philosophy and social criticism

La musica o la lingua dell’Altro. Derrida incontra Ornette Coleman

di Jacques Derrida

Que­sta inter­vi­sta — di cui si sono perse le tra­scri­zioni ori­gi­nali — è stata rea­liz­zata dal filo­sofo Jac­ques Der­rida il 23 giu­gno 1997. Ornette Cole­man, sas­so­fo­ni­sta e com­po­si­tore mae­stro dell’avanguardia nera si tro­vava a Parigi per tre con­certi alla Vil­lette, museo e sede per le arti per­for­ma­tive (tra le quali il Conservatorio).

Il filo­sofò inter­vi­stò Ornette Cole­man, che era al momento impe­gnato con il pro­getto “Civi­li­za­tion”, una serie di esi­bi­zioni che com­pren­de­vano ese­cu­zione della par­ti­tura sin­fo­nica Skies Of Ame­rica, con­certi in trio con Billy Hig­gins e Char­lie Haden, mem­bri del suo Quar­tetto «sto­rico», e infine un con­certo di Prime Time, il gruppo elet­trico e «free funk». Com­po­si­zione, improv­vi­sa­zione, lin­gua, raz­zi­smo sono le tema­ti­che prin­ci­pali dell’intervista apparsa nel ’97 in Fran­cia sulla rivi­sta Les Inroc­kup­ti­bles. La versione inglese è disponibile → QUI

Quest’anno pre­sen­terà un pro­gramma dal titolo “Civi­liz­za­zione”. Che rap­porto c’è fra il titolo che ha scelto e la sua musica?

“Cerco di espri­mere un con­cetto secondo cui una cosa può essere tra­dotta in un’altra. Credo che il suono abbia una rela­zione assai demo­cra­tica con l’informazione, per­ché non c’è biso­gno dell’alfabeto per capire la musica. Quest’anno sto pre­pa­rando un pro­getto con la Filar­mo­nica di New York e il mio primo quar­tetto (senza Don Cherry) e altri gruppi in aggiunta. Sto cer­cando di rea­liz­zare l’idea secondo cui il suono si rin­nova ogni volta che viene espresso.”

Lei ritiene di agire più da com­po­si­tore o da musicista?

“Come com­po­si­tore, spesso la gente mi dice, ‘Suo­nerà brani che ha già suo­nato, o cose nuove?’”

Dun­que lei non risponde mai a que­ste domande, giusto?

“Se ti trovi a suo­nare musica che hai già regi­strato, la mag­gior parte dei musi­ci­sti riterrà di essere stata chia­mata a man­te­ner viva quella musica spe­ci­fica. E la mag­gior parte dei musi­ci­sti non ha grande entu­sia­smo quando si trova a suo­nare la stessa musica in con­ti­nua­zione. Dun­que io pre­fe­ri­sco scri­vere musica che non è mai stata ese­guita prima.

Vuole sor­pren­derli?

“Sì, voglio sti­mo­larli piut­to­sto che sem­pli­ce­mente chie­dere loro di accom­pa­gnarmi in pub­blico. Ma è dif­fi­cile da farsi, per­ché il musi­ci­sta di jazz è pro­ba­bil­mente l’unica per­sona per la quale la figura del com­po­si­tore non è qual­cosa di inte­res­sante, nel senso che pre­fe­ri­sce ‘distrug­gere’ quanto il com­po­si­tore scrive o suona.”

Quando afferma che il suono è più “demo­cra­tico”, come la mette con il fatto che è un com­po­si­tore, e scrive musica come tutti in forma codificata?

“Nel 1972 ho scritto una sin­fo­nia dal titolo “Skies Of Ame­rica” è stato quasi una tra­ge­dia, per­ché io non avevo un gran bella rela­zione con la scena musi­cale: esat­ta­mente come quando facevo free jazz, la gente per­lo­più cre­deva che sem­pli­ce­mente io pren­dessi il mio sas­so­fono, e poi mi met­tessi a suo­nare quanto mi pas­sava per la testa, senza seguire alcuna regola. Il che ovvia­mente non è vero.”

