Poesia in s-vendita
Marco Nicastro
Si dice che la poesia sia pochissimo letta: è vero. Io, ad esempio, tra i miei amici “lettori forti” non conosco nessuno che la legga, fatta eccezione per i testi di qualche grande poeta del Novecento o di epoche antecedenti. Nessuna eccezione, invece, per i libri di poesia contemporanea, cioè per la poesia scritta, diciamo, da 20 anni a questa parte. Al di là del mio caso specifico, molte altre persone mi hanno riferito condizioni analoghe tra i loro conoscenti buoni lettori.
La poesia contemporanea[1] dunque quasi non è letta – considerando il bacino complessivo di lettori in Italia – eppure paradossalmente si vende. Non però nel senso specifico che i libri di poesia vengano effettivamente acquistati dai lettori nelle librerie (che, a dire il vero, quasi sempre non li hanno nemmeno tra i loro scaffali), quanto nel senso che una certa quantità di libri di poesia pubblicati da autori contemporanei vengono comunque venduti in qualche modo indiretto (acquistati ad esempio dagli autori stessi o dai loro amici e conoscenti).
Il poeta contemporaneo, direttamente o tramite terzi, pare essere quindi il primo e principale acquirente delle proprie opere. Non solo questo però.
La poesia contemporanea si vende anche grazie a tutto quello che le ruota attorno, mi riferisco innanzitutto ai concorsi di poesia. In Italia, nazione in cui si legge poco rispetto ad altri paesi europei, ce ne sono paradossalmente centinaia ogni anno. Alcuni si fregiano dell’aggettivo “Internazionale”, ostentando quasi una superiorità rispetto ad altri forse ritenuti più “locali”; altri annoverano tra i giurati sedicenti poeti, poeti decaduti o mai decollati, o poeti noti ma che a volte poi nemmeno ci sono realmente tra i giurati e prestano solo il loro nome per l’occasione. La cosa più interessante dei concorsi però, al di là delle dinamiche perverse che caratterizzano molti di questi nel senso che i vincitori sono già decisi in partenza e spesso al di là dei loro meriti effettivi, è che quasi tutti prevedono una quota di partecipazione che varia dai 10 ai 30 euro (“spese di segreteria” a volte le chiamano) che se moltiplicata per il numero complessivo di iscritti che quasi sempre, in barba alla trasparenza, non viene dichiarato (ma che può facilmente aggirarsi, in alcuni casi, su alcune centinaia), porta a cifre di tutto rispetto dell’ordine di diverse migliaia di euro, senza contare i possibili finanziamenti esterni che gli organizzatori del concorso possono ricevere da parte di enti locali e sponsor privati. Di questa considerevole somma, tolte le spese per pagare i pochi vincitori, è facile capire come la gran parte vada alle associazioni culturali o ai singoli che hanno organizzato la manifestazione.
Ma non c’è solo questo. Molte sono ad esempio le associazioni culturali (a volte legate a piccoli editori) che si occupano di poesia, ad esempio prodigandosi a valutare e recensire le opere poetiche su richiesta degli autori (direttamente o attraverso riviste annesse) ma solo dopo, magari, l’iscrizione del poeta alla medesima associazione, il che comporta per quest’ultimo l’esborso di altri soldi (poniamo, una quota tra i 40 e i 60 euro annui). In pratica, l’attività culturale di critica può trasformarsi facilmente, in questo ambito letterario tanto bistrattato, nel fare recensioni dietro compenso.
Il discorso potrebbe continuare con la constatazione che quasi tutti gli editori di poesia sono dei veri editori a pagamento, proprio perché sanno bene che questo genere letterario in Italia non viene letto eppure si vende bene, nel senso che si trova facilmente qualcuno disposto a pagare per pubblicare. Alcuni di questi editori si fanno pagare in modo sfacciato, nel senso di chiedere cifre assurde che non trovano ragione di essere per una pubblicazione di questo tipo che praticamente non avrà che una minima distribuzione; altri invece in modo più elegante, proponendo l’acquisto di un numero di copie più o meno alto che però quasi sempre l’autore da solo non riuscirà mai a vendere se non spendendo ancora (basti pensare che, per organizzare una semplice presentazione, di solito bisogna affittare la saletta in una libreria, cercare o pagare qualcuno disposto a presentare il libro ecc).
