philosophy and social criticism

Sfere: il De Ludo Globi di Peter Sloterdijk

"Peter Sloterdijk, Globen"

di Marco Dotti

Nota su: Peter Sloterdijk, Sfere I, II, a cura di Gianluca Bonaiuti, Raffaello Cortina, Milano 2014

«Nessun animale crea una sfera», solo l’uomo. Nel De Ludo Globi, terminato nel 1463, anno che ne precede la morte, Nicolo Cusano mette in scena un dialogo su un gioco – così afferma – «scoperto da poco e da tutti compreso».

Non è un gioco qualsiasi, tutt’altro: è ludus globi, il gioco della palla o della sfera. Disegnati a terra, nove cerchi concentrici delimitano il campo su un piano circolare. Al centro, la figura di Cristo. La palla, lanciata dai partecipanti al gioco, si muoverà – così Giovanni, figlio del duca di Baviera, uno dei dialoganti che Cusano mette in scena nell’operetta filosofica – «come dalla tenebra alla luce», percorrendo i nove cerchi. Dove si fermerà la sfera? In quello esterno, che è segno di caos e imperfezione? O nel secondo cerchio, che è quello della virtù elementare? O nel terzo, che delimita la virtù minerale, a cui seguono quello della virtù vegetativa, della virtù sensibile, della virtù immaginativa, della virtù razionale? O, invece, arriverà al cerchio della virtù dell’intelletto– il più vicino al centro della perfezione e al contempo il più distante dal caos esterno? Ogni corona circolare ha un punteggio e il punteggio per la vittoria è fissato da Cusano nel numero trentaquattro.

Mappe che rotolano

Una palla segna la circostanza e sussume il rischio di fallire ma, nella complessa riflessione di Cusano, è proprio in questo scarto accidentato, in questa inevitabile perdita di controllo del giocatore sul gioco stesso e sulle circostanze che qualcosa accade e il gioco si compie. Non è un caso che la palla sia detta, nel latino di Cusano, globus, sfera. Globus rimanda alla speculazione sull’ultima sfera dell’universo, mossa da un moto perpetuo. Ma la palla del gioco del cardinale Cusano non è perfettamente sferica. È una sfera imperfetta, che segna in tal modo una traiettoria inevitabilmente eccentrica: da un lato, infatti, è concava. Dall’altro, convessa. La si direbbe una mezza sfera – si sa, la perfezione non attiene agli umani se non come aspirazione -che imprime al movimento un andamento a spirale e, nell’incedere elicoidale consegna il rapporto tra infinito e finito – ossia tra l’irraggiungibile centro del gioco e i cerchi che vi si avvicinano – all’accadere inintenzionale che Cusano chiama  fortuna.

La natura non fa salti, ma una una sfera imperfetta sì e nel mondo intermedio, tra l’esterno e il centro, il tragitto dall’imperfetto al perfetto è frastagliato di rischi di matrice ontologica, prima ancora che fisica.

"Peter Sloterdijk"Scrive il Cusano che, questo, «è un gioco che tutti giocano volentieri, perché offre un divertimento prolungato dovuto al procedere diverso e mai sicuro della palla, in quanto mai accade che la palla proceda in modo sicuro secondo l’ordine che ci siamo proposti». La matrice speculativa del gioco e del rischio di questo “mai sicuro” è tipicamente umana. Nessun animale «crea una sfera», scrive infatti Cusano. Ma se nessun animale può creare una sfera, commenta Peter Sloterdijk, nel secondo tomo delle sue Sfere, da poco riedite da Cortina, «men che meno è in grado di giocare e prendere la mira con una sfera».

Dimensioni sferopo(i)etiche

Per il filosofo tedesco la globalizzazione – che chiama anche “sferopoiesi” – avanza come la sfera lanciata sul piano dai giocatori immaginati da Cusano. La sferopoiesi, lungi dall’essere un evento segnato dall’epoca e, come tale, consegnato alla fase terminale del XX secolo, è piuttosto «l’avvenimento fondante del pensiero europeo, che da 2500 anni non smette di provocare sconvolgimenti nelle condizioni di vita e di pensiero».

La globalizzazione, come nel coup de dés di Mallarmé gettato in mare aperto (“ogni pensiero emette un lancio di dadi”) , con il lancio della palla di Cusano, su cui Sloterdjik ampiamente si sofferma, è una apertura in cui si insinua il pensiero.

