¡Qué viva Bolaño!
di Marco Dotti
Nonostante le migliaia di libri venduti, le traduzioni in quasi tutte le lingue d’Europa e un crescente successo persino negli Stati Uniti dove, chissà per quale ragione o perversione profonda piacciono più gli “scrittori scomparsi” degli scrittori di cui si conoscono volto, generalità e conto in banca, la figura dell’autore tedesco Benno von Arcimboldi restava avvolta nel mistero. Di lui e della sua vita – ci informa Roberto Bolaño in apertura di 2666 – praticamente nessuno, neppure il suo editore di riferimento sapeva granché. I libri di Arcimboldi venivano pubblicati senza fotografie personali sul risvolto o sulla quarta di copertina, i dati biografici quasi non esistevano, non si conosceva nemmeno il suo grado di istruzione e persino ai contabili delle case editrici, che dovevano corrispondergli i proventi o trasmettergli – ma dove? – i rendiconti dei diritti d’autore, il suo indirizzo era tenuto segreto.
All’inseguimento di un’ombra
C’era, come sempre avviene in casi del genere, chi sosteneva di averlo riconosciuto mentre rovistava nella spazzatura, o si esibiva en travesti in un circo di frontiera, improvvisando numeri da prestigiatore per pochi spettatori, disperati quanto o forse più di lui. Ma poi c’era chi, più prosaicamente, lo dava ormai nella schiera dei vinti, ossessionato da creditori e prostitute, intento solo a consumarsi nel retroscena più abietto del sogno americano. A volte – suggerisce con malizia Bolaño, che in Arcimboldi tratteggia il proprio profilo in contro luce – “qualcuno pensa di vedere un leggendario scrittore tedesco. In realtà ha visto solo un’ombra, forse ha visto la propria ombra che torna a casa ogni sera per evitare che l’intellettuale schiatti o si impicchi nell’androne “. Allora, prosegue, ci si illude e “su questa convinzione si basa la propria felicità, il proprio ordine, la propria vertigine “. Nonostante le voci sulla sua sorte si susseguissero a cadenza regolare, ogni pista presa da chi intendesse sapere di più sulla reputazione e sul conto di Benno von Arcimboldi non faceva che generarne altre.
Sulle piste dei critici
Forse, suggerisce in una pagina del suo libro Bolaño, basterebbe mettersi alla ricerca di Arcimboldi con la stessa disposizione d’animo e la stessa predisposizione al pericolo che nel 1901 spinse Marcel Schwob, gravemente malato, a rischiare la vita imbarcandosi in direzione di una oscura isola del Pacifico, per rendere omaggio alla tomba di Robert Louis Stevenson. Salvo poi, una volta arrivato, dimenticarsi completamente delle ragioni del viaggio e non recarsi affatto sulla tomba dello scrittore inglese. Il viaggio e la scrittura, in fondo, sono due diverse maniere di abbandonarsi nel dedalo dei propri labirinti mentali.
È alla continua costruzione e all’altrettanto costante disarticolazione di questo labirinto di voci indistinte, di immagini e fatti apparentemente inattaccabili da qualsiasi interpretazione, di figure che generano altre figure ogni volta un po’ più nere e deformi, che Roberto Bolaño – cileno “perennemente in esilio”, scomparso a Barcellona nel 2003 – dedica la prima sezione del suo lavoro postumo 2666, sezione titolata La parte dei critici. Si tratta di una grande “resa dei conti”, più con il lettore in verità, che con i critici a cui il titolo accenna: uno scoglio, una prova di forza, per vedere chi resiste e chi riesce ad averla vinta, quasi Bolaño si divertisse a mostrare la sua straordinaria capacità di bluffare e nascondere le carte nel gioco della scrittura.
Pubblicato in Spagna pochi mesi dopo la morte di Bolaño, composto da cinque parti – le prime proposte ora al lettore italiano, le ultime due annunciate, sempre da Adelphi, per l’autunno del prossimo anno – 2666 è una opera complicata e febbrile, non solo per le molteplici e, manco a dirlo, deliranti trame che la attraversano (chi abbia letto Monsieur Pain, conosce la passione dell’autore per le trance, il mesmerismo e le descrizioni da incubo).