A questo proposito si potrebbe obiettare: beh, ma visto che la poesia non vende e l’editore ritiene comunque che il libro meriti di essere pubblicato, è giusto che l’autore partecipi alle spese di edizione (“partecipazione alle spese”, così in effetti viene chiamata da molti quest’usanza), anche solo per far rientrare l’editore dai costi di stampa.
Ebbene, a tal proposito, considerato che un libretto medio di poesia, mettiamo sulle 60-70 pagine, viene poi venduto dall’editore ad una cifra che si aggira solitamente sui 10-12 euro, e considerato che la cifra richiesta da una tipografia per la stampa di un certo numero di copie, poniamo 100, di un libretto di tal fatta si aggiri sui 3 euro a copia (ma il prezzo può scendere ancora a seconda della qualità della carta e del numero di copie complessivamente stampato) si può facilmente capire che se all’autore viene chiesto per contratto l’acquisto di un numero minimo di copie che oscilla tra le 50 e le 100 (e questo solo nei casi degli editori meno esosi, dei più “seri”), l’editore avrà incassato una cifra che oscillerà tra i 500 e i 1200 euro, mentre per la stampa del libro avrà speso al massimo tra i 200 e i 400 euro. L’editore, da buon imprenditore, si mette così fin da subito al riparo guadagnando alcune centinaia di euro (una cifra interessante per un libro di poesia che molto probabilmente, lo ripetiamo, non sarà mai letto), che diventano alcune migliaia se il nostro piccolo editore, di libri di poesia come quello, ogni anno ne pubblichi, mettiamo, una decina.
In pratica, l’editore è spesso solo un intermediario tra la tipografia e l’autore, visto che poi, “piccolo” com’è, non si muove molto per pubblicizzare il libro (non fosse mai che, per farlo, gli toccasse reinvestire una parte dei facili guadagni iniziali!); esso pone quindi il suo marchio sul prodotto finale, marchio spesso poco conosciuto al lettore medio, e per questo semplice passaggio effettua un rincaro pari a due o tre volte la cifra che l’autore avrebbe pagato a stamparsi da solo il libretto in tipografia. Qualcuno potrebbe dire: ma magari l’autore paga quantomeno la competenza e la solerzia dell’editore nello spendersi per i propri autori; beh, mi verrebbe da dire, assolutamente no! Infatti, come accennato, spetta solitamente all’autore il grosso del lavoro di promozione dell’opera, con conseguenti difficoltà e spese ulteriori per l’invio di copie promozionali, per l’organizzazione di presentazioni, per la partecipazione ad altri eventi. Oppure si potrebbe pensare che il marchio di un certo editore sia garanzia di qualità di quanto pubblicato e possa garantire per il libro e la sua diffusione; ma anche su questo è lecito avanzare dei dubbi e basta leggere alcuni testi tratti dai cataloghi di editori noti per capirlo.
Quindi la poesia italiana contemporanea, specie quella degli esordienti o comunque dei giovani autori, magari anche di valore, naviga in un mondo privo di effettivi lettori ma ricco, ricchissimo di attività che creano un discreto business attorno ad essa, facendo guadagnare a decine associazioni culturali e di piccoli e medi editori cifre non indifferenti. Certo, magari non sarà proprio sempre così che vanno le cose; sicuramente qualcuno potrebbe portare avanti la sua fortunatissima esperienza di autore trattato coi guanti. Sicuramente tali felici esperienze sono possibili perché nel panorama editoriale italiano c’è ancora qualcuno che crede nel valore della poesia e non vuole solo guadagnarci sopra. Ma temo che nella maggior parte dei casi la realtà sia dura proprio come ho provato qui a descriverla, e a chi fosse scettico in merito e volesse comunque tuffarsi con entusiasmo nel mondo della letteratura esordiente[2], non mi resterebbe che dire, come recitava un vecchio adagio: “provare per credere!”.
Per queste ragioni si può affermare che negli ultimi anni la poesia, creazione artistica nel campo della scrittura che massimamente dovrebbe essere connessa, e anticamente lo era, alla dimensione del sacro e dell’ineffabile, oggi non si legge quasi più nel nostro paese ma genera ugualmente profitti (che col sacro evidentemente hanno poco a che fare). Si tratta quindi di un genere che, benché allo stadio terminale, gode apparentemente di buona salute. Un genere che, nonostante tutto, si vende bene insomma.
