti, A. Solari, Fallacia dello scommettitore, in: Aa. Vv., Ludocrazia. Un lessico dell’azzardo di massa [a cura di M. Dotti e M. Esposito], Milano, 0 barra 0 edizioni, 2016, pp. 97-100.

[2] Una traduzione moderna ((N. Nadeau, M. Valleur, Pascarius ou comment comprendre les addictions suivi du Traité sur le jeu [1561], Montreal, Les presses de l’Université de Montreal, 2014), è citata in: M. Croce, Paradigmi interpretativi, in: Aa. Vv.,  Ludocrazia… cit., pp. 213-228 (p. 213).

[3] J.B.F. Descuret, La medicina delle passioni ovvero le passioni considerate nelle relazioni colla medicina, colle leggi e colla religione (1841), Milano, Oliva, 1861, p.451.  

[4] Ibidem, p. 460.

[5] Ibidem, pp. 460-461.

[6] Cfr. P. de Sanctis Ricciardone, Antropologia e gioco, Liguori, Napoli, 1984; P. de Sanctis Ricciardone, La mossa suicida.. Tormenti e gioie del giocatore, in: Aa. Vv.: L’ultima puntata, suppl.to al quotidiano “Il Manifesto”, 5 gennaio 1989. Il tema è ripreso anche da: M. Croce, Paradigmi interpretativi… cit., p. 213.

[7] S. Casarino, M. Selis, La posta in palio. L’azzardopatia tra letteratura e psicologia, s.l., Amarganta, 2015.

[8] Per fermarmi ai principali riferimenti ricordo quelli a Dante (Purgatorio canto VI, vv. 1-9, anni 1304-1321); Nicolò Machiavelli (Lettera a F. Vettori, 1513); Baldassarre Castiglioni (Il libro del cortegiano, 1528); Pietro Aretino (Le corti parlanti, 1543); Jonathan Swift (The journal of a Modern Lady, 1728) con un meno comune riferimento al gioco da parte delle donne; Antoine-Francois Prévost (Manon Lescault, 1733); Carlo Goldoni (La bottega del caffè, 1750) e Il giocatore, 1751); Giacomo Casanova (Storia della mia vita, 1789-1798); Honoré de Balzac (La pelle di zigrino, 1831); Aleksandr Puskin (La dama di picche, 1834); William M. Thackerey (Le memorie di Barry Lindon, 1840); Charles Dickens (La bottega dell’antiquario, 1840-41); Alexandre Dumas (La signora delle camelie, 1848); appunto Fëdor Dostoëvskij (Il giocatore, 1866); Luigi Pirandello (Il fu Mattia Pascal, 1904); Edgar Lee Masters («Asso» Shaw, uno dei personaggi cui è dedicata l’Antologia di Spoon River, 1916); Alberto Ongaro (La partita, 1925; Arthur Schnitzler (Gioco all’alba, 1927); Stefan Zweig (24 ore nella vita di un uomo, 1927); Joseph Roth (La marcia di Radetski, 1932); Piero Chiara (Il piatto piange, 1962); Beppe Fenoglio (Ma il mio amore è Paco, 1962); Paul Aster (La musica del caso, 1990); Sebastiano Vassalli (Comprare il sole, 2012). E a questi si potrebbero aggiungere Charles Baudelaire (La dama della bisca, 1857), Jorge-Luis Borges (Lotteria a Babilonia, 1941) ec ertamente molti altri nella sterminata biblioteca di Babele che è la letteratura del mondo.

[9] P.F. Peloso, Finché rimane un gioco… Considerazioni sul gioco d’azzardo patologico, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 2, 2005, pp. 83-103.

[10] L. Cancrini, Una tossicomania senza farmaci, introduzione a: F. Dostoëvskij, Il giocatore, Roma, Edizioni dell’Università popolare, 1996, pp. 5-37.

[11] Si vedano, ad esempio, autori di formazione psicoanalitica, come Lindner (cfr.: The psychodynamics of gamblings, in: Aa. Vv., The psychology of gambling [a cura di J. Halliday e P. Fuller[, Londra, Penguin Books, 1974, pp. 217-239). Secondo altri autori, tuttavia (cfr: E. Moran, Pathological gambling, British Journal of Hospital Medicine, IV, 1970, pp. 59-70) la spinta al gioco del giocatore sarebbe diversa da quella di carattere compulsivo, perché non sarebbe avvertita in modo distonico dal soggetto; la definizione di  “gioco d’azzardo compulsivo” sarebbe pertanto da evitare.

