philosophy and social criticism

Febbre dell’orco

di Johnny Costantino

Io voglio essere invidiato. Io voglio lo stupro,

il furto, l’infanticidio, e la mia sfida è violenta.

Volevo oro e fama, disprezzavo perfino il sesso:

amavo in fretta e non sapevo cos’era l’amore.

Voglio l’oro maligno. Profanazione. Vado al mio estremo.

Clarice Lispector, Dove siete stati di notte (1974)

Plutoniana

Fin dai primordi della cultura occidentale, morte e ricchezza si fondono in Plutone, dio latino dell’oltretomba e dell’abbondanza, dominus del mondo sotterraneo – il mondo dove, nella visione sia greca che romana, è collocato l’aldilà – dove, raggiunto dal sole nero della morte, ogni vivente trova il suo capolinea. Le viscere della Terra: esse occultano più ricchezze di quelle esposte alle luci del firmamento.

In Plutone trovano confluenza due divinità greche: Ade e Pluto. Ade è il dio dell’Inferi e il suo nome, Háidës, significa colui che si nasconde. Pluto è il dio della ricchezza e Ploutos vuol dire, appunto, colui che arricchisce. Sul versante romano, Plutone contiene Dite – la versione latina di Pluto, detto anche Dis Pater, forma contratta di Divitis Pater: Padre delle Ricchezze – e Orco – divinità etrusca di un regno oltremondano immaginato come una landa di dolore disperazione oscurità.

Dio bi-anima, dalla doppiezza costitutiva, Plutone. Omero lo dice il più odiato dai mortali e – secondo Platone – la preferenza popolare accordata al nome Plutone rispetto ad Ade è dovuta all’eccesso di timore suscitato dall’Orco che sonnecchia in lui. Nella Divina commedia Dite è la città dell’Inferno. Qui, nei rispettivi gironi, ricevono il castigo diverse razze di eretici violenti fraudolenti per i loro reati dolosi, maliziosi, mentre Pluto – come lo chiama Dante, ma possiamo leggere: Plutone – da divinità pagana dell’Aldisotto è stato retrocesso a custode del IV cerchio dell’Inferno, dove sono puniti gli avari e i prodighi. Il canto VII inizia con l’invocazione a colui che gli ha sottratto la leadership nell’Oltrevita, a colui che il Cristianesimo ha consacrato re dell’Inferno: Satana. Pape Satàn, pape Satàn, aleppe. Pluto(ne) intona questo verso oscuro, invenzione linguistica dall’etimo incerto. Lo proferisce quale minaccia dell’indeterminato all’indirizzo di Dante. Virgilio però ne comprende il senso e, dopo aver zittito lo sgherro di Satana, guida oltre il divino poeta.

Plutone è anche il nome di un pianeta nano del sistema solare, il nono e più lontano dal sole. Congelato all’esterno, esso custodirebbe un nucleo incandescente di potassio radioattivo, come ipotizzano alcuni studiosi californiani. Un pianeta di fuoco sotto ghiaccio. L’incontro tra Plutone e gli umani avverrà nel luglio 2015, quale destinazione della missione New Horizons. Si tratterà di un sorvolo. L’osservazione avverrà a una distanza di diecimila chilometri. Il maggiore dei satelliti naturali di Plutone si chiama Caronte, come il traghettatore dell’Ade, l’orrendo nocchiero (col Virgilio dell’Eneide), il demonio dagli occhi infuocati (ancora Dante: Caron dimonio, con occhi di bragia), il passatore che conduce le anime dei morti da Plutone.  

L’astrologia indica Plutone quale pianeta dell’invisibile, dell’inesplorato, dell’oscuro. Il pianeta che governa la distruzione e dirige le ambizioni del potere. Motore di un’intensità che brucia per rigenerare. Resa dei conti con la miseria umana. Astro del crimine e della dittatura. Ago nella bilancia della morte, dell’assassinio, dell’epidemia, della sopraffazione. Entro l’orbita e l’influsso di Plutone, stiano all’erta gli astronauti americani!

Il plutonio è un metallo argenteo che ossidandosi – venendo cioè a contatto con altri elementi – ingiallisce, si trucca da oro, ma è anche – e il nome si deve al suo potenziale genocida – l’elemento chimico sintetico più usato nelle bombe atomiche a fissione nucleare.

Veniamo al Petroliere, film del 2007 diretto da Paul Thomas Anderson. Interpretato da Daniel Day-Lewis all’apice della maturità espressiva, il personaggio di Daniel Plainview, il Petroliere, è un plutocrate e un dispensatore di morte. Una figura bifida, come la divinità di cui è un discendente tra gli umani: Plutone. Né mancano somiglianze fisiche e comportamentali con questo dio raffigurato come un uomo maturo dal corpo nervoso, colori scuri, aria concentrata, sguardo severo, rivolto all’interno, come monopolizzato da un pensiero fisso, irremovibile – descrizione che non stonerebbe riferita al Petroliere. Esemplare di questa connotazione è il Plutone fine cinquecentesco di Agostino Carracci: un omaccione crucciato che tiene in mano le chiavi dell’Averno ed è affiancato da Cerbero, il cane tricefalo che fa la guardia al suo regno.

Ma una cosa è il dio angustiato dai problemi di gestione di un Aldilà che gli appartiene, altra è il demonio senza dominio né autorità di Dante. Nel citato canto dell’Inferno, Virgilio lo sistema dandogli del maledetto lupo e intimandogli di consumarsi dentro di sé con la propria rabbia. Non meno impietoso è Gustave Doré nelle sue illustrazioni (1857-67) della Divina commedia: qui l’ex boss è un vegliardo contratto che si mangia le mani, un tristo satanasso che, pur senza aver perso tono muscolare, rappresenta un decadimento allucinato del Plutone di Carracci. Quel che prima era raccoglimento propulsivo è adesso rattrappimento furente, impotente.