Noto che lei spesso ribatte quell’accusa…

“Certo. La gente al di fuori crede che sia una forma di libertà ecce­zio­nale, io credo invece che sia un limite. Dun­que ci sono voluti vent’anni, ma oggi final­mente posso avere un brano suo­nato dall’orchestra sin­fo­nica di New York e dal suo diret­tore. Giorni fa par­lando con mem­bri della Filar­mo­nica, que­sti mi hanno detto, ‘Senti Ornette, le per­sone inca­ri­cate delle par­ti­ture hanno biso­gno di vedere le tue’. Io ero ter­ri­bil­mente arrab­biato: è come se mi aves­sero scritto una let­tera e una terza per­sona la dovesse leg­gere per con­fer­marmi che nella let­tera stessa non c’è nulla che possa irri­tarmi. Era per essere sicuri che la Filar­mo­nica non avrebbe avuto disturbi. E poi mi han detto, ‘L’unica cosa che vogliamo sapere è se c’è un punto lì, una parola in quell’altro spa­zio’. In realtà non aveva nulla a che fare con la musica o con il suono, ma solo con i sim­boli che usiamo. Infatti la musica che scrivo da trent’anni e che defi­ni­sco ‘armo­lo­dia’ è come se stessi fab­bri­cando le mie parole per­so­nali, con un’idea pre­cisa di cosa quelle parole nuove deb­bano signi­fi­care per le altre persone.”

Ma chi suona con lei con­di­vide que­sta con­ce­zione della musica?

“Nor­mal­mente io parto dal fatto di scri­vere qual­cosa che loro pos­sano ana­liz­zare, la suono assieme a loro, e poi con­se­gno le par­ti­ture. Nella prova suc­ces­siva chiedo loro di mostrarmi cos’hanno sco­perto, e come dall’idea di base se ne pos­sano svi­lup­pare altre. Lo fac­cio sia con i musi­ci­sti, sia con gli stu­denti dei miei corsi. Io credo che chiun­que tenti di espri­mersi con le parole, con la poe­sia, nella forma che volete, può pren­dere il mio libro dell’armolodia e scri­vere seguen­done i pre­cetti, con la stessa pas­sione e gli stessi ele­menti di fondo”.

Nella pre­pa­ra­zione del nuovo pro­getto di New York, ha prima scritto la musica e poi chie­sto a chi doveva par­te­ci­pare di leg­gerla, vedere se si tro­vava in accordo, e alla fine di tra­sfor­mare il mate­riale originario?

“Per la Filar­mo­nica ho dovuto scri­vere le parti per ogni stru­mento, foto­co­piarle, poi con­fron­tarmi con la per­sona che si occupa delle par­ti­ture. Con i gruppi jazz, com­pongo e distri­bui­sco le parti diret­ta­mente alle prove. Quello che è vera­mente scon­cer­tante nella musica improv­vi­sata è che, a dispetto del nome che usiamo, la mag­gior parte dei musi­ci­sti in realtà usa una base per improv­vi­sare. Mi sono tro­vato di recente a inci­dere un disco con un musi­ci­sta euro­peo, Joa­chim Kühn, e la musica che ho scritto per suo­nare con lui, e poi regi­strata nell’agosto del ’96, ha due carat­te­ri­sti­che: è total­mente improv­vi­sata, e al con­tempo segue leggi e regole della musica euro­pea. Ciò nono­stante, a sen­tirla, sem­bra quasi total­mente improvvisata.”

Rica­pi­to­lando: il musi­ci­sta legge lo schema di fondo, e poi inter­viene il tocco personale?