[12] WHO (1992), ICD10. Decima revisione della classificazione mondiale dei disturbi psichici e comportamentali, Milano, Masson, 1992, pp. 204-205.

[13] P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov, Il reo e il folle, 9-10, 1999, pp. 309-324 (disponibile anche su Pol. it, http://www.psychiatryonline.it/node/2409.

[14] Il che non significa, ovviamente, che talvolta non possa essere più utile ed efficace affrontarlo sul piano clinico proprio “come se” si trattasse di un disturbo mentale a sé stante.

[15] Il disturbo da gioco d’azzardo è stato associato del resto dai diversi autori che se ne sono occupati all’impulsività, alla ricerca di novità, al discontrollo dell’aggressività, ai sintomi ossessivi, ai deficit dell’attenzione e ai disturbi dell’umore, mentre è stata descritta una frequenza di comorbilità con la depressione, l’ansia generalizzata, la dipendenza da sostanze, i disturbi della condotta alimentare e le nuove dipendenze (cfr.: S. Oliva, Psicopatologia del gioco d’azzardo, Psichiatria oggi. Fatti e opinioni della Lombardia, XVI, 2, 2003, pp. 10-16). In ambito di diagnosi differenziale, non è infrequente che esso possa accompagnarsi a disturbi dell’umore o disturbi di personalità, per esempio sia uno dei sintomi di una personalità sociopatica (A. Milesi, M. Clerici, Gioco d’azzardo, comorbilità e strutture di personalità, in: Aa. Vv., Il gioco & l’azzardo. Il fenomeno, la clinica, le possibilità d’intervento [a cura di M. Croce e R. Zerbetto], Milano, Franco Angeli, 2001), o possa essere sintomatico di uno stato maniacale o di una reazione a vissuti depressivi nell’ambito della psicosi bipolare. In un caso clinico seguito con particolare affetto e partecipazione, nella spinta al gioco confluivano elementi di delirio mistico e megalomanico, di ricerca di scarico dell’eccitamento maniacale e dell’euforia del tono dell’umore, di compenso e gratificazione rispetto a vissuti depressivi in parte primitivi e in parte conseguenza di delusioni, frustrazioni, sconfitte. In altri casi la spinta al gioco non nasce direttamente dai sintomi della malattia, ma da vissuti di noia, delusione, inutilità e umiliazione da parte di chi, a causa di una malattia mentale, si trova ad essere escluso, socialmente inattivo, impedito a relizzare i propri desideri da un reddito estremamente basso, con un meccanismo non diverso da chi, senza che ciò sia conseguenza della malattia mentale, si trova nella stessa situazione. Fatto sta che, per una ragione o per l’altra, da qualche tempo la questione del gioco praticato da pazienti poveri e/o impoveriti è un tormento e una preoccupazione in più nella vita dei servizi di salute mentale. .

[16] Ricordo soltanto in proposito Bergler (The psychology of gambling, in: The psychology of gambling [a cura di J. Halliday e P. Fuller], Londra, Penguin Books, 1974, pp. 175-201) il quale descrive cinque  dinamiche inconsce possibili. Nel primo caso, si tratta di una persistenza dell’onnipotenza infantile con aspetti di oralità, che può nascondere però a livello più inconscio una spinta masochistica alla perdita e una tendenza all’autocommiserazione. Nel secondo, dell’aggiunta a queste caratteristiche di un’inconscia identificazione di tipo passivo-femminile, che determinerebbe una spinta a essere dominato e sconfitto, dall’avversario, o dal caso. Il terzo tipo rappresenterebbe invece una formazione reattiva, una sorta di reazione inconscia alla situazione precedente, che determinerebbe una necessità di riaffermare ripetutamente la propria virilità, della quale si è insicuri, attraverso la vittoria. Il quarto caso è quello del giocatore per senso di colpa, che cercherebbe ripetutamente nella sconfitta la propria punizione (è il meccanismo che Freud  descrisse nel saggio già ricordato su Dostoëvskij e il parricidio). Il quinto, infine, è quello del giocatore distaccato. E Greenson (On gambling in: Aa. Vv., The psychology of gambling… cit., 1974) il quale si concentra sull’ipotetica identificazione tra il fato e il padre: il gioco nevrotico potrebbe corrispondere così a un tentativo di testare, di mettere alla prova l’amore del padre del quale si è insicuri; di soggiogare in modo onnipotente il padre affrontandolo in una sorta di “battaglia col fato”; di sottomettersi totalmente alla volontà del padre consegnandosi alla sua mercé; di ottenere tanto denaro da poter pagare l’amore od il perdono del padre che si sente di non meritare; o, all’opposto, di cercare una ricompensa che si sente di meritare da parte del padre. Un analogo ragionamento sarebbe ovviamente possibile, come nota lo stesso autore, nel caso di problemi con la figura materna perché, se il fato può rappresentare il padre, la fortuna può rappresentare la madre.