Come fra il concavo e il convesso della semisfera di Cusano si produce un attrito, nella sfericità del monso questo attrito talvolta coincide col pensiero stesso, come più volte ribadito da quel Max Bense a più riprese citato da Sloterdijk, che ne legge un importantw proclama giovanile alla stregua di un appello all’ “etica intellettuale della globalizzazione”.

«Capisce la globalizzazione», osserva l’autore, «solo chi si apre all’idea che la figura del pensiero della sfera è una questione seria dal punto di vista ontologico e, quindi, anche tecnico e politico. Pensare significa: giocare un ruolo nella storia di questa serissima questione. Questa storia seria è la storia dell’essere». Qui, per Sloterdijk, essere non è in rapporto a un tempo qualsiasi o al tempo esistenziale per la morte o in vista della morte. È «il tempo che ci vuole per comprendere che cosa sia lo spazio: la sfera più reale di ogni altra cosa».

Con l’irruzione nella vita dell’uomo di ciò che i greci chiamavano sphaira e i latini globus, termina per Sloterdik il tempo della confusione e delle storie disperse in filamenti di tempo. L’uomo che pensa è già nella post-storia. La complessa e magmatica operazione di Sloterdijk che a partire dal 1998 ha preso corpo nella trilogia di Sphären (Bolle risale al 1998, Globi al 1999 e Schiume al 2004) si configura come una lunga teoria sferocentrica che ha al proprio cuore un puctum dolens non così pacifico e non così certo: la condizione per cui lo spazio ha (o avrebbe) assorbito il tempo. In questo senso, Sloterdijk legge l’intera storia della civiltà occidentale attraverso stadi di un complessivo processo di globalizzazione che, oggi, è giunto a uno stadio o condizione terminale: lo stadio del denaro, dove in luogo di caravelle e navi lanciate su mari alla ricerca di terre incognite abbiamo il movimento del denaro lanciato sulla superficie del globo terracqueo.

Gli uomini, come «animali che creano e abitano la sfera» sono da tempo immemore chiamati alla sfida della «geometrizzazione dello smisurato». Per questo, anche dinanzi alle sfide di uno smisurato che (apparentemente?) deforma ogni geometrizzazione, la sfida, annota Sloterdijk resta sempre e ancora quella di «cogliere il proprio spazio esprimendolo nel concetto».

Delle tre forme specifiche della globalizzazione individuate da Sloterdijk, la prima è quella della fisica antica, «l’illuminismo cosmologico dei pensatori greci», che racchiude il cosmo in una sfera o in una molteplicità di sfere. Si pensi, qui, all’immagine del celebre mosaico di Torre Annunziata, risalente al I secolo a. C. che ritrae sette sapienti in un consesso filosofico attorno alla sfera, là dove, attraverso contemplazione e pensiero, culto e discorso -ed è una delle rarissime volte in cui questa fusione avverrà in forme felici – si fondono l’uno con l’altro, senza ostacolarsi a vicenda. La seconda, coincide con la crisi della prima e sfocia nella globalizzazione terrestre del XVI secolo, che Sloterdijk legge anche come crisi del modello aristotelico-platonico e con la crisi di cui, in qualche modo, proprio il De Ludo Globi di Cusano si fa lucido anticipatore. L’età moderna legge così il mondo attraverso la mappa. Ma, mentre rilegge il mondo, lo riconfigura attraverso dinamiche espansive di scoperta, conquista e potenza che danno luogo a una “grande narrazione” che si concretizza nella passio per le Storie universali.

La terza manifestazione del processo di globalizzazione si rende evidente ai nostri giorni, dove la circumnavigazione del globo, da sempre affiancata dalla circolazione del denaro, si trova scalzata dal denaro stesso nelle sue forme di flusso immateriali e dall’ipercircolazione delle immagini.

Flussi di denaro e di capitale sovrastano i luoghi, li comprimono. La sfera è vuota, la perfezione non è più localizzata al centro, ma – eventualmente – fuori dal tutto.