Anzi, più propriamente, si s-vende.[3]
Note
[1] Intendo qui per poesia contemporanea, un po’ convenzionalmente, quella poesia scritta negli ultimi venti anni. Il discorso è un po’ diverso per autori che hanno iniziato a pubblicare verso la metà degli anni 70 o i primi anni 80, alcuni dei quali oggi hanno una discreta notorietà almeno tra gli addetti ai lavori.
[2] Della narrativa qui non mi occupo, ma non mi stupirebbe che la situazione fosse analoga.
[3] Un mio amico, letto in anteprima l’articolo, si è complimentato con me per la parte destruens, chiedendomi tuttavia subito dopo lumi sulla parte construens. In effetti, ho pensato anche in questo caso, è più facile distruggere che costruire e forse mi sono ritrovato involontariamente a calcare la mano solo sul primo dei due momenti. Tuttavia, almeno in parte, delle proposte costruttive possono scorgersi tra le righe di un mio articolo pubblicato qualche tempo fa su questa stessa rivista, lavoro basato prevalentemente sulle coraggiose tesi avanzate da un editore illuminato come Andrè Schiffrin in alcuni suoi libri.
Provo comunque a lanciare velocemente anche qui qualche idea per una “rinascita” della poesia, o meglio per creare le condizioni di base affinché questa possa verificarsi.
Innanzitutto sarebbe necessario che gli editori stabilissero un criterio deontologico fondamentale: per i generi che quasi non si vendono, come la poesia, non si deve chiedere all’autore alcun contributo per la pubblicazione, se non al massimo il costo effettivo della stampa. Se un editore ama questo genere letterario, se conosce e rispetta la nostra tradizione poetica, non avrà difficoltà a capire che non è professionalmente corretto chiedere ad un autore qualsiasi desideroso di farsi notare un consistente “contributo” per la pubblicazione di un libro di poesia.
Sono convinto che, nel momento in cui si interrompesse il circolo vizioso “soldi uguale pubblicazione”, sparirebbero moltissimi editori che, magari, potrebbero dedicarsi più proficuamente ad altri generi letterari se non ad altri mestieri. Ci sarebbero così ben presto meno case editrici disponibili sul mercato, meno poeti a poter vantare pubblicazioni e ovviamente molti meno concorsi utili ad assegnare premi e premietti istituiti solo per incoronare il “raccomandato” di turno.
C’è da credere però che una tale proposta di condotta non sarebbe osteggiata solo da una parte del mondo dell’editoria, che perderebbe facili introiti, ma anche da molti potenziali autori che non vedono l’ora di veder pubblicato il proprio libro e che sono disposti a pagare cifre indecorose per questo. Infatti, se non ci fossero la vanità e la presunzione di molti aspiranti scrittori alla ricerca di visibilità (domanda che solo nel nostro paese ha fatto nascere dal nulla, nel giro di pochi anni, centinaia di piccoli editori) probabilmente non staremmo nemmeno qui a parlare del problema.
Continuando su questa linea di pensiero, potremmo supporre in breve tempo la presenza di un numero decisamente inferiore di poeti ad affollare i cataloghi; i pochi editori effettivamente appassionati e senza fini di lucro pubblicherebbero solo pochissimi poeti ogni anno e sarebbe molto più semplice, sia per i lettori che per gli stessi critici, orientarsi nel mondo della poesia e discriminare gli effettivi valori in campo (cioè fare critica nel senso più puro del termine).
Insomma, seguendo una semplice norma di buon senso, di correttezza professionale e di onestà intellettuale potrebbero crearsi già, a mio avviso, le condizioni per fare una buona selezione letteraria ab origine, evitando che tanta poesia di pessima qualità arrivi sul mercato; tutto ciò sarebbe forse utile anche per appassionare maggiormente i lettori a questo nobile genere letterario in declino da decenni in Italia, visto che essi si troverebbero certamente a leggere meno scempiaggini di quanto purtroppo non accada oggi.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, july 2016
issn: 2037-0857
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