Due figure – i Plutoni di Carracci e Doré – che dialogano nel senso di una degenerazione speculare a quella che vediamo compiersi tra il Petroliere al suo vertice imprenditoriale e il vecchio rognoso livido appannato, spolpato dalla rabbia, che gioca alla guerra contro nemici immaginari, in romitaggio nella sua prigione dorata. «Il Diavolo, quando invecchia, si fa eremita»: dice un detto borghese raccolto da Léon Bloy nella sua Esegesi dei luoghi comuni del 1902 – anno che vede il più disperato degli scrittori vivere a Parigi come un vecchio sorcio, ulcerato da una miseria nera che sette anni prima gli aveva preso due figli maschi ancora lattanti – lo stesso anno (come da didascalia sovrimpressa) in cui il più spietato dei cine-petrolieri raccatta un orfano nel deserto per crescerlo a latte e whiskey, dargli il suo nome, usarne il bel faccino come calamita per la ricchezza, asso nella manica contro la concorrenza. «Bisogna morire ricchi»: è un altro luogo comune che Bloy sviscera e Plainview realizza.

American nightmare

Il Petroliere di Anderson ha un modello reale: il californiano Edward L. Doheny, il fondatore della Pan American Petroleum and Transport Company, una delle maggiori compagnie petrolifere degli anni Venti del secolo scorso. Doheny è morto settantanovenne nel 1935 e per quarant’anni è stato un emblema Usa del connubio tra potere e corruzione. Tra il 1920 e il 1923 fu uno dei protagonisti del Teapot Dome, il maggiore scandalo politico americano pre-Watergate, nel cui ambito gli spettarono gli onori della cronaca per aver offerto una tangente di centomila dollari all’allora Segretario degli Interni Albert B. Fall. Apparso otto anni prima della morte di Doheny, nel 1927, il romanzo Oil! di Upton Sinclair prende le mosse dalla non ancora conclusa parabola di Mr. Petrolio, la cui biografia scritta da Margaret Leslie Davis sarebbe uscita nel 1998 con l’eloquente titolo: Dark Side of Fortune: Triumph and Scandal in the Life of Oil Tycoon Edward L. Doheny. Da entrambi i libri Anderson ha tratto spunto per la costruzione del suo petroliere.

La parabola del Petroliere prende l’abbrivio alla fine del secolo decimonono, nel 1898 per la precisione. La febbre di cui si ammala Daniel è successiva all’epidemia che colpisce il buon Charlot in Gold Rush (1925): la febbre del petrolio. Febbri diverse per materia prima – quelle che colpiscono i cercatori di Chaplin e Anderson – e antitetiche per origine sfogo decorso. Un’antitesi di cui la prima spia sono i baffi: quelli stretti e posticci del bambinone che vuole fare l’adulto; quelli folti e così in accordo con la gravità dello sguardo da far dubitare che chi se li è fatti crescere sia mai stato fanciullo. L’antitesi tra l’eterno perdente, che a vincere non ci ha mai provato sul serio e la cui riuscita, quando arriva, è l’incidentale ricompensa per aver giocato a perdere, e il self made man made in Usa, per cui non c’è successo che appaghi la sua brama. L’antitesi – scegliendo due manie – che passa tra la mania di vagabondare e quella di trivellare. Un’antitesi di cuore e mente che vediamo in moto nelle rispettive camminate: i piedi a papera di chi, sempre disposto a cedere il passo a una pulce, non saprebbe far male a una mosca; la zoppia di chi, senza battere ciglio, calpesterebbe ogni anima viva che provasse a ostacolarlo, una zoppia che miti e religioni indicano quale estrinsecazione del maligno. E maligno, nel caso del Petroliere, non è solo il sostantivo di quel che avversa il cosiddetto Bene, è anche l’aggettivo di un tumore insradicabile dall’organo direttivo (locuzione cara a Marco Aurelio). Maligna è la condizione tenebrosa di chi sia indifferente al tocco dalla luce. La luce dell’alto, certo, ma soprattutto la luce dell’altro.

Scava pure in una grande ricchezza, rammenta Balzac, troverai il delitto. Ricchezza e morte sono cuspidi parallele sulla facciata dell’esistenza di Daniel Plainview. Una ricchezza attinta allo stato grezzo dalla Terra dell’Abbondanza, Land of Plenty: gli Stati Uniti d’America, scrigno di ricchezze interrate come l’Averno pagano. Una morte di cui si fa latore alla maniera di una torva divinità ctonia che abbia interiorizzato, incrudendola, la legge del taglione: bocca per dente, testa per occhio, vita per menzogna. Ricchezza e morte: cuspidi grondanti del medesimo liquido e collegate dal filo della solitudine. Una solitudine indotta ed esacerbata da un sentimento di distanza siderale dal genere umano, di livore, di proiezione del proprio istinto prevaricatorio sullo specchio del prossimo, di volontaria prigionia nel sottosuolo da cui il Petroliere ha estratto vittoria e tragedia: il sottosuolo della sua anima nera.

E la ricchezza sarà il fossato tra lui e il mondo. Col petrolio costruirà una roccaforte che ha le fondamenta nel risentimento, i pilastri nella diffidenza, le feritoie sulla morte. Ascoltiamolo: «Io sento la competizione in me. Non voglio che altri riescano. Odio la maggior parte della gente. Alcune volte guardo le persone e non ci trovo niente di attraente. Voglio guadagnare così tanto da poter restare lontano da tutti. Io vedo il peggio nelle persone, solo uno sguardo mi basta per sapere chi sono in realtà. La mia barriera di odio si è innalzata, lenta, negli anni». Questa è la confidenza che riserva al sedicente fratello, animella alla quale è riservata un’uscita di scena tanto brusca quanto cruenta: scopertolo un impostore, Daniel gli spara in testa a freddo e ancora caldo lo sotterra con le proprie mani. L’odio del Petroliere non è di quelli che si sublimano negli affari. È un odio somatizzato in occhi che lanciano fiamme dalle balaustre di una faccia cotta al sole, per divampare in una violenza che non arretra davanti all’assassinio.

Il Petroliere è un uomo per tutte le stagioni che applica alla lettera i precetti del Principe di Machiavelli: apparire dalla parte della virtù consente di lavorare con maggiore efficacia alla causa della potenza. Una potenza, quella del Petroliere, che – per sbaragliare la concorrenza e proliferare in lungo e in largo – ha bisogno della fiducia della gente. Per questo, davanti alle persone semplici che intende circuire, dimostra di condividerne i valori: spaccia il bambino che ha trovato e cresciuto come l’unico figlio datogli dalla moglie morta di parto e lui stesso si presenta come un family man, un buon padre a capo di un’impresa di famiglia. Per questo, interpellato a riguardo, sbrigativamente si dice simpatizzante per tutte le fedi: il petrolio scorre sotto ogni chiesa, non devia il suo corso per nessuna in particolare, non ha preferenze. Tuttavia, questa potenza mascherata da virtù, se vuole durare, deve cristallizzarsi in un potere in grado di atterrire. E le azioni del Petroliere a tutela del business fanno venire i brividi.