[17] Per un aggiornamento rimando comunque, anche per l’ampia bibliografia, a: G. Coriale, M. Ceccanti, S. de Filippis, C. Falletta Caravasso, S. De Persis, Disturbo da gioco d’azzardo: epidemiologia, diagnosi, modelli interpretativi e trattamento,  Rivista di Psichiatria, L, 5, 2015, pp. 216-227.

[18] A partire dal 1872, cioè dopo i viaggi europei di Dostoëvskij, il gioco sarà proibito anche in Germania, e Louis Blanc e le sue roulette dovranno trovare riparo a Montecarlo, ospiti del principe Carlo di Monaco (cfr.: R. Fulop Miller, F. Eckstein, Dostoievski à la roulette, VI  ed. fr., Paris, Gallimard, 1926, p. 11).

[19] F. Dostoëvskij, Epistolario (a cura di E. Lo Gatto), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 150. D’ora in poi: Epistolario,

[20] Quando, in una lettera che vedremo alla moglie, Dostoëvskij colloca quindi l’inizio dei suoi problemi col gioco dopo la morte del fratello, commette evidentemente un errore.

[21] R. Fulop Miller, F. Eckstein, Dostoievski à la roulette… cit., p. 13.

[22] Avrebbe scritto a Majkov il 28/16 agosto 1867: «Già ve l’ho detto. Non potei resistere alla vincita. Se avessi incominciato col perdere 10 luigi d’oro, come m’ero prospettato, avrei lasciato tutto e sari partito. Ma la vincita di 4.000 franchi mi ha rovinato! Non era possibile resistere alla tentazione di vincere di più» (Epistolario, vol. II, p. 49).

[23] A. Suslova, Diario, Milano, Guanda, 1978, p. 56.

[24] Ibidem, p. 58.

[25] Ibidem, p. 66.

[26] E. Goffman, Where the action is, Londra, Penguin Press, 1969, pp. 111-112.

[27] Un’analogia, quella tra passione del gioco e demone, che troviamo anche ne La pelle di zigrino di Balzac (1831).

[28] Così, ancora ad Anna, da Saxon les Bains, il 18 novembre 1868: «Ho perduto tutto. Tutto, tutto! (…). Sii sicura che adesso comincia finalmente un tempo in cui io sarò degno di te, e non ti deruberò più come un abominevole, esecrabile ladro! (…). Io non giocherò più, mai più! (…). Ho impegnato anche l’anello e il cappotto d’inverno e ho perduto (…). Non considerare le mie azioni attuali come leggerezza o poco amore. Dio vede come io sono punito e come mi sono tormentato» (Epistolario, vol. II, pp. 83-85).

[29] E’ una situazione che infinite volte ritroviamo nell’ambito delle patologie da dipendenza, e che non può non farci venire in mente, sotto il profilo letterario, tutte le sigarette accese dallo sveviano Zeno Cosini come ultime.