Uranos, Kosmos, Sloterdijk

Dall’Uranos o Kosmos contemplato, come matrice di piena bellezza, dei geometri e dei filosofi antichi si passa alla globalizzazione in Età Moderna che unifica la terra, attraverso la nuova percorribilità dei mari. Questa seconda globalizzazione sarebbe «cosa da cartografi» e «avventura per marinai», divenendo in seguito materia di preoccupata attenzione per economisti, climatologi o «altri esperti in questioni accidentate e confuse». Sono loro, non più i metafisici a dover ridisegnare il profilo del mondo. Si arriva così all’inizio di quella che, a torto, considereremmo la “vera” globalizzazione, ma ne costituisce casomai l’epifenomeno: la globalizzazione elettronica avviatasi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Qui non sono più uomini, ma segni e segnali a solcare il mondo. Il requiem suona, ma non per i media, bensì per il messaggio. La terra vista dallo spazio concretizza nella dura evidenza del reale ciò che già Colombo aveva intuito: «nel rotondo spazio terrestre tutti i punti hanno lo stesso valore». Ed è qui che, secondo Sloterdijk, il pensiero spaziale della Modernità subisce una radicale e irreversibile neutralizzazione. Improvvisamente si comprendono le parole di Heidegger: «il tratto fondamentale del mondo moderno è la conquista del mondo risolto in immagine». Dove il termine immagine significa «configurazione della produzione rappresentante».

Ciò che alla fine del XX secolo veniva ancora magnificato o mitizzato e, oggi, viene sempre più screditato anche da magnificatori e mitizzatori dell’altro ieri sotto il nome di “globalizzazione”, nella lettura di Sloterdijk non rappresenta affatto una novità. Casomai è «momento tardivo e confuso di eventi la cui vera dimensione diverrà visibile quando si comprenderà l’epoca moderna, in tutte le sue conseguenze, come passaggio dalla meditativa speculazione sulla sfera alla prasi del suo rilevamento. (…) Che cosa significhi davvero globalizzazione terrestre si rende evidente se in essa si riconosce la storia di un’alienazione spazio-"Peter Sloterdijk"politica che sembra irrinunciabile per chi vince, insopportabile per chi perde e inevitabile per entrambi».

La sfera, che per i greci era simbolo saturo, oggi è segno di un tempo vuoto. Nell’aprile del 1777, rivolgendosi alle generazioni future, un giovane Goethe evocò una doppia pienezza disegnando facendo erigere per il giardino della sua casa, a Weimar, un “Altare alla buona fortuna”. Una sfera in pietra in equilibrio su un cubo – questo l’altare di Goethe – sembra racchiudere, tra due simboli di totalità, un enigma in costante apertura. Se Cusano poteva ancora scrivere: «ho tracciato nel centro del campo il circolo nel cui centro è il seggio del re, ed il suo regno è il regno della vita», che ne sarà – si chiede Sloterdijk con Goethe – della sfera in un’epoca senza re? Che cosa ne sarà dei re in un’epoca senza sfera? Su questa alienazione spazio-politica il discorso si fa ulteriormente complesso.

Nella sua avanzata, infatti, la globalizzazione ha fatto saltare strato per strato tutti gli involucri in cui la vita si è rinchiusa in funzione autoprotettiva. La globalizzazione terrestre – segnata dal ritorno a quello che, dopo la prima circumnavigazione, nel 1522, verrà guardato come il “Vecchio Mondo” – ha fatto esplodere l’esterno in ogni punto, dando luogo in età moderna a quella che Sloterdijk chiama “catastrofe delle ontologie locali”: villaggi, città protette da alte mura, intere regioni divengono punti sulla superficie della sfera, da “paesaggi locali” si trasformano in transiti di sconfinati traffici di capitale “che qui compie i passaggi della sua quintuplice metamorfosi in merce, denaro, testo, immagine e notorietà”.

Dalla sfera speculativa dei filosofi greci, “forma di protezione all’interno”, si passa, nel moderno, a un globo che non offre più protezione né riparo. La sfera è abitabile solo à l’extérieur. Non vi è altro che l’aperto, nessun Weltinneraum, nessuno spazio interno del mondo. Solo un fuori. Quel fuori di cui già i giocatori di Cusano facevano esperienza, praticando l’irraggiungibile centro della sfera.

[da il manifesto, 3 dicembre 2014]

tysm literary review

vol. 14, no. 20

november 2014

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