Nell’imboccare la falsa riga della vita di Doheny, e sboccare altrove, Anderson accantona i torbidi tra economia e politica, prioritari nel mito dell’oil tycoon, per concentrarsi sul legaccio tra religione ed economia. «Il potere di tante famiglie californiane e texane è nato su basi orribili e si è saldato su un intreccio perverso con preti fondamentalisti in buona e cattiva fede», osserva il cineasta. Della religione il Petroliere se ne serve a fini imprenditoriali. Disprezza il predicatore Eli Sunday (Paul Dano), lo considera un imbroglione che maneggia la Chiesa della Terza Rivelazione, di cui s’è eletto profeta, per ambizioni che di trascendente hanno ben poco. Appena ne ha l’occasione, umilia pubblicamente il giovane uomo: lo picchia, gli preme la faccia nel fango e gliene riempie la bocca, annunciandogli che gli scaverà la fossa. Eppure sono legati, questi due peccatori, da un vincolo di reciproca strumentalizzazione. Allo scopo di ottenere una concessione (quella di far passare un proprio condotto nel terreno di un devoto della Chiesa della Terza Rivelazione), l’ateo Daniel acconsente addirittura al proprio battesimo quale credente della suddetta Chiesa, urla il suo mea culpa di fronte agli altri fedeli e si prende pure in faccia i ceffoni rituali di Eli. Il loro è un braccio di ferro che attraversa l’intero film per degenerare in un «epilogo da film dell’orrore», come lo chiama il regista, un orrore annunciato dal titolo originale: There Will Be Blood, ci sarà sangue.

(L’ambientazione di questo gran finale al sangue è la faraonica villa di Doheny in personam e – a tale proposito – va rilevata la cura storiografica con cui sono stati concepiti e realizzati tutti gli ambienti e i dettagli scenici della pellicola. Tra i contenuti extra del dvd originale, ci sono quindici minuti contenenti una carrellata di materiali documentari, filmici e fotografici, che hanno costituito il punto di partenza per una ricostruzione cinematografica che – in anni di schiacciamento virtuale ed eruzione 3D – possiede la forza, e la profondità di campo, delle scenografie della Hollywood classica.)

Ci sarà sangue, dicevamo. E il sangue arriva in sincrono con una delle maggiori crisi del mondo industrializzato. L’epilogo è datato 1929, quando il sogno di Wall Street crashò nel peggiore degli incubi per milioni di azionisti correntisti contribuenti, quando si avverò la profezia insita in una frasetta riportata da Léon Bloy: «Il denaro scompare». Come un miraggio, il denaro si dilegua con una rapidità incurante del tempo che c’è voluto per ammonticchiarlo. Sul lastrico, Eli si reca dal “fratello” per proporgli un affare che dissimula una richiesta d’aiuto. Daniel, con furore veterotestamentario, si erge a signore dell’Apocalisse, giudice della vita e della morte. Costringe Eli ad ammettere che lui è un falso profeta e Dio una superstizione. Implacabile, al culmine della sua teatralissima sfuriata, dopo avere intimato a Eli che è lui la Chiesa della Terza Rivelazione, gli fracassa il cranio con un birillo del suo bowling domestico. Da oggetto di gioco vediamo quel birillo tramutarsi in arma letale, divenire lo scettro del capitale al cui cospetto ogni religione deve genuflettersi: una mazza che annerisce quel che sfiora, giustizia quel che non fidelizza.

Petrol dimonio

La fede di Daniel è fasulla come una banconota di carta igienica. Ma quanta abnegazione riserva alla sua missione di Petroliere! Tanta da far pensare che in tale zelo trivellatorio permangano i segni di un antico stampo protestante, come cicatrici d’infanzia semicoperte dalla peluria di uomo, quasi un riflesso condizionato dell’etica del lavoro calvinista.

Affermazione, quest’ultima, che rende opportuni alcuni incisi. Nel 1905 esce L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. La tesi portante del libro è l’individuazione dell’origine del Capitalismo moderno nel Protestantesimo, innanzitutto nel Calvinismo (che, più del Luteranesimo, apparve come un Cristianesimo rinforzato dalla moralità dei profeti ebraici). Il saggio ha avuto seguito e confutazioni. Lewis Mumford, in particolare, condivide l’idea che sia stata l’etica protestante a dare un decisivo impulso formativo allo spirito del Capitalismo come oggi lo conosciamo, ma di esso retrodata la genesi a trecento anni prima della Riforma luterana. In La condizione dell’uomo (1944), l’eclettico pensatore afferma che la logica del capitale non mosse i primi passi nel Cinquecento di Lutero & Calvino, bensì nel Medioevo, quale eresia nutrita nel seno dello stesso Papato, attribuendo al domenicano Vincent di Beauvais il primato di avere esortato a lavorare non solo per vivere ma anche per produrre un accumulo di ricchezza generatore di nuova ricchezza. Fu così, da quest’angolazione, che la Chiesa iniziò a ingrassare a discapito di una Cristianità sempre più rachitica, e il contributo di Calvino al Capitalismo fu quello di rinforzargli carrozzeria e motore, approntando la marcia in più che lo avrebbe reso il bolide a venire.