Bolaño, infatti, più che indulgere allo sperimentalismo, gioca abilmente seguendo trame parallele spesso solo abbozzate e si concede a un registro di narrazione che si definisce e si chiarisce in progress, solo nel corso delle oltre mille pagine di cui consta l’edizione originale di 2666.
Prima di riconoscere al lettore il suo legittimo “diritto” al piacere del testo e alla lettura – la Parte di Amalfitano e la Parte di Fate mostrano una notevole capacità di raccontare storie, almeno quanto la Parte dei critici rivela una assoluta maestria nell’abbozzarle e nel decostruirle – Bolaño pretende di esercitare per sé un altrettanto legittimo diritto a perdersi nella scrittura, vincolando il lettore a una sorta di condizione di reciprocità, spingendolo nel buio proprio mentre questo gli rivela la propria fiducia. Scrivere, osservava, ” non significa scrivere bene, perché questo lo può fare chiunque, e neppure scrivere meravigliosamente bene, perché anche questo lo può fare chiunque. Allora, che cosa è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: essere in grado di cacciare la testa nel buio, essere capaci di saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è essenzialmente un mestiere pericoloso “.
Avventurandosi alla ricerca di Benno von Arcimboldi, i critici (inizialmente quattro, altri si aggiungeranno nel corso della storia) descritti da Bolaño si trovano irrimediabilmente coinvolti in un gioco più grande di loro, conseguenza diretta del ” mestiere pericoloso ” di scrivere e, suggerisce l’autore, della fatica di leggere, esercizio – fatte le debite proporzioni – egualmente pericoloso. Eppure, nessuno fra gli studiosi e i traduttori che, da un convegno all’altro, discutevano accanitamente sull’opera di Arcimboldi, interrogandosi con altrettanto fervore sulla sua vita, lo aveva mai incontrato vis à vis. Neppure il più accorto di tutti, l’italiano Pietro Morini che spesso, tornando in treno a Torino dopo avere preso parte a qualche incontro internazionale ” fra arcimboldiani “, si abbandonava a strani pensieri: esisteva davvero, Benno von Arcimboldi? Se sì, chi era? Un fantasma o, piuttosto, un disertore della Seconda guerra mondiale che non aveva mai smesso di disertare, un esiliato in fuga perenne che ora fuggiva da ogni immagine di sé, “un tipo che voleva conciliare l’inconciliabile” , “uno scrittore di sinistra” , insomma,”rispettato anche dai situazionisti”? Ma, soprattutto, a che cosa si doveva l’entusiasmo che nasceva da una lettura tanto “contagiosa” e perché le tracce del misterioso scrittore tedesco che si perdevano a Palermo si ritrovavano a poche settimane di distanza in qualche zona remota e terribile del deserto messicano? Parlando di cucina, Morini lasciava da parte i pensieri e finiva col trascorrere “le ore del viaggio alla lettura del supplemento culturale del manifesto”. Fu proprio leggendo un articolo del manifesto che Morini si imbatté per la prima volta nella notizia di centinaia di terribili omicidi di giovani donne commessi fra Chihuahua e lo stato del Sonora, nel Messico nord- occidentale, in particolare a Juárez (che nel libro diventa Santa Teresa), la città di confine tagliata dal Rio Grande che gli americani ancora si ostinano a chiamare El Paso del Norte. Letto il giornale, Morini “pensò alla giornalista del manifesto e gli parve curioso che fosse andata nel Chiapas, che si trova nell’estremo Sud del paese e avesse finito per scrivere sui fatti del Sonora che, se le sue conoscenze non lo ingannavano, si trova nel Nord” . Infine, “se la immaginò mentre viaggiava in corriera, se la immaginò stanca dopo avere passato una settimana nelle selve del Chiapas. Se la immaginò mentre parlava con il subcomandante Marcos. Se la immaginò nella capitale. Là qualcuno doveva averle raccontato che cosa stava accadendo nel Sonora. E lei, invece di prendere il primo aereo per l’Italia, aveva deciso di comprare il biglietto di una corriera e imbarcarsi in un lungo viaggio verso nord”
Morini – ci informa ironicamente Bolaño, che in questa figura tratteggia il profilo del suo amico e traduttore italiano, Angelo Morino – era gravemente malato, quasi cieco e costretto su una sedia a rotelle, ma nonostante tutto si rivelava affabile e di buon umore, soprattutto quando conversava di Alfonso Reyes e di suor Juana de la Cruz, che conosceva molto bene e sulla quale “non poteva dimenticare” il libro scritto dal suo quasi omonimo Morino – Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, realmente edito da Sellerio nel 1999.
