Liberi di somigliare
Lea Melandri
Che cosa succede quando la principale preoccupazione di un genitore è il “successo” del figlio, quando è la madre a portare un adolescente dal dermatologo per ritoccare labbra troppo sottili, quando un autorevole Istituto Internazionale di Statistica modella l’identikit del futuro manager -simpatia, grinta, fascino-, sulle infantili gratificazioni di un “capoclasse”? Strani “figli della libertà”, della “cultura del rischio”, delle “biografie fai-da-te”, del “tutto decidibile”, sono questi tredicenni che un’indagine della Società Italiana di Pediatria ha descritto come “i nuovi conformisti”, avviati su percorsi di “azioni preordinate” e quindi incapaci di fantasia, immaginazione, senso critico. Liberi, sì, ma di somigliare a tutti i costi ai modelli vincenti che li vogliono magri, belli, efficienti, avventurosi.
Il darwinismo sociale, l’eugenetica, la selezione che premia un prototipo di umanità “superiore”, non sono più soltanto i “mostri” delle ideologie totalitarie che si vorrebbero sepolte per sempre, o i fantasmi che aleggiano sui traguardi più inquietanti delle attuali sperimentazioni scientifiche applicate alla vita.
Impercettibilmente, dietro la spinta di immagini, linguaggi, slogan che si propongono nella pubblicità e nei media con la cadenza di un battito cardiaco, il “trionfo” di pochi diventa “norma”, l’individualizzazione che dovrebbe portare ogni singolo a diventare “padrone di se stesso”, diventa paradossalmente l’espropriazione più plateale di qualità proprie a beneficio di volti noti, idoli temporanei ed evanescenti come gli scenari mediatici da cui emergono.
“Non c’è motivo di restare uguali, se è possibile cambiare in meglio”, è il messaggio che sta facendo della chirurgia estetica uno degli agenti più quotati delle trasformazioni in atto, nella vita dei singoli e nei rapporti sociali, ma, per una inspiegabile contraddizione, sembra che a sostenerla sia “la paura di non avere un aspetto normale”. Forse non è inutile allora interrogarsi sul paradosso di una “libertà senza precedenti”, che si accompagna a un altrettanto forte “senso di impotenza”, di una frenesia del nuovo a tutti i costi, intrisa di ansie conservatrici, di esaltazioni individualistiche accompagnate da rinascenti voglie comunitarie. Nel prospettare l’evoluzione delle “democrazie” verso forme inedite di “dispotismo”, Alexis de Tocqueville, già nel 1840 notava come i suoi contemporanei fossero “incessantemente affaticati” da due contrarie passioni: il bisogno di essere guidati e il desiderio di restare liberi, una condizione che li faceva essere al medesimo tempo “indipendenti e deboli”:
Se l’aspetto che caratterizza più a fondo la nostra epoca è l’affermazione dell’individuo, del suo talento, della sua forza di volontà, della sua autonomia dai legami tradizionali, il luogo su cui leggerne gli effetti e misurarne la riuscita, non poteva che essere quello che imparenta l’uomo alla natura e all’animalità, cioè il corpo. Nuova figura dell’autorità, destinata a declassare tutte le altre –padri, padroni, uomini politici- è quella che unisce bellezza e gioventù, icona di un controllo assoluto sul passaggio del tempo e sulla finitezza dell’essere umano.
Sul mistero del destino biologico dell’uomo, “breve tragitto tra due assenze”, e sulla pretesa onnipotente della scienza di padroneggiare il principio e il prolungamento indefinito della vita, si giocano, sia pure inconsapevolmente, i due sentimenti che in modo contraddittorio caratterizzano il nostro tempo: debolezza e forza, impotenza e decisionismo, vergogna e rassicurazione. Ma è la manipolabilità e il trasformismo apparentemente senza limiti della materia corporea a sostenere quell’illusione di dominio che gli accadimenti tragici del mondo e le ansie della società nel suo complesso fanno apparire sempre meno credibile.