“Sì, l’idea è che due o tre per­sone pos­sano avere una con­ver­sa­zione con i suoni senza che nes­suno tenti di gui­dare o indi­riz­zare la con­ver­sa­zione stessa. Intendo dire: si tratta di intel­li­genza, quella è la parola. Credo che nella musica improv­vi­sata i musi­ci­sti cer­chino di rimet­tere assieme i pezzi di un puzzle emo­tivo o intel­let­tuale, e in ogni caso si tratta di un puzzle nel quale il tono è dato dagli stru­menti. Il pia­no­forte più o meno sem­pre è ser­vito come base per la musica, ma ora non è più indi­spen­sa­bile: infatti gli aspetti più pro­pria­mente com­mer­ciali della musica sono diven­tati molto incerti. Peral­tro la musica che passa attra­verso il mer­cato non è neces­sa­ria­mente più acces­si­bile, ma ha dei limiti.”

Quando ini­zia a pro­vare, tutto è pronto e scritto, o già pre­vede di lasciare spazi aperti?

“Sup­po­niamo di essere nel momento in cui si suona e tu capti qual­cosa che potrebbe essere svi­lup­pato. A quel punto dovre­sti dirmi, ‘Pro­viamo que­sto’. La musica non ha lea­der, per quanto mi riguarda.

Cosa ne pensa della rela­zione tra il con­certo, che è poi l’evento, la musica scritta e la musica improv­vi­sata? Ritiene che la musica scritta impe­di­sca all’evento di accadere?

“No. Non so se sia vero per le que­stioni che atten­gono alla lin­gua ma nel jazz si può pren­dere un pezzo molto antico e farne una nuova ver­sione. La cosa ecci­tante è il ricordo che se ne tra­smette al pre­sente. Comun­que ciò di cui parla, la meta­mor­fosi di una forma in una forma diversa è qual­cosa di assai sano, ma molto rara.”

Forse sarà d’accordo con me sul fatto che al cuore dell’improvvisazione è la let­tura, dal momento che spesso ciò che capiamo dall’improvvisazione è la crea­zione di qual­cosa di nuovo, ma che tut­ta­via non esclude la matrice scritta che la ha resa possibile…

“Vero”.

Non credo di essere un esperto sulla sua musica, ma se provo a tra­durre ciò che lei fa in un ambito che cono­sco meglio, quello del lin­guag­gio scritto, l’evento unico — che si pro­duce una volta sola – è cio­non­di­meno qual­cosa di ripe­tuto nella strut­tura stessa. C’è dun­que una ripe­ti­zione, nella strut­tura, intrin­seco alla crea­zione ini­ziale, che com­pro­mette o comun­que com­plica il con­cetto di improv­vi­sa­zione. La ripe­ti­zione è già nell’improvvisazione: dun­que quando la gente tende a intrap­po­larti tra improv­vi­sa­zione e scrit­tura alla base, è in torto…

“La ripe­ti­zione è natu­rale esat­ta­mente come il fatto che la terra ruota”.

Lei pensa che la sua musica e il modo in cui la gente rea­gi­sce possa o debba cam­biare le cose, ad esem­pio a livello poli­tico, o in una rela­zione ses­suale? Il suo ruolo di arti­sta e com­po­si­tore può (o dovrebbe) avere un effetto sullo stato delle cose?

“No, non lo credo, ma ritengo che molte per­sone ne abbiano già fatto espe­rienza prima di me, e se comin­cio a lamen­tarmi, mi diranno, ‘Per­ché ti lamenti? Non siano cam­biati a causa di que­sta per­sona che ammi­riamo ben più di te, per­ché dovremmo cam­biare gra­zie a te?’ Dun­que di fondo non la penso così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le mino­ranze erano oppresse, e mi iden­ti­fi­cavo con loro attra­verso la mia musica. Ero in Texas, comin­ciai a suo­nare il sas­so­fono e a gua­da­gnarmi da vivere per me e la mia fami­glia suo­nando alla radio. Un giorno capi­tai in un posto pieno di gente che gio­cava d’azzardo e di pro­sti­tute, gente che liti­gava, e mi capitò di vedere una donna accol­tel­lata. Pen­sai di dover scap­pare da lì. Allora dissi a mia madre che non volevo più suo­nare la musica, che era come aggiun­gere sof­fe­renza alla sof­fe­renza. Mi rispose, ‘Che ti è preso, vuoi che qual­cuno ti paghi per la tua anima?’. Non ci avevo pen­sato, e quando me lo disse, e come se avessi rice­vuto un nuovo battesimo”.