Osserva Mumford: «La personalità del protestante era come quella di un uomo d’affari anche quando non c’erano affari in vista». Gli abiti, la lingua, i comportamenti rivelarono da subito un distacco netto dal lusso, dalla vanità, dalle forme cerimoniose. Il protestante si tagliò fuori dai focolai di sensualità che contraddistinsero il Barocco per tuffarsi negli affari con inedita dedizione. La carne andava mortificata, la lascivia bandita. E cosa c’era di meglio della frusta del lavoro pesante? Una frusta che, a differenza del cilicio medievale, non offriva solamente frutti spirituali. Se da un lato il profitto assicura al credente che Dio è con lui (il profitto è la prova della grazia, una prova tangibile che non è bene ostentare: si peccherebbe di superbia, Dio se ne avrebbe a male), dall’altro inizia a formarsi una nuova tipologia di uomo: l’uomo economico. Le sue caratteristiche sono il risparmio, la previdenza, la parsimonia, lo spirito di sacrificio, la puntualità, l’austerità, il rigore interiore ed esteriore: tipiche virtù protestanti. Virtù che – se in principio vennero salutate come un tonificante per lo spirito cristiano – non tardarono a ritorcersi diabolicamente contro i precetti evangelici, una volta asservitesi, e con quale sollecitudine, alla macchina atea del capitale.

Il capitale esige devozione, sudore. Il soldo schifa gli scansafatiche. In Le élite del potere (1956), C. Wright Mills constata quanto tra i ricchissimi, soprattutto americani, sia rara la figura dell’ozioso tout court. Occorrono mani laboriose all’arazzo del capitale, laboriose come le mani protestanti, laboriose almeno quanto complesso s’è fatto l’arazzo nel corso dei secoli. Consolidatosi quale centro di potere economico, il Protestantesimo dapprima sfidò, con i suoi capitali e la sua forza lavoro, l’Assolutismo della politica. E cosa fece lo Stato? Raccolse il guanto di sfida, lo indossò garbatamente e lo usò per blandire un antagonista che divenne via via il più prezioso dei suoi alleati, dando il la a un balletto di reciproca seduzione che sarebbe sboccato nel più osceno dei rave. A quel punto il dado era tratto: il matrimonio tra Capitale e Governo era stato celebrato. Naturalmente in Chiesa. Si potrebbe continuare per un po’ provando a illustrare come lo Stato fece sue le logiche dell’Impresa e l’Impresa introiettò nei propri meccanismi il dispotismo dello Stato e come da questi epidemici intrecci si propagò una corruzione su scala planetaria di cui oggi sperimentiamo l’inarrestabilità e come la lezione protestante andò scialacquata nelle sfrenate copule tra speculazione ed edonismo e come i parti di queste copule furono più mostruosi dei genitori e come dietro alle smorfie di divertentismo di padri e madri e figliolanze ci sia un cervello gelido come le cinque del mattino in un obitorio… ma questa, come si dice, è un’altra storia.

Un inciso tira l’altro. Se nel 1927 esce Oil!, due anni prima era apparso L’oro, il romanzo d’esordio di quello che sarebbe stato uno dei pesi massimi della scrittura novecentesca: Blaise Cendrars. Realmente vissuto, il protagonista del romanzo è un multimilionario di origine svizzera che si ritrova proprietario di una delle più ricche miniere d’oro del mondo. Al secolo: Johann Augustus Sutter. Fu la picconata di un suo carpentiere di nome Marshall a provocare la scintilla da cui infuriò la febbre californiana dell’oro. Era il 1848 e il vero primato di Sutter sta in un paradosso: egli fu il primo Paperone della Storia rovinato dall’oro, finito morto di fame per colpa di una febbre più contagiosa della rabbia (Greed, il capolavoro di Stroheim, altra parabola sulla rapacità umana, era uscito l’anno precedente, nel 1924). «L’oro è maledetto, e maledetti tutti coloro che vengono qui a cercarlo, maledetti quelli che lo raccolgono, e già molti di essi scompaiono e non si sa come. L’esistenza è diventata un inferno in questi anni. Si ammazzano, si depredano l’un l’altro, si assassinano. Tutti si dedicano al brigantaggio. Molti si sono uccisi o sono impazziti. E tutto questo per l’oro». È il lamento che Cendrars fa proferire al suo tristissimo e ammattito e screditato eroe, questo Re Mida della modernità con l’Apocalisse di Giovanni come unico conforto, mezzo maciullato nelle fauci di quello che sbraita essere il mostro dell’Apocalisse: l’Oro. «L’Anticristo è l’Oro». È curioso (per non dire profetico) che Cendrars faccia uscire il suo apologo sulla potenza divoratoria dell’oro in piena febbre del petrolio, anticipando (per non dire annunciando) il crollo di Wall Street di quasi un lustro, nel mezzo di un decennio in cui la stella di Edward L. Doheny era stata oscurata, per quantità del brillio, da un altro magnate che il petrolio rese l’uomo più ricco del mondo: John D. Rockefeller.

(Ma come ha fatto Rockefeller a diventare così ricco? 1. Fondando nel 1870 una compagnia petrolifera, la Standard Oil Company. 2. Trasformandola in una spaventosa holding che nel 1911 il Dipartimento statunitense di Giustizia sottopose alla legge antitrust e smembrò in trentaquattro distinte società. 3. Nominandosi socio di maggioranza di tutte e trentaquattro le società, il valore delle cui azioni continuò a crescere fino a renderlo, appunto, the richest man in the world.)

Riprendendo il filo dell’Oro: come escludere che scrivendo oro Cendrars – uomo di mondo e acuto critico del proprio tempo – pensasse petrolio? «Mi domando cosa succederà dopo e più in là», si chiede lo sfortunato protagonista del romanzo. Chiunque può rispondergli dal futuro: il petrolio ha preso il posto dell’oro. Quale posto? Il posto del sangue in un mondo vampiro di sé.

Osserva Karl Marx quasi mezzo secolo prima di Max Weber: «Il culto del denaro ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e suoi sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni, temporali e transitori: la caccia al tesoro eterno. Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro» (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, 1858). Parsimonioso e frugale non si può dire che il Petroliere non lo rimanga anche tra i milioni di dollari e i fiumi di petrolio. Quando potrebbe iniziare a rammollirsi negli agi, continua a dormire sul duro. È il suo lato ascetico. Ma Daniel – nome peraltro di un profeta biblico di dubbia storicità – se di calvinista ha un accanimento nel lavoro che sborda nell’ossessione, di protestante gli manca però la molla: egli se ne infischia della grazia divina. La linfa del suo fervore è tutta terrena. Il suo credo è il petrolio. Le vie della sua ascesa sono verso basso (la trivellazione) e in orizzontale (il drenaggio). Daniel è un pagano che lascia il cielo agli uccelli. Gli dei che stanno lassù non arrivi né a toccarli né a vederli. Gli esseri umani, nella loro abissalità, non sono mai quel che sembrano, non lo sono fino in fondo. Ti fregano. Il petrolio no. Il petrolio è vero. È quel che vedi, che tocchi. Stagna, ci affondi. S’incendia, ti brucia. Si sarà ripetuto più volte, con parole sue, il Petroliere. La sua vista (view) è sgranata sulla radura (plain) dei cuori e del mondo. Daniel Plainview: un vuoto digrignante riarso assetato di petrolio.