[30] Si potrebbe pensare, prestando fede a quest’affermazione di Dostoëvskij, che davvero egli fosse spinto al gioco dalla necessità di denaro per la situazione debitoria.O, in modo più complesso, che nel gioco potesse cercare una rivalsa inconscia alla scelta, cui si era costretto per salvare l’onorabilità del nome del fratello, di assumerne i debiti senza esservi giuridicamente obbligato. Ma, in realtà, né l’una né l’altra di queste ipotesi hanno verosimilmente valore, perché l’epistolario ci ha rivelato nelle pagine precedenti che Dostoëvskij giocava e perdeva almeno già dal 1863, quando il fratello era in vita.

[31] Dostoëvskij A.G. (1939): Dostoëvskij, mio marito, Milano, Bompiani. D’ora in poi indicato come: Diario.

[32] «Tutti i ragionamenti di F. M. sulla possibilità di vincere alla “roulette” col suo metodo di gioco erano affatto esatti. Il successo poteva essere completo, se questo metodo fosse stato adoperato da un inglese di sangue freddo, oppure un tedesco, e non da un uomo così nervoso che si lasciava trasportare sempre fino agli eccessi. Oltre al sangue freddo e alla calma, un giocatore di “roulette” dovrebbe disporre di una forte somma per poter sopportare i colpi poco fortunati (…). Dopo una settimana F. M. perse tutto il danaro liquido. Cominciarono allora le nostre giornaliere agitazioni. Ci studiavamo di cavare quattrini da qualche parte per continuare il gioco. Si doveva impegnare le nostre cose. Spesso anche questo non era sufficiente, perché F. M. non sapeva dominarsi e perdeva quanto aveva ricavato (…). Ricordo che, un giorno, F. M. tornò a casa con un portamonete pieno di pezzi da venti talleri, per una somma di 4300 talleri. Questi soldi però non ci rimasero in tasca per molto tempo. F. M. non seppe resistere alla tentazione e, sempre tormentato dal gioco, prese venti pezzi e li perdette sull’istante. Venne a casa per prenderne degli altri, e così per due o tre ore, finché perdette tutto. Fummo obbligati di nuovo a rivolgerci all’agente di pegno (…). I debiti aumentavano e noi ne sentivamo il peso (…). Scrivemmo allora a mia madre chiedendole danaro, che aspettavamo con grande impazienza. Appena arrivarono questi altri soldi lo stesso giorno o l’indomani, furono perduti anch’essi (…)».

[33] S. Freud: Dostoëvskij e il parricidio (1927), in: Opere, vol. 10, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 521-541.

[34] Ed è un ribaltamento, questo operato da Freud tra gioco e lavoro, piacere e dovere, sul quale potrebbe non essere affatto ininfluente l’appartenenza a una cultura borghese che aveva nell’etica del lavoro il suo pilastro. Il gioco è per Dostoëvskij, per quanto sia tormentato e perdente, comunque un gioco; e il suo lavoro, per quanto bello, creativo e gratificante quale lo è quello dello scrittore, comunque un lavoro.

[35] E poche righe dopo aggiunge: «In quanto a guadagno e vincita, gli uomini non soltanto alla roulette, ma dappertutto non fanno che strapparsi o vincersi qualcosa l’un l’altro» (p. 273). Su questo tema, di un’analogia tra il gioco d’azzardo e il mercato capitalistico, credo sia giusto ricordare Huizinga per il quale: «Si gioca alla roulette e si gioca in borsa. Nel primo caso il giocatore ammetterà che la sua azione è un giocare, ma nel secondo no. Comprare e vendere nella speranza di incerte possibilità di aumento o ribasso dei prezzi vale come parte integrante della vita commerciale della funzione economica della società. In ambedue i casi si ambisce a un guadagno. Nel primo si ammette in generale la mera casualità delle contingenze, ma neppure sempre, perché ci sono dei sistemi per vincere. Nel secondo caso il giocatore si lusinga in certo modo di poter calcolare la tendenza futura del mercato. La differenza di atteggiamento spirituale è minima (J. Huizinga, Homo ludens [1938], Torino, Einaudi, 1972, pp. 62-63). Ma anche il giocatore “Asso” Show di Lee Masters, il quale afferma: « Non vidi mai alcuna differenza / fra il giocare a carte per denaro / e il vendere beni immobili / occuparsi di legge, di banca, o di qualunque altra cosa. / Perché tutto quanto è caso» (E. Lee Masters, Antologia di Spoon river, Torino, Einaudi, 1967, p. 53.