Sua madre aveva le idee molto chiare…

“Sì, era una donna intel­li­gente. Ho pro­vato da quel giorno stesso a cer­care il modo per non sen­tirmi in colpa nel fare cose che le altre per­sone non fanno.”

E ha avuto successo?

“Non lo so, ma nel frat­tempo era venuto fuori il bebop, e lo vidi come una via d’uscita. E’ musica stru­men­tale non con­nessa spe­ci­fi­ca­ta­mente a una scena, che può esi­stere a pre­scin­dere dal luogo. Dovun­que io suo­nassi il blues, c’erano frotte di per­sone senza lavoro che non face­vano altro che gio­carsi i soldi. Allora mi scelsi il bebop, la cosa nuova che stava suc­ce­dendo a New York, e mi dissi che dovevo andar là. Avevo appena dicias­sette anni. Me ne andai di casa, mi diressi a sud”.

Prima di andare a Los Angeles?

“Sì, avevo i capelli lun­ghi come i Bea­tles, era l’inizio degli anni Cin­quanta. Dun­que me ne andai a sud, e tutti pro­va­vano a menarmi, poli­zia e gente nera; non gli pia­cevo. Avevo un look troppo biz­zarro per loro. Mi pren­de­vano a pugni e cer­ca­vano di rom­pere il mio sax. Era dura. Inol­tre ero con un gruppo che suo­nava quella che più o meno chia­ma­vamo “musica con i fiati da mene­strelli” e cer­cavo di fare bebop, stavo anche facendo pro­gressi e avevo tro­vato ingaggi. Ero a New Orleans, me ne sono andato a visi­tare una fami­glia molto reli­giosa, e ho comin­ciato a suo­nare in una chieda nera. Quand’ero pic­colo, suo­navo sem­pre e solo in chiesa. Da quando mia madre mi disse quelle parole, sono andato alla ricerca di una musica che potessi suo­nare senza sen­tirmi in colpa per aver pro­vato a fare qual­cosa. E a tutt’oggi non l’ho ancora trovata”.

Quando è arri­vato a New York, ancora molto gio­vane, ha avuto qual­che tipo di pre­mo­ni­zione su quelle che sareb­bero state le sue sco­perte musi­cali, l’armolodia, o è suc­cesso tutto dopo?

“No, per­ché quando sono arri­vato a New York mi trat­ta­vano gros­so­modo come un tipo del sud che non cono­sce la musica, che non sa né leg­gere né scri­vere. Non ho mai pro­vato a con­tro­bat­tere. Ho poi deciso che avrei comin­ciato a svi­lup­pare le mie idee, e senza l’aiuto di nes­suno. Mi sono affit­tato il tea­tro Town Hall, era il 21 dicem­bre del 1962, per 600 dol­lari, ho ingag­giato un gruppo rhythm’n’blues, uno clas­sico e un trio. La sera del con­certo ci sono stati: una tor­menta di neve, uno scio­pero dei gior­nali, uno scio­pero dei medici e uno della metro­po­li­tana, così è andata finire che le sole per­sone che sono arri­vate al Town Hall sono state quelle che erano riu­scite ad arri­varci. Avevo chie­sto a qual­cuno di regi­strare il con­certo, ma quel qual­cuno s’è sui­ci­dato, ed è suc­cesso che qual­cun altro ha regi­strato il con­certo, fon­dato la sua eti­chetta con quella regi­stra­zione, ed è spa­rito nel nulla. Tutto ciò mi ha fatto capire, una volta di più, che lo avevo fatto per la stessa ragione per cui avevo detto a mia madre che non avrei suo­nato più lì. Ovvia­mente la situa­zione da un punto di vista di tec­no­lo­gia, finan­zia­rio, sociale e per­fino di rischio cri­mi­nale era dav­vero peg­gio di quando ero nel sud. Bus­savo a porte che rima­ne­vano osti­na­ta­mente chiuse.”