Il Petroliere è un animista. Il petrolio è il suo dio. Un dio reificato il cui dominio transita nel pugno del detentore. Il petrolio è il sangue dell’Agnello – così lo chiama nell’epilogo – e lui se lo succhia tutto, non vuole lasciarne nemmeno una goccia. Nei culti antichi, il dio di un popolo è suscettibile di tramutarsi, presso i successori o i conquistatori, in un demonio. Dio e demonio il Petrolio lo è al contempo. Dio delle guerre e demonio della luce. Innalzatore di imperi e imbrattatore del Pianeta. Panacea e mannaia. Pantocratore e poliorceta. Faro e passe-partout dei Plutoni odierni.

Il petrolio ha due facce: materia prima e strumento di potere. Il petrolio è la risorsa che, trattata, pervade la nostra quotidianità. Lo stile di vita odierno è un derivato del petrolio. Gas plastica benzina asfalto: le città sono fatte di petrolio. Una risorsa così imprescindibile da rendersi una fonte di potere primaria, indispensabile. Il potere che viene dal petrolio ha, a sua volta, due facce. Facce nette come quelle di una moneta, sebbene non tintinnino e la velocità dei flussi e dei calcoli mercantili le confonda alla vista e alla mente, come la testa e la croce di un (petrol)dollaro che gira su se stesso. La faccia calamitante dell’oro. La faccia potenzialmente sterminatrice del plutonio. Due facce che – come le metà del viso di Two-Faces, il nemico di Batman – sono una più infida dell’altra.

Il pozzo del disamore

Polpa pagana dentro un guscio protestante, il Petroliere è una pasta d’uomo non plasmabile dalle dita imprevedibili dell’amore. Sul dialogo tra amore e capitalismo, sintetizza Jacques Lacan: il discorso capitalista implica un’esclusione delle “cose dell’amore”. L’amore è una dimensione dispendiosa, dissipativa, irragionevole. Esula l’algebra. Non c’è ut tra do e des. Tra investimento e guadagno. O l’utile o l’amore. Daniel Plainview è sposato col petrolio. Come l’oro prima e il denaro sempre, il petrolio simboleggia il trionfo del senza-anima a danno di quel che respira o traspira, rappresenta lo scacco matto di una pulsione di morte di cui il capitalismo è la più recente ed efficiente fucina storica. È una logica dell’anti-amore a regolare le azioni del Petroliere. Ma non si pensi che il bando dell’amore coincida con un’assenza originaria di sentimenti (che, per amore di sintesi, chiamiamo) cristiani. Egli è tutt’altro che un insensibile: culla tra le proprie braccia il figlio vittima dell’incidente che lo rende sordo; è affettuoso e protettivo con la bambina in cui scorge la futura nuora; guardando una foto da bambino del suo vero e perduto fratello, piange – piange dopo aver letto cosa scrive di lui: My brother, a stranger to me. Uno straniero che cova un sovrappiù di sentimento che – frustrandosi, quando le persone non tornano come i suoi conti – si negativizza e sfocia in azioni atroci (e le incontinenze furiali del Petroliere sono ormai storia del cinema). Semplicemente, l’amore è un privilegio che non può concedersi, né per il prossimo né per se stesso. L’amore è stato estirpato dal ruolo (personaggio, maschera) entro cui l’acciaio della sua volontà l’ha blindato, rifuso. Gli affari esigono la durezza, la duttilità, la buona conduzione del metallo. Il Petroliere lo sa. È più realista del re. Allontana da sé il figlio quando la sua malattia intralcia i propri piani e lo rinnega quando decide di sciogliere la loro società per avviare una propria attività. Abbiamo visto cosa fa ai crani di coloro da cui si sente preso in giro. E non si tratta di sadismo. È soltanto coerenza condotta all’estremo. La coerenza di un uomo che ha visto così nitidamente la morte negli occhi dell’estraneo che abita in lui da scegliere di diventare remoto perfino a se stesso.

Il mondo in cui si aggira è un mondo ferino, deve ringhiare se vuole rispetto. Tanto più che al collo ha i mastini della Standard Oil Company, gli scagnozzi di Rockefeller. Nella loro avanzata monopolistica, ci provano ad annettersi l’impresa di Daniel. Lui però non se la lascia sottrarre e, a freddo, si toglie lo sfizio di mortificare Tilford, il dirigente che durante le trattative aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di metter becco nell’allevamento del figlio, nella gestione della sua famiglia, beccandosi quale immediata reazione una minaccia di sgozzamento. Daniel non lo sgozza, ma lo farà sudare freddo, insultandolo nel corso di un pranzo di affari con un’aggressività che impietrisce i commensali, sprezzante di ogni bon ton e convenienza. Con questa rivincita il Petroliere corona la sua eroica resistenza alla Standard Oil. Ha vinto una battaglia. Ma una guerra contro di loro no, non può farcela: uno come lui, alla lunga, è destinato a perdere.

Loro: inamidati, forbiti, sono la faccia rassicurante (e tanto più pericolosa) del potere di acquisto, segmenti di una trama finanziaria raffinatasi fino all’astrazione dei titoli, alla scissione del valore nominale dal valore reale, alla disintegrazione della responsabilità personale. Lui: tutto nervi pronti a guizzare, è il volto compresso dell’energia, il lato torvo (e tanto più verace) di un potere concentrato in due mani lordate dall’uso, un dispositivo economico la cui gestione oscilla tra il patriarcato e la tirannide. Loro proiettati verso la virtualità del capitale. Lui attaccato al liquido che nutre il suo potere, come una patella allo scoglio, come un vinto di Verga alla roba. Loro: la freddezza sorridente dalla ragione che ha preso partito per l’inumano. Lui: la rabbia malcelata di un’irragione che sfoga nel disumano. Loro: il capitale azionario, la speculazione, il controllo dei mercati. Lui: la trivella, il pozzo di petrolio, il sangue nero.