[36] «Il giocatore d’azzardo è un ribelle. E’ l’organizzatore di una tempesta privata in una tazza di tè. E’ costante nel suo individualismo; le sue ribellioni si verificano, non durante un raduno politico, ma in splendido isolamento (…).  Senza una necessità interna, talvolta, egli diviene uno specialista nel ridurre i valori borghesi all’assurdo» (E. Bergler, The psychology of gambling… cit., p. 188). Paolo Virno (cfr.: L’occasione pura ai margini della vita vera, in: Aa. Vv,: L’ultima puntata… cit., 1989), tuttavia, ci ammonisce a prendere l’analogia del giocatore con il capitalista, il guerriero o il ribelle, con prudenza: egli condivide infatti con essi l’individualismo senza remore, la perenne incertezza di aspettative, la tendenza alla realizzazione di sé attraverso un tempestivo adattamento a ogni profittevole chance, ma non invece intraprendenza e temerarietà, perché «si limita a simularle nell’angusto scenario di una partita».

[37] «Ecco perché qui si fa una netta distinzione tra il gioco che si dice mauvais genre e quello che è lecito a un uomo ammodo. Ci sono due giochi, l’uno da gentleman e l’altro plebeo, interessato, il gioco di ogni specie di marmaglia (…). Un gentleman, per esempio, può puntare cinque o dieci luigi d’oro, rare volte di più, del resto può puntare anche un migliaio di franchi, se è molto ricco, ma solo per puro gioco, per semplice divertimento, solo per osservare il processo della vincita o della perdita; ma non deve punto interessarsi della vincita stessa. Dopo aver vinto, può, per esempio, mettersi a rider forte, può fare a qualcuno degli astanti una sua osservazione, può persino puntare un’altra volta e un’altra volta raddoppiare, unicamente per curiosità, per osservare le chance, per far dei calcoli, e non per il desiderio plebeo di vincere. In una parola, tutte queste tavole da gioco, roulette e trente et quarante, deve riguardarle non altrimenti che come divertimento, organizzato unicamente per il suo diletto. Lo spirito di lucro e il tranello su cui è fondato, impostato il banco, non deve neppur sospettarli (…). Quest’assoluta ignoranza della realtà e questa innocente maniera di considerare gli uomini sarebbero certamente oltremodo aristocratiche. Io vedevo come molte mammine spingevano innanzi innocenti ed eleganti miss quindicenni e sedicenni, loro figliole, e, munitele di alcune monete d’oro, le istruivano su come giocare. La signorina, vincesse o perdesse, senza fallo sorrideva e si allontanava contenta (…). II vero gentleman, anche se avesse perduto ogni sua sostanza non deve agitarsi. Il denaro dev’essere a tal segno inferiore alla qualità di gentleman che quasi non mette conto di darsene pensiero» (Il giocatore, pp. 273-274).

[38] Simile, ma non proprio uguale, la distinzione operata da Ralph R. Greenson (On gambling… cit., pp. 202-216), tra chi gioca per divertimento o distrazione, e può interrompere quando vuole; il giocatore professionista, che sceglie il gioco per mestiere; il giocatore nevrotico, cioè patologico, che gioca per rispondere a bisogni inconsci e non può interrompere. E’, ovviamente, a quest’ultimo che corrisponde il Disturbo da gioco d’azzardo.

[39] Per Dostoëvskij si veda il brano della lettera a Majkov del 28 agosto 1867, dianzi citato.

[40] Una descrizione che riecheggia quella che Balzac, richiamandosi all’Emilio di Rousseau, stila con disincanto nelle prime pagine de La pelle di zigrino pubblicato nel 1831. E poi è ancora ripresa da Arthur Schnitzler nel 1927 in Gioco all’alba. E devo dire che ho trovato ancora straordinariamente simile negli arredi e nei volti quando, nel 2004, ho vistati a Sanremo la sala della roulette in compagnia di un collega e mi hanno sorpreso il silenzio quasi ecclesiale, la falsa eleganza (ho dovuto farmi prestare una giacca per entrare) e la sproporzione tra questi enormi tavoli e la piccolezza delle fiche, soprattutto quando mi è stato spiegato che alcune di esse avevano il non trascurabile valore di 200 euro.