Qual è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? E ha a che fare con l’uso di nuove tec­no­lo­gie nella sua musica?

“Da quando Denardo è il mio mana­ger, ho capito final­mente che la tec­no­lo­gia è sem­plice, e ne ho com­preso il significato”.

Ha avuto la sen­sa­zione che intro­du­zione della tec­no­lo­gia abbia por­tato cam­bia­menti vio­lenti nel suo pro­getto, o è stata cosa facile? E, d’altra parte, il suo pro­getto Civi­li­za­tion ha che fare con quanto viene defi­nito globalizzazione?

“C’è qual­cosa di vero in entrambe le affer­ma­zioni, nel senso di poter chie­dere a te stesso se siano esi­stiti ‘uomini bian­chi pri­mi­tivi’: la tec­no­lo­gia sem­bra sia in grado di coprire solo l’area di senso di ‘bianco’.
Mi sem­bra di capire che lei non creda al con­cetto di glo­ba­liz­za­zione, e ritengo sia nel giu­sto… Se con­si­deri la musica, i com­po­si­tori che sono stati real­mente ‘inven­tori’ nella cul­tura occi­den­tale sono forse una mezza doz­zina. Lo stesso vale per la tec­no­lo­gia, gli inven­tori dei quali ho sen­tito dav­vero par­lare sono indiani di Cal­cutta e di Bom­bay. Ci sono un sacco di scien­ziati indiani e cinesi. Le loro inven­zioni sono come delle inver­sioni di idee di inven­tori ame­ri­cani o euro­pei, ma la stessa parola ‘inven­tore’ ha assunto un con­no­tato di domi­na­zione raz­ziale che è diven­tato più impor­tante dell’invenzione stessa, cosa ben tri­ste, per­ché è l’equivalente di una qual­che spe­cie di pro­pa­ganda. Quello che intendo dire è che le dif­fe­renze tra uomo e donna o tra le razze sono in rela­zione alle edu­ca­zioni e alle cre­denze. Dal momento che io sono nero e discen­dente di schiavi, non ho alcuna idea di quale fosse il mio lin­guag­gio d’origine”.

Se fos­simo qui a par­lare di me (e non è que­sto il caso) direi che, in modo dif­fe­rente ma ana­logo, mi suc­cede esat­ta­mente la stessa cosa. Sono nato in una fami­glia di ebrei alge­rini che par­la­vano fran­cese, che non era la loro lin­gua d’origine. Ho scritto un pic­colo libro su que­sto argo­mento, e in un certo senso sono sem­pre nel pro­cesso di par­lare in quello che defi­ni­sco ‘il mono­lin­gui­smo dell’Altro’. Non ho con­tatti di sorta con la lin­gua d’origine o, meglio ancora, con quella dei miei sup­po­sti antenati.

“Non si chiede mai se la lin­gua in cui parla ora inter­fe­ri­sce, con­di­ziona il suo vero pen­siero? Un lin­gua d’origine può influen­zare i pensieri?”