Due dimensioni del potere che non si esiterebbe a definire in antitesi. Eppure, in realtà, tra esse più che opposizione sussiste un nesso evolutivo. Il Petroliere, con una formula pasoliniana, è una forza del passato che la Storia dà sorpassata. Gli emissari di Rockefeller sono il trend che sarebbe diventato la regola del potere, il futuro, il nostro presente. Come Plutone retrocesso a mastino infernale nel Regno dei morti dantesco, come l’Oro liquidato dal Petrolio nella prima linea della Capitale, così nipoti e pronipoti di Daniel Plainview hanno finito per farsi mettere il guinzaglio delle multinazionali che tengono in mano le briglie del Regno dei vivi.

Il petrolio è un reattore di emancipazione sociale ma anche di negatività, un pensiero fisso che inchioda Daniel alla desolazione di una carne marcescente e di una mente offuscata, una volta abbandonato dalla carica necessaria per contrastare e surclassare i competitori, dalla lucidità che occorre per investire con oculatezza i proventi dell’odio. La grinta lupesca, perdute le zanne, si tramuta spasmo auto-trangugiatorio. In un saggio del 1908, Concetto e tragedia della cultura, Georg Simmel cuce un’idea di destino tragico vestita a pennello dal Petroliere: diversamente dalla sorte triste o funesta per cause esterne, tragico è il destino dove le forze distruttrici che annientano il soggetto si trovano riposte nei suoi strati più profondi, giacché rappresentano uno sviluppo logico della struttura su cui il soggetto ha edificato il proprio successo. Ossessionato che l’ossessione corrode, il Petroliere è un lupo che riserva se stesso come ultimo pasto, il più fiero, e si finisce, infine, con gli stessi artigli con cui ha sbrindellato gli avversari.

Nella sua identificazione paranoica con la causa del Petrolio, dove Petrolio significa Potere, negli anni in cui il mondo è nella morsa dei totalitarismi, il tipo umano impersonato dal Petroliere rivela un’affinità caratteriale con l’archetipo del dittatore. La microfisica del potere abbozzata da Elias Canetti nel suo ritratto di Adolf Hitler concilia questa analogia. Il saggio in questione s’intitola Hitler secondo Speer (1974) e muove dalle Memorie del Terzo Reich (1969) di Albert Speer, l’architetto del Führer. Ecco, a volo d’uccello, alcune delle caratteristiche hitleriane su cui indugia Canetti: la visione conflittuale della vita; la coazione all’accrescimento come protesi di un incolmabile ammanco interiore; la necessità dell’aggressione; il furore vendicativo; la prossimità tra il superare e il distruggere; la paranoia; il nesso tra sopravvivenza e invincibilità; il declino fisico che va di pari passo con l’obnubilamento mentale; il rigetto funzionale di sentimenti umani; la coincidenza tra integrità e durezza; la megalomania; l’eccitamento per l’altezza (gli archi di trionfo) e per il numero (la massa, anche di caduti), un eccitamento che nel Petroliere si capovolge interrandosi (la discesa della trivella, le scorpacciate drenatorie, gli sconfinamenti via oleodotto); il successo come riscatto; la voluttà del numero zampillante che ha la voluttà del nero zampillante quale correlativo nel Petroliere; la spietatezza che sempre vigila; il rintanamento terminale in un bunker del cuore. Tutti tratti che avvicinano il nostro Plutone primo-novecentesco all’Orco che – di lì a poco – si sarebbe pappato la Storia.

Santa Merda

Nelle leggende popolari, fin dall’antica Babilonia, l’oro è detto sterco dell’Inferno, come riporta l’assiriologo Alfred Jeremias, parafrasato da Sigmund Freud che, in Carattere ed erotismo anale (1908), scrive escremento infernale. Anche su questo versante l’oro nero ha rimpiazzato l’oro giallo: Juan Pérez Alonzo, cofondatore e mente dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), chiama il petrolio escremento del Diavolo.

Giusto qualche rilievo nel merito. Il rapporto tra la merda e la ricchezza – nonché tra esse e l’ultraterreno demoniaco e divino, infero e celeste – è profondamente radicato. E preciserei che questo rapporto tende ad assumere una connotazione tanto più diabolica (si pensi alle retoriche dello zampino del diavolo, dell’anima venduta o stregata, dell’oltretomba come castigo), quanto più nella psiche si assommano, si moltiplicano e si combinano le pulsioni di morte connesse alle rispettive sfere. Ed è evidente che – nell’opulenta trinità composta dal denaro (nei suoi supporti e astrazioni), dall’oro (il cui valore simbolico è in calo) e dal petrolio – è quest’ultimo quello sensibilmente più vicino alla merda: formule come sterco dell’Inferno o escremento del Diavolo trovano nel petrolio il simbolo della ricchezza più adeguato anche sul piano fisico.

Per alcuni studiosi di ebraismo, i quali fanno leva sulla radice semitica zbl, il nome Belzebù (Signore delle Mosche e dell’Inferno) viene da Beelzebul: Signore dello Sterco. Il Diavolo è il Copro-Dio. Non a caso, le streghe lo riveriscono baciandolo sotto la coda. Ma non bisogna pensare che la merda sia un’esclusiva delle mosche infernali. Presso alcuni popoli è il fiore all’occhiello delle divinità benigne. Per esempio, il tanto evocato Plutone – dio di viscere colme d’oro e petrolio, oltre che di morti – è pur sempre il figlio di Saturno, dio dell’abbondanza soprannominato Sterculius, poiché per primo fertilizzò il terreno spargendovi lo sterco. Peto era una divinità presso gli Egizi e i re Emiri non conoscevano niente di più prezioso degli escrementi essiccati del primo patriarca, detto il Negatore della Verità: per una dramma del suo sterco avrebbero dato cento pezzi d’oro. Questo inestimabile lascito era chiamato Santa Merda.