[41] Mi pare suggestivo, a questo riguardo, che in una delle testimonianze riportate da Casarino e Selis il giocatore d’azzardo estremo sia anche appassionato di deltaplano; così esordisce la sua autopresentazione : «L’aria mi sferzava il viso. Vedere la terra dall’alto è sempre stato uno dei miei desideri più grandi. Mi aveva impressionato, fin dalle elementari, la storia di Leonardo da Vinci con i suoi prototipi di macchine volanti come il “grande nibbio” o la “struttura alare articolata”. Da qui la mia fascinazione per “le cose che ti fanno volare”» (M. Casarino e M. Selis, La posta in palio…cit., p. 225).

[42] O. Fenichel, The psychoanalytic theory of the neurosis, New York, W.W. Norton, 1945 (trad. it.: Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Roma, Astrolabio, 1951).

[43] Ed è una vertigine, questa del giocatore, densa di suggestioni antropologiche perché affonda le sue radici antiche, nei tempi nei quali l’uomo scoprì le leggi (o meglio l’assenza di leggi) che regolano il caos e imparò, al contempo, a lasciarsi trascinare nel gioco. E come scrive R.K. Salinari (Azzardo, teoria del gioco d’, in: Aa. Vv., Ludocrazia…. cit., pp. 43-51[p. 48]): «Nelle civiltà primitive o protostoriche, prima che nascesse il pensiero che pensa se stesso, la filosofia, i giochi erano dunque legati alla ricerca della vertigine, cioè dell’estasi che consentiva di raggiungere, anche se per un solo istante, la visione, l’epopteia come viene definita nei Misteri orfici in Eleusi, l’incontro con la Grande Madre, la Potnia che allora governava le sorti di tutto il creato. La visione dell’oggetto bramato avveniva dunque sull’orlo dell’imperscrutabile, e per questo veniva abbinata alla “maschera”, cioè al volto stesso dell’invisibile, legata alla manifestazione di quelle stesse potenze che dominavano, indominabili, la vita degli uomini».

[44] Vedi lettera ad Anna del 28 aprile 1871, con la quale Dostoëvskij smette di giocare: «e non fantasticherò per notti intere intorno al gioco, come è stato finora». Ma non posso, a questo proposito, omettere anche il racconto di una delle mie pazienti, la quale mi ha confidato recentemente che, nei periodi nei quali gioca più spesso, nel dormiveglia è continuamente tormentata dalla musica della sala giochi e dl rumore delle macchinette.

[45] R.K. Salinari, Azzardo, teoria del… cit., p. 50.

[46]Un’osservazione, questa di Astley, che ci rimanda, sorprendentemente, a quello che sarà poi per Freud il metodo delle libere associazioni, uno degli strumenti principali per l’esplorazione dell’inconscio.

[47] Cfr. la citazione precedente, da pp. 407-408, nella quale Aleksej usava nel descrivere se stesso la medesima espressione.

[48] Cfr. L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo. Tre saggi di analisi esistenziale (1956), Milano, Garzanti, 1978.

[49] Evidente esempio della tendenza al rituale e al pensiero magico che è, come abbiamo accennato, una delle caratteristiche che più spesso accompagnano il gioco d’azzardo.

[50] Domani, domani… E trova così qui conferma in questa battuta conclusiva della vicenda di Aleksej la regola per cui, come scrisse Gilles Deleuze, alcoolista è colui che «non può smettere di smettere di bere» e, potremmo osservare con Italo Svevo, tabagista è chi «non può smettere di smettere di fumare» o ancora, come suggerisce appunto Pietro Barbetta nell’approfondire questo “paradosso della volontà”, giocatore è chi «non può smettere di smettere di giocare» (P. Barbetta, Dipendenza e addiction, in: Aa. Vv., Ludocrazia… cit., pp. 79-84 [p. 82]).

[51] Ricordiamo però, per inciso, che questo caso è stato commentato dallo psicoanalista  Bergler (op. cit.) per farne un prototipo della giocatrice, e ipotizzare in lei un masochismo inconscio che la porta a misurarsi ripetutamente con una madre interna crudele.