E’ un enigma per me. Non lo so. Credo che qual­cosa parli attra­verso di me, una lin­gua che io non capi­sco, una lin­gua che a volte cerco di tra­durre più o meno facil­mente nella ‘mia lin­gua’. Ovvia­mente io sono un intel­let­tuale fran­cese, inse­gno in scuole dove si parla fran­cese, ma ho sem­pre l’impressione che qual­cosa mi forzi a far qual­cosa per la lin­gua francese…

“Ma lei sa che, per quanto riguarda le mie vicende, negli Stati Uniti esi­ste lo ‘ebo­nics’, che sarebbe l’inglese che par­lano i neri: che è poi poter usare un’espressione che signi­fica qual­cosa di diverso rispetto all’inglese stan­dard. La comu­nità nera ha sem­pre usato un lin­gua a dop­pio signi­fi­cato. Quando sono arri­vato in Cali­for­nia, è stata la prima volta che mi sono tro­vato in un posto dove un bianco non mi diceva che non potevo sedermi in un certo posto. Poi qual­cuno ha comin­ciato a farmi mol­tis­sime domande, e io non riu­scivo a rispon­dere, allora sono andato da uno psi­chia­tra per vedere se riu­scivo a rispon­dere. E quello mi ha pre­scritto del valium. L’ho preso e but­tato nella tazza del water. Non sem­pre mi ren­devo conto di dove fossi, così sono andato in una biblio­teca e ho fatto ricer­che in tutti i libri che ho tro­vato sul cer­vello, mi son letto tutto. E i libri dice­vano che il cer­vello in fondo è con­ver­sa­zione. Non dice­vano a pro­po­sito di che, ma mi ha fatto capire che il fatto di pen­sare e appren­dere non dipende solo dal posto dove sei nato. Credo di capire sem­pre meglio che quello che chia­miamo cer­vello, nel senso di cono­scenza e essere, non è la stessa cosa del cer­vello che ci fa essere ciò che siamo.”

Que­sto è sem­pre un fatto di con­vin­zione: noi cono­sciamo noi stessi in base a quanto cre­diamo. Natu­ral­mente nel suo caso è tra­gico, ma è un fatto uni­ver­sale: noi cre­diamo (o sup­po­niamo di cre­dere) che siamo quel che siamo attra­verso le sto­rie che ci rac­con­tano. Un fatto rile­vante è che abbiamo esat­ta­mente la stessa età, siamo nati lo stesso anno. Quando ero gio­vane, durante la guerra (nono sono mai stato in Fran­cia prima dei dician­nove anni) vivevo in Alge­ria, e nel 1940 sono stato espulso da scuola per­ché ero ebreo, come risul­tato delle leggi raz­ziali, e non riu­scivo nep­pure a capire cosa stesse suc­ce­dendo. L’ho capito molto tempo dopo, e que­sto attra­verso sto­rie che mi hanno fatto capire chi fossi, per così dire. E per­fino per quanto riguarda sua madre, noi sap­piamo chi è e che è in un certo modo solo attra­verso la nar­ra­zione. Ho cer­cato di capire in quale momento sto­rico lei fosse a New York e a Los Ange­les, ed è stato prima che venis­sero rico­no­sciuti i diritti civili ai neri d’America. La prima volta che sono stato negli Stati Uniti, nel 1956, c’erano car­telli ‘solo per bian­chi’ ovun­que, mi ricordo la bru­ta­lità del mes­sag­gio. Lei ne ha avuta espe­rienza diretta?

“Certo. Sia come sia, quello che mi piace di Parigi è che non puoi essere snob e raz­zi­sta allo stesso tempo, non fun­ziona. Parigi è l’unica città che io cono­sca dove il raz­zi­smo non appare mai in tua pre­senza, è qual­cosa di cui senti solo parlare.”

Ciò non signi­fica che non ci sia raz­zi­smo, ma che sia com­mi­su­rato obbli­ga­to­ria­mente al con­te­sto in cui si trova ad essere. Qual è la stra­te­gia alla base della sua scelta musi­cale per Parigi?

“Essere un inno­va­tore per me non signi­fica essere più intel­li­gente, più ricco. Non è una parola, è un’azione. E dal momento che tale azione non s’è ancora pro­dotta, non ha senso parlarne.”