Freud mette in relazione (inconscia) la scoperta dei tesori con la defecazione e scrive: «In realtà dovunque la forma arcaica del pensiero è stata ed è rimasta dominante – nelle civiltà antiche, nei miti, nelle favole, nelle superstizioni, nel pensiero inconscio, nel sogno e nella nevrosi – il denaro è stato posto in strettissimo rapporto con lo sterco». È risaputo che in diverse culture sognare escrementi o finirci a contatto è presagio di buona fortuna e che nel nostro paese perdura la superstizione che pestare una cacca di cane o ricevere in testa una cacchina di piccione significhi denaro, porti soldi. Se poi si presta attenzione a certi termini del parlare quotidiano, non mancano eloquenti accenti sull’impudico legame di cui stiamo discorrendo: il capitale, come la merda, va movimentato, scaricato, liberato; un organismo tappato funziona male come un’azienda intasata; un locatario insolvente va espulso, l’immobile evacuato; etc. etc. etc. Il buon Dio è il denaro, recita una frase fatta che l’indignato Léon Bloy lamenta essere la «bestemmia più immonda», nonché «l’espressione esatta del sentimento universale». Al giorno d’oggi, se la merda è ancora santa in qualche cantuccio del creato, la sacralità del denaro è pressoché planetaria.

Il denaro e la merda provocano pulsioni contrastanti. Nella loro neutralità organica e inorganica, suscitano un’attrazione e una repulsione tipiche degli oggetti tabù. Quest’ambigua coesistenza pulsionale li rende, da soli e in relazione, succosi barometri culturali e consente un’oscillazione molto ampia tra il loro massimo valore e il loro massimo disvalore, in base all’immaginario e alla prospettiva da cui vengono soppesati e prezzati. Sempre nel citato saggio del 1908, Freud osserva che è proprio quest’ampiezza oscillatoria ad aver fatto scattare la specifica identificazione tra il denaro e la merda. In un saggio successivo, L’uomo dei lupi, scritto nel 1915 sul caso di Sergej Pankejev (un russo ultraricco che non tollerava di non essere considerato tale), il padre della psicoanalisi ritorna sul tema affermando che l’interesse morboso per il denaro è in realtà una deviazione del piacere escrementizio e precisando che le feci sono un surrogato dei soldi, con l’esempio del grumus merdae che gli scassinatori lasciano sul luogo del reato: l’osceno rimasuglio non è soltanto una beffa ai derubati, è pure una compensazione sostitutiva, espressa in modo regressivo, della ricchezza sottratta.

Queste riflessioni stimolano una deduzione socio-antropologica: la relazione che l’uomo ha col denaro può dirsi speculare a quella che il diavolo ha con gli escrementi. Se i soldi possono significare per chiunque beatitudine sociale o calamità spirituale, l’ano e i suoi derivati sono, a seconda dei casi, l’arma segreta del Diavolo o la criptonite che lo stende. In una farsa del XIX secolo, Le Muynier, incentrata sulla credenza popolare che l’anima fugga attraverso l’ano, il Diavolo fa visita al Mugnaio in fin di vita e, prima di dileguarsi in una nube sulfurea, cattura con un sacco il gas rettale del morente. Per contro, ritenendolo argomento consono ai suoi Discorsi a tavola (1566), Lutero riferisce di una donna che mise in fuga il Diavolo a colpi di scorregge e osserva che non c’è niente che Belzebù tema quanto le deiezioni e le flatulenze umane, quindi niente di meglio per tenerlo lontano dalla casa che riporre le feci a mo’ di spauracchio nella canna fumaria. Certe fumigazioni però, secondo altre fonti, possono sortire l’effetto opposto. Nella Salutare farmacia escrementizia riveduta e corretta (1696), Christian Franz Paullini sostiene che un uomo stregò un bambino mettendo le proprie feci dentro una vescica di porco e appendendo la lurida salsiccia nel camino. Questa sordida rassegna potrebbe continuare a lungo. La concluderei con un pensiero di Georg Groddeck, un pensiero, come lui stesso constata, poco edificante: «la prima forma di espressione del pensiero umano è la defecazione».

Col suo occhio eccitato davanti al nero spruzzo che segue a una scarica di gas tellurico ed erompe da una torre la cui base, se tralasciamo la tecnica applicata, ricorda quella di una latrina, il Petroliere vede il mondo come un intestino costipato, stracolmo di petrolio, che è suo compito di far sgorgare a proprio beneficio. Daniel Plainview è il ritratto dell’ostinazione, «un’ostinazione che può spingersi fino alla caparbietà, a cui va facilmente congiunta una propensione alla collera e alla vendicatività». Questo inciso virgolettato non è estrapolato da una nota di regia né da una recensione. È Freud, ancora lui, che individua l’ostinazione quale tratto costante primario, assieme alla parsimonia, della nevrosi legata alla sfera anale. Sándor Ferenczi – dal canto suo, sulla scia freudiana – osserva come la pulsione capitalista abbia in sé una componente egoista e una erotica anale. Con ciò non sto asserendo surrettiziamente che il Petroliere sia un cripto-nevrotico anale o fecale. Lascio al lettore tirare le somme o eseguire altre operazioni che gli sono più congeniali. Facendo sponda su certi temi e collegamenti, la mia intenzione è ampliare lo spettro psichico di questo personaggio così stratificato e attivare uno spazio di riflessione trasversale che agevoli una visione più sfaccettata del potere che questa icona cinematografica problematizza e incarna. Un potere che scava nelle budella della Terra per estrarvi la Santa Merda della contemporaneità. Un potere che viene dal greggio e del greggio possiede, oltre al colore, la cancerosità. Un potere escrementizio, come ogni potere che riduce l’elemento umano a scarto, rifiuto, ingombro da smaltire.

Santa Merda: può propiziare un paradiso in terra o maledire un’esistenza. Vale per il petrolio quello che Georg Simmel sostiene del denaro: esso è pura forza. Ma una forza che può ritorcersi rovinosamente contro se stessa, se non si ha la lungimiranza di orientarla nel verso di una crescita anche spirituale, essendo lo spirituale l’unica risorsa contro il progressivo svuotarsi delle gonadi della vita, contro l’infracidirsi delle sue ovaie, se resta cioè votata quel che essa simboleggia e sottende: calcolo quantità materialismo. Una forza espansiva sempre a rischio di diventare una forza abortiva che trasforma l’esistenza in una fortezza isolata, tempestata di amarezza, con l’accumularsi monotono degli averi e dei decenni, con l’indebolirsi degli slanci, con una pesantezza atterrante come la gravità e l’osteoporosi, inevitabile come ciò che prelude, la morte, poiché ogni vivente è un mortale. È questa la tragedia che prende immagine nella curva plutologica e tanatoforica del Petroliere, impeccabile lezione di cinema e tenebra firmata da Paul Thomas Anderson.

