philosophy and social criticism

Un nuovo paradigma: Trump e poi?

Christian Marazzi

“Quando il futuro ha esaurito le promesse, ciò che vince è la voglia di passato”, così ha scritto un banchiere anonimo riflettendo sulla svolta politico-economica che il nuovo presidente statunitense Donald Trump sembra voler imprimere agli Stati Uniti, e quindi al mondo intero (pagina99, 12 novembre 2016). Benché ancora presto per valutare la portata storica di questo cambio di regime, viste anche le peculiarità del nuovo presidente, alcune indicazioni provengono dalle reazioni quasi immediate dei mercati finanziari. Cosa ci dicono, per il momento, i mercati?

Mr. Trump ha promesso un forte stimolo fiscale per rilanciare la crescita economica americana, sia con una forte riduzione delle imposte sugli alti redditi e sul capitale, sia con un altrettanto forte aumento della spesa pubblica per investimenti infrastrutturali. Assieme, queste due misure portano diritti all’aumento dei deficit pubblici e di conseguenza dei tassi di interesse a causa del probabile aumento dell’inflazione. In tale prospettiva, gli investitori cosa fanno? Si precipitano a vendere i titoli a reddito fisso, in particolare i Buoni del Tesoro, i cui tassi d’interesse, cioè i rendimenti, sono inversamente proporzionali al loro prezzo. E infatti, in questi giorni i rendimenti dei bonds, cioè dei titoli obbligazionari americani, inglesi e giapponesi, sono aumentati, causando perdite pari a mille miliardi di dollari a quei grandi investitori istituzionali che ne detengono in grandi quantità. Come, ad esempio, i fondi pensione.

La fuga dai buoni del tesoro, a sua volta, comporta la corsa all’acquisto delle azioni, in particolare quelle legate al settore industriale destinato a beneficiare direttamente o indirettamente degli investimenti in infrastrutture pubbliche. Anche le azioni del settore bancario dovrebbero beneficiare dell’aumento dei tassi di interesse, dato che i profitti bancari aumentano se aumenta il costo del denaro.

Il punto cieco di questo smottamento dei mercati è il dollaro che, come sta già accadendo, potrebbe rivalutarsi di non poco sulla falsariga di una crescita più robusta e di politiche monetarie restrittive. Se così sarà, saranno i settori industriali orientati all’esportazione che verranno penalizzati, il che potrebbe impedire a Mr. Trump di mantenere le promesse di rilancio dell’occupazione per una parte importante del suo elettorato, quello che maggiormente ha subito gli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione delle industrie. La pressione per aumentare le tariffe all’importazioni, promesse da Trump ma di difficile applicazione, non mancherà certo di farsi sentire. E non è detto che, anche in questo caso, a trarne vantaggio saranno i ceti medi e bassi, dato che il potere d’acquisto dei loro redditi è aumentato in questi anni proprio grazie ai beni low cost importati da paesi come la Cina. Non è un caso se il settore più esposto alla globalizzazione, quello tecnologico, è quello che più rischia dalla svolta trumpiana. Con un dollaro rivalutato, quel 40% dei profitti statunitensi realizzati all’estero diminuirebbe, vanificando i vantaggi derivanti dagli sgravi fiscali.

Non ci resta che sperare che il nuovo paradigma non si riveli un ritorno al passato.

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 32, issue no. 34, november 2016
issn: 2037-0857
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