[52] E di nuovo, come ne Il giocatore: «Non capisco cosa mi spingesse, ma ero spinto ineluttabilmente. Oh, mai questi uomini, questi visi, questi croupier, quei gridi del gioco, tutta quella turpe sala in casa Zerscikov, mai tutto ciò mi era parso così disgustoso, così tetro, così triste e grossolano, come stavolta! Mi ricordo fin troppo la pena e la tristezza che durante quelle ore mi assalivano il cuore alla tavola da gioco. Ma perché non me ne andavo? Perché sopportavo ciò come se avessi accettato in sorte un sacrificio, un eroismo? Dirò una cosa sola: difficilmente potrei dire che il me stesso d’allora fosse di mente sana» (L’adolescente, p. 391).

[53] Ed è, probabilmente, questa la condizione emotiva che Dostoëvskij inseguì per tutta la sua vita di giocatore, persuaso che, come scrive René Girard: «La roulette, come la  donna, maltratta coloro che si lasciano affascinare da lei, coloro che hanno troppo timore di perdere. Essa non ama che le persone felici. Il giocatore che si accanisce, al pari dell’amante infelice, non riesce mai a risalire la china fatale» (R. Girard, Dostoëvskij dal doppio all’unità (1963), Milano, SE, 1987, p. 59).

[54] Cfr. quanto poc’anzi osservato a proposito de Il giocatore.

[55] G. D’Ambrosio Angelillo, Dostoëvskij. L’uomo del sottosuolo, Acquaviva delle Fonti, Acquaviva, 2004, pp. 344-389.

[56] P.F. Peloso, Il vetro, il libro, la spada. Stramberia e delirio in due personaggi di Miguel de Cervantes, Collana di Studi e Memorie dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 2017, pp. 54-58. Vedi anche: P.F. Peloso, Omaggio a Migeuel de Cervantes nel IV centenario della morte, scaricabile dalla rubrica “Pensieri sparsi” della rivista Psychiatry on line – Italia: http://www.psychiatryonline.it/node/6198 Il Don Quijote è citato esplicitamente da Dostoëskij ne L’idiota. Non sappiamo, tuttavia, se possa avere avuto un’influenza diretta anche in questo caso.

[57] Possiamo qui pensare: l’inconscio?

[58] Rimando, a questo proposito, al saggio personale: P.F. Peloso, Amore, morte, morte dell’Io. Il mal d’amore da categoria diagnostica a esperienza psicotraumatica, in: La cura delle malattie: itinerari storici/Treating illness: historical routes (a cura di A. Guerci), Genova, Erga, 1998, pp. 297-311.

[59] Secondo ciò che ho potuto reperire, Schlangenberg è il nome di una collina alta 276 meri s.l.m. Non sembrerebbe esserci nessun abisso nei pressi e, quindi, il nome è forse soltanto preso a prestito da Dostoëvskij. Seondo D’Ambrosio Angelillo (L’uomo del sottosuolo… cit., p. 365), invece, il nome del monte rappresenta una storpiatura di Schwartzenberg, un monte della Baviera.

[60] E non scherzava davvero il giovanotto, perché il romanzo di Dostoëvskij è un mondo pericoloso: tre anni dopo, ne L’idiota, un altro degli eroi di Dostoëvskij, Rogozin, arriverà davvero a uccidere Nastassja, la donna romanticamente amata.

[61] Gioco d’azzardo, amore, trasgressione: sono dunque tre aree diverse della vita nelle quali Aleksej mostra lo stesso problema, una necessità di sfidare il limite.

[62] «Ma come potevate mai amare De Grieux? Oh il vile, il vile! Bene, se volete, io lo ucciderò in duello!» (Il giocatore, p. 378).

[63] Ciascuno dei due, evidentemente, si sta muovendo sulla base di agiti delle cui motivazioni è inconsapevole.

[64] R. Girard, Dostoëvskij dal doppio all’unità… cit., p. 58.

[65] Ibidem, pp. 58-59.

[66] M. Fornaro, La figura del giocatore in Dostoevskij: analisi storico-psicologica di un caso esemplare, Psicoterapia e scienze umane XXXVIII, 2, 2004, pp. 211-222.

 

[cite]

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philosophy and social criticism
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