Monologo del Petroliere

Lo confesso, vostro onore: ho ucciso l’impostore che sostenne di essermi fratello. Lo confesso: ho ucciso un predicatore falso come un dollaro falso. Lo confesso: ho ucciso in me l’immagine di un figlio che voleva mettersi in proprio. Ho scelto di trivellare. Trivellare come si ama. Una vocazione. Con dedizione assoluta. Vivere all’erta. Dormire sul duro. Ho scelto l’attrito. Penetro la crosta. Trivellare è succhiare il sangue della terra. Con una pistola ho fatto secco il bugiardo. Coi miei soldi si pagava i suoi vizi. Ha mangiato a scrocco illudendomi di avere un fratello. Mi ha illuso di potermi fidare. Sapeva accontentarsi però. Stare al suo posto. Mi ha ingannato con la sofferenza che aveva negli occhi. Quel cane bastonato. Gli ho bucato la testa e l’ho tenuta ferma per fare uscire il sangue. L’ho guardato negli occhi mentre moriva. La morte gli sgranava gli occhi. Non ho agito a cuor leggero. Ho goduto invece nello sfondare la testa di quello spacciatore di niente. Pensava di venire qui e infinocchiarmi con la sua prosopopea da quattro soldi. Magari andarsene via con un assegno. Come se nulla fosse. Voleva fare affari con me senza sapere come funziona il drenaggio. Il coglione. Era venuto per usarmi. Io avevo già usato lui. La sua testa non valeva il birillo con cui l’ho spaccata. Quello zimbello ambulante mi dava sui nervi. Con le sue astrazioni. La sua enfasi. I suoi paroloni. Si credeva della mia stessa razza. Quel pagliaccio. Quell’allocco che raggirava vecchiette lottizzando loculi in cielo. Io no. Io ti frego parlando concreto. Ti frego la concretezza che ti scorre sotto i piedi. Dio è una favola. Il petrolio c’è. Il petrolio ti sporca. Come la verità. È densità incendiabile. Io vedo. Io credo. Peggio di un bastardo ho scacciato l’orfano che ho cresciuto come un figlio. Era il mio socio. Ci ha ammazzato diventando mio concorrente. Se non sei con me sei contro di me. Io li schiaccio i miei rivali. Li sotterro. Lo sapeva. Sordo di orecchio sordo di cuore. Tiepido come la merda. L’ho sputato via. Per sempre. Non aveva abbastanza cuore da aspettare che crepassi. Prima di farsi la sua strada. Quel musetto però l’ho fatto fruttare. Prima che iniziasse a sputare quei suoni sgraziati. Che cosa potevo aspettarmi da uno che non era sangue del mio sangue? Gli è andata pure bene. Tornassi indietro glielo mangerei quel piccolo cuore amaro. Un figlio non lo puoi spremere come un giacimento. Neanche una donna. Non ti daranno mai tanto. È questa la fregatura con le persone. Nessuna esclusa. Eppure a modo mio ci ho provato. A chiunque ho dato il giusto. La terra è la bestia che mi allatta. La tetta che spremo. La mia è la solitudine della trivella. Me la sono conquistata. Un mare di tenebra tra me e gli uomini. Non potevo volere niente di più. No. Ora sono esausto. Sfinito. Non ho più forze per i pozzi inattinti di questa terra. Che peccato. La terra gronda di questa merda. Qualche anno in meno e sarei sceso fino all’inferno. Mi sarei inculato pure il diavolo. Ne sono sicuro. Che peccato. Questione di corpo. Ci sono notti in cui la gamba rotta mi duole così tanto che me la strapperei. Ogni conquista costa una frattura. Tutto ha un prezzo. Io ho pagato. Con pezzi di me. Non ho più niente da perdere. Da prendere. Aborro l’inerzia. Farmi trascinare. E da chi? Non posso aspettare. Che cosa poi? Darei fuoco a tutto. Tutto ciò che è mio e non è mio. Non posso. Lascio il mio petrolio agli sciacalli e alle zecche. Ci si strozzino. C’ho vomitato dentro la mia bile. Lascio agli avvoltoi un regno che è come il mio cuore. Disabitato. Sono pronto. Morite tutti. È ora di sparire. Sì.

 

Bibliografia minima di riferimento

 

_Léon Bloy, Esegesi dei luoghi comuni (1902), Il melangolo, Genova 1993.

_John Gregory Bourke, Escrementi e civiltà: antropologia del rituale scatologico (1891), Guaraldi, Bologna 1971.

_Elias Canetti, Hitler secondo Speer (1972), in Id., Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 1998.

_Blaise Cendrars, L’oro (1925), Daria Guarnati, Milano 1959.

_Jonny Costantino, Crudo & Nero. Il petroliere di Paul Thomas Anderson, “Cineforum” n. 473, marzo 2008.

_Sigmund Freud, Carattere ed erotismo anale (1908), in Id., Opere complete, vol. V, Bollati Boringhieri, Torino 1972, e L’uomo dei lupi (1915), Einaudi, Torino 2014.

_Lewis Mumford, La condizione dell’uomo (1944), Edizioni di Comunità, Milano 1957.

_Mario Pezzella, La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito, “Consecutio Temporum”, http://www.consecutio.org/2013/10/la-teologia-del-denaro-di-walter-benjamin-il-debito/

_Georg Simmel, Concetto e tragedia della cultura (1911), in Id., Metafisica della morte e altri scritti, Se,  Milano 2012.

 

FILMOGRAFIA

Febbre dell’oro, La (Gold Rush, Charlie Chaplin, 1925)

Petroliere, Il (There Will Be Blood, Paul Thomas Anderson, 2007)

Rapacità (Greed, Erich Von Stroheim, 1924)

 

 

[cite]

tysm literary review

vol. 21, issue no. 22

march 2015

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