philosophy and social criticism

Nient’altro che vita

Lea Melandri

La vecchiaia, nella sua nudità di “vita che è solo vita, nient’altro che vita”, rivela, come scrive Franco Rella ( Egli, Tre lune, Mantova 1999), “quel lato oscuro della vita umana, che di solito rimane sconosciuto o ignorato nell’ombra, ma che le è proprio come nessun’altra cosa, il lato della morte. Nel vecchio la vita prende senso dalla sua fine”. Se questa è l’ “autentica condizione umana”, un pensiero che pretenda di mostrarla e di rifletterla che posto può avere in un mondo attraversato dalle logiche del potere, che si rappresenta la morte soltanto come distruzione, vittoria e sconfitta, e non come qualità dell’esistenza?

Di fronte a un modello di civiltà, che innalza come valori supremi la bellezza e la giovinezza, sembra che non resti altro modo per dire l’ “impresentabile” delle passioni del corpo che dar spazio a quell’intreccio di storie che il tempo ha sedimentato nelle nostre vite, quasi a nostra insaputa. Solo da una coraggiosa messa a nudo dei sentimenti, delle sensazioni, delle emozioni, si può sperare di veder emergere l’esperienza nei suoi aspetti contraddittori, felici e dolorosi, e quindi la possibilità di scoprire in se stessi risorse e vie d’uscita insospettabili.

“Parlare, scrivere, descrivere l’invecchiamento –si legge nel libro di Claude Olievenstein, La scoperta della vecchiaia, (Einaudi 1999)- vuol dire imboccare la strada di un racconto storico. Forse vuole anche dire non rimanere passivi, erigere un bastione contro l’ineluttabile che è il nonsenso della fine”. Se non si avesse fretta di chiudere gli occhi su un’età che inquieta, perché annunciatrice di morte, ci si accorgerebbe che gli interrogativi che essa pone impediscono di separare, come si fa di solito, la “finitudine” dell’uomo dalla sua “libertà”.

Contrariamente alle classificazioni astratte dei sondaggi, che dividono con confini sempre più netti tappe biologiche e generazioni, le scritture di esperienza, come quella dello psichiatra Claude Olievenstein, mostrano innanzi tutto quanto sia difficile definire una data di “nascita” o “scoperta” della vecchiaia.

Ai diversi modi di reagire soggettivamente ai primi segnali di indebolimento – chi decide di opporre resistenza e chi si ripiega su un progressivo isolamento – va collegato il rapporto che ogni individuo intrattiene nel corso della vita coi propri familiari.

“Avere ancora i genitori rappresenta l’ultima protezione contro la morte. Poi anche loro vengono a mancare. Allora, quello che volevamo dissimulare a noi stessi diventa evidente: la nostra scomparsa è annunciata. Ormai i vecchi siamo noi”.

Un’altra illusione di immortalità, più fragile perché sorretta da una costruzione artificiosa e in rapido mutamento, viene dai miti di una modernità che vorrebbe cancellare la morte e tutto ciò che in qualche modo la richiama: l’invecchiamento, la povertà, la follia.

“La società dei consumi è impaziente. Vive nel presente, vuole tutto subito. La sola rivendicazione diventa l’esigenza della salute, della bellezza, dell’attività. È perdente, quindi vecchio, chi non sta al passo coi tempi rispetto alle esigenze di performance, di produttività, di conoscenza tecnologica.”

Ma forse è proprio il paradosso di una cultura, che mentre si affanna a prolungare la vita la rende di fatto insignificante, a muovere per contrasto “pensieri nuovi” capaci di veder al di là delle apparenze, di indovinare dietro il dolore muto e le notti insonni insospettabili “spazi di libertà”. Caduti censure, divieti, adattamenti, non deve stupire se compare, in alcuni casi, un tempo molto simile all’adolescenza, in cui è di nuovo possibile scegliere, rifiutare i giochi già fatti: “Tutto è lecito. Allo stesso tempo, tutto è controllato. Questo è il problema: sottostare al controllo o permettersi la libertà? Quasi tutti gli esseri umani si fermano a un sogno, a un fantasma di libertà. Ci sono persone, invece, che non possono più sopportare obblighi e regole.”

Resta da chiedersi perché questi “spazi di libertà”, che si costruiscono nel riconoscimento del limite imposto a ogni uomo, debbano essere conquistati così faticosamente, perché gli interrogativi sul senso della vita e della morte, il riconoscimento dei nostri sogni e desideri, restino quasi sempre confinati in due età estreme, come l’adolescenza e la vecchiaia, inquietanti e per questo misconosciute nei loro valori.

Una possibile risposta è che soltanto il giovane e l’anziano sono costretti , loro malgrado, a scontrarsi con la naturalità del vivere –il tempo biologico, con i suoi cambiamenti, i suoi limiti, le sue risorse-, mentre l’età di mezzo, che è anche il tempo del lavoro e della vita pubblica, sembra poter procedere ciecamente, cancellando questa condizione prima, imprescindibile, dell’esistenza.

Ma da questo quadro descritto da Olievenstein nei suoi risvolti contraddittori, negativi e positivi, è assente l’esperienza del sesso che per destino o condizione “naturale” ha dovuto far coincidere tempo biologico e tempo storico, corporeità e pensiero, identità e appartenenza di genere. Solo chi, come l’uomo, ha conosciuto lo sviluppo di sé in quanto singolarità, il risveglio della coscienza come costruzione di una socialità pubblica col simile, poteva differenziarsi così violentemente dalla condizione naturale dei viventi, alternando, rispetto al corpo e alle sue vicissitudini, nostalgie di ritorno e momenti di fuga.

Per la donna, costretta a rappresentare nel medesimo tempo la potenza creatrice della specie e il destino mortale dell’individuo, era inevitabile che le due tappe, iniziale e finale, del viaggio dell’unico protagonista della storia, e cioè l’infanzia e la vecchiaia, le restassero impresse come un calco che modella gesti, linguaggio, percezione di sé. Eternamente giovane e da subito vecchia, il cerchio dell’esistenza femminile si chiude dentro un arco breve dove gli estremi si sovrappongono.

Bambine vecchie e vecchie bambine, le donne non possono che guardare il corpo con impressioni opposte di totale immedesimazione e totale estraneità, tentate di impugnarne la seduzione come un’arma, ma anche di sottrarlo innanzi tempo allo sguardo giudicante di un innamorato, di un marito o di un figlio.

Neanche il femminismo, la nascita di una coscienza attenta alla singolarità di ogni essere, maschio o femmina che sia, sembra aver modificato a fondo il ruolo di vittima e oppressore che ha il corpo per la donna, disposta a subirlo o a farne un uso distruttivo, anche quando si maschera di “libertà”.

 

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 31, issue no. 34, july 2016
issn: 2037-0857
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