Ho capito che lei pre­fe­ri­sce il fare al par­lare. Ma come si com­porta lei con le parole? Qual è la rela­zione tra la musica che fa e le sue parole, o quelle che le per­sone cer­cano di sovrap­porre a quello che lei fa? Pren­diamo ad esem­pio il pro­blema di sce­gliere un titolo, come lo concepisce?

“Una mia nipote è morta a feb­braio di quest’anno e sono andato al suo fune­rale. Quando l’ho vista nella bara, ho notato che qual­cuno le aveva messo degli occhiali. Lì mi è venuta l’idea di chia­mare un mio pezzo ‘Lei dor­miva, morta, nella bara e indos­sava occhiali’. Poi ho cam­biato idea, e quel pezzo l’ho chia­mato ‘Appun­ta­mento al buio’.”

Vuol dire che quel titolo s’è impo­sto da solo?

“E’ che cer­cavo di capire il fatto che qual­cuno avesse messo gli occhiali a una donna morta..avevo una qual­che idea di cosa signi­fi­cava, ma è molto dif­fi­cile capire il modo di con­ce­pire la vita fem­mi­nile, quando tale modo nulla a che fare con quello maschile”.

Lei ritiene che il suo modo di scri­vere musica ha a che fare con il modo in cui si rela­ziona con le donne?

“Prima di essere cono­sciuto come musi­ci­sta, quando lavo­ravo in un grande magaz­zino un giorno, durante la pausa pranzo, sono capi­tato in una mostra, e lì c’era un qua­dro che aveva dipinto qual­cuno che ritraeva una donna bianca e ricca, una di quelle per­sone che hanno asso­lu­ta­mente tutto nella vita, ed aveva espres­sione più soli­ta­ria che abbia mai visto, in volto. Non mi ero mai imbat­tuto cin una tale soli­tu­dine, e quando sono tor­nato a casa ho scritto il pezzo che si inti­tola ‘Donna solitaria’”.

Intende dire che la scelta del titolo non è stata una scelta di parole ma un rife­ri­mento diretto all’esperienza vis­suta? Le fac­cio que­ste domande sulla lin­gua, sulle parole, per­ché per pre­pa­rarmi all’incontro con lei ho ascol­tato la sua musica e ascol­tato quello che ne hanno scritto i cri­tici. E la scorsa notte ho letto un arti­colo che era infatti un’analisi per una con­fe­renza fatta da un mio amico, Rodol­phe Bur­ger, un musi­ci­sta che ha un gruppo che si chiama Kat Onoma. L’analisi era costruita su sue affer­ma­zioni. Per ten­tate di ana­liz­zare il modo in cui lei con­ce­pi­sce la sua musica, ha preso spunto dalle sue affer­ma­zioni, la prima delle quali era, ‘Per ragioni delle quali non sono certo, sono con­vinto che prima di diven­tare musica, musica era solo una parola’. Si ricorda di averlo detto?

“No”

Ma lei come inter­preta o capi­sce le sue stesse affer­ma­zioni? Sono cose importanti?

“Mi inte­ressa assai di più avere una rela­zione umana con lei piut­to­sto che una rela­zione musi­cale. Voglio veri­fi­care se rie­sco a espri­mermi con le parole, con suoni che hanno a che fare con una rela­zione umana. Allo stesso tempo, mi pia­ce­rebbe essere in grado di par­lare della rela­zione tra due talenti, tra due azioni. Per me, la rela­zione umana è la cosa più bella, per­ché ti mette in con­di­zione di gua­da­gnarti la libertà che desi­deri, per te e per l’altra persona.”

(tra­du­zione e cura di Guido Festinese)

[cite]

 

tysm
philosophy and social criticism

vol. 25, issue no. 25

june 2015

ISSN: 2037-0857

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