Lo stesso Morino – quello reale, non il suo “doppio” grottesco – in una nota che accompagna l’edizione italiana di uno dei libri di Bolaño più noti ai lettori italiani, Notturno cileno (Sellerio, 2003), invitava a seguire, senza fidarsi troppo, i continui inviti dello scrittore cileno a operare una “risalita dal romanzo alla realtà”. Ciò nonostante, pur non dicendo nulla o non favorendo una maggiore comprensione delle sue opere, questo processo può rivelarsi utile per illustrare il metodo compositivo dell’autore cileno. In 2666, il filo con la realtà è costituito dai terribili omicidi di Santa Teresa e dalla presenza costante, anche quando evocata sottotraccia, del deserto del Sonora, d’altronde già presente nei Detective selvaggi (Sellerio, 2003), forse il suo libro più ambizioso, se si esclude appunto 2666 (che però, come osservava Morino, inevitabilmente appartiene alla dimensione “postuma” di un Bolaño che, mentre lo scriveva, sapeva già di avere il destino segnato).
Una eco per la psiche in frantumi
Mentre il racconto si intreccia e si disperde, passando da Londra a Barcellona, da Città del Messico a Detroit, dalla descrizione di un Bobby Seale intento a predicare contro l’usura e a dispensare consigli su come cucinare costolette di maiale (l’unica cosa che imparata negli anni trascorsi in prigione), a un poeta galiziano che compila, per la propria dipartita, un misterioso Testamento geometrico, è proprio il deserto a presentarsi come costante. Appare nei sogni, genera voci e fantasmi che sconvolgono la ragione e il sonno dei protagonisti del libro, nasconde i corpi e le ombre dei delitti di Santa Teresa, amplifica quei “frantumi della psiche” e quel jet-lag che Amalfitano – uno dei critici che si incontrano anche nella prima parte, sulle tracce di Arcimboldi – nella seconda parte del libro descrive come una metafora ossessiva della condizione umana, chiedendosi: “forse gli altri”, proprio come Arcimboldi, “non esistono, quando non li vediamo”? In Messico, gli fa eco un collega di università, anche questo è possibile.
Metamorfosi di una storia
Ossessionato dall’inquietante presenza, fra i suoi libri, del Testamento di Rafael Dieste, Amalfitano decide infine di mettere in pratica un vecchio consiglio di Marcel Duchamp: appendere a uno stenditoio un trattato di geometria e vedere se, così esposto alle intemperie, è in grado di “apprendere tre o quattro cose della vita reale”. Sarà una voce proveniente dalle distese del deserto di Sonora a rivelargli che dietro quell’improbabile ready-made, così come dietro ogni numero e ogni simmetria si nascondono una storia infinita fatta di infiniti montaggi e altrettanto infinite scomposizioni.
Anche se evidentemente, conclude Bolaño, offrendoci forse la chiave per penetrare questo suo bellissimo e spiazzante lavoro, qualsiasi “storia una volta rimontata diventa qualcos’altro, un commento ai margini, una nota sapiente, una risata”. E talvolta, tutto questo, può diventare anche un bel romanzo.
[da Il manifesto, 6 dicembre 2007]
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tysm literary review, Vol 3, No. 6 – may 2013
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