“Pelle: interfaccia, sottile strato di soglia dentro/fuori, specchio, involucro, superficie mutante su cui scrivere il proprio testo. Tatuaggi, piercing e tutte le altre modificazioni corporali (innesti, lifting, liposuzioni, protesi)…marchiarsi e procurarsi cicatrici diviene un modo per sottolineare
una soggettività attiva, sono io a scrivere i segni sulla geografia del mio corpo…le modificazioni corporali, che vanno dall’inserimento chirurgico sottocutaneo di sfere d’acciaio a veri e propri innesti chirurgici, personalizzano il corpo, lo rendono più seducente, lo diversificano, realizzano e in-carnano i propri destini.” (da “Tuttestorie”, settembre/novembre 1999)
Attraverso i mutamenti e le ibridazioni del corpo, si materializzano fantasticamente una storia e una geografia inedite, frutto di una sospensione del tempo e dello spazio, visti come ostacoli alla nascita di una “soggettività attiva”, capace di riscrivere, nel vuoto di memoria, il “testo” della propria vita.
“Normale” diventa così chi vince la sfida di una “personalizzazione” che è continua e ossessiva “messa in forma” del proprio essere fisico e psichico, traduzione delle figure uniformanti delle mode e dei consumi nel sogno della propria unicità. Più drammatici sono i segni che la guerra, la miseria, le migrazioni, il fanatismo religioso e l’arroganza dei poteri forti, vanno tracciando sui corpi di quella parte di umanità che è costretta a misurare la propria inadeguatezza sulle occasioni quotidiane di sopravvivenza.
Nella società dell’ “individualismo obbligato”, dove assumersi dei rischi, come dice Zygmunt Bauman, non è più solo una prova di carattere per i capitalisti, ma una “necessità quotidiana di massa”, l’orizzonte del mondo inevitabilmente si restringe, fino a coincidere con quei confini del “Sé” -la pelle, i sensi, la fisionomia di un volto- attraverso i quali da sempre gli esseri umani guardano e sono guardati, attenti a cogliere nell’altro i segni di una conferma o di un fallimento. Linguaggio, abiti, gesti, gradevolezza di modi, diventano gli ingredienti essenziali di una “selezione” che interessa, al medesimo tempo, chi vuole uscire dall’anonimato e chi semplicemente non vuole perdere un posto di lavoro. Uniformità ed eccezione appartengono ormai alla stessa famiglia di rapporti sociali, modellati secondo le leggi delle merci e del consumo, e come tali mutevoli e imprevedibili.
A fare del corpo la palestra di un quotidiano controllo circa le proprie capacità e inadeguatezze, non può essere tuttavia soltanto la mercificazione dei desideri , delle funzioni e di tutto il tessuto relazionale di una società. Per quanto parte indisgiungibile del nostro essere, il corpo non ha mai smesso di essere vissuto come qualcosa di esterno/interno, una “localizzazione forzata”, un involucro che ha leggi e limiti propri. Prima ancora che sul mondo circostante, l’uomo-bambino è chiamato a controllare quella materia vivente che gli è famigliare e insieme straniera, propria e altra da sé.
Per quanto non sia stato mai del tutto cancellato dal bisogno del pensiero di differenziarsi dalla sua eredità biologica, il corpo, e con esso le sue potenti attrattive sessuali, non ha mai goduto di tanto credito come oggi, vezzeggiato dal commercio come dalle religioni, dallo spettacolo come dalle agenzie del benessere. Quell’ “altrove” con cui è stato identificata la nascita, ma anche il destino mortale dell’uomo, si prende, dopo lungo esilio, la sua rivincita, e lo fa forse nell’unico modo che ancora gli è consentito: emancipandosi come tale. Nell’idolo prezioso dalle mille movenze, dalle curve levigate e sensuali, dagli sguardi ammiccanti, che ci segue nei percorsi giornalieri, e che testimonia della nostra perenne irrimediabile inadeguatezza, nessuno potrebbe riconoscere l’individuo “intero”, materia vivente e pensante.
Ma si può sperare che quella gelida perfezione, quel richiamo evidente all’inanimato, ne risvegli quanto meno la nostalgia o la prefigurazione.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 30, issue no. 33 april 2016
issn: 2037-0857
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