philosophy and social criticism

Se Freud entra in politica. Recalcati e le logiche (illogiche) del desiderio

Marco Nicastro

In questo articolo vorrei proporre alcune riflessioni a partire dai contenuti dell’intervento, liberamente visualizzabile sul canale Youtube, dal titolo “Politica, verità, testimonianza, rappresentanza”[1], tenuto da Massimo Recalcati, noto psicanalista milanese, alla presentazione della Scuola di Formazione Politica “Pier Paolo Pasolini” nel maggio di quest’anno.

Lo psicanalista milanese affronta in questo intervento alcune problematiche a lui particolarmente care, in particolare conduce un’analisi di alcuni movimenti e dinamiche politiche italiane attuali attraverso le lenti della psicoanalisi.

L’intervento in questione inizia con una considerazione sulla suscettibilità ai richiami populisti ed estremisti che aumenta in coloro, persone singole o gruppi che siano, che non si sentono rappresentate dalla politica; idea non nuova questa (basta leggere anche solo un po’ di storia recente) e propugnata tuttora da molti, compresi non pochi rappresentanti del M5S (solo per rimanere tra i principali destinatari delle stilettate di Recalcati), i quali sostengono da sempre di aver dato voce politica a migliaia di persone emarginate e deluse, convogliando un dissenso inascoltato in una forma di espressione democraticamente accettabile. A quanto pare, seguendo il discorso dello psicanalista, neanche il Partito Democratico sarebbe riuscito a rappresentarlo fino a tempi recenti, se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Matteo Renzi, che invece riesce a “interpretare la giovinezza”, a coinvolgere i giovani, meritando di essere sostenuto. A questo punto possiamo individuare la prima imprecisione di Recalcati, nel senso che egli pone una opinione assolutamente personale – Renzi sa interpretare i più giovani – come un dato di fatto. Come spiegare, se quell’opinione fosse realistica, che la maggior parte dei votanti attuali del PD si colloca nella fascia dai 45 anni in su? Evidentemente, al di là di ciò che pensa il nostro, i rappresentanti di questo partito, il loro programma e il loro modo di fare politica non sono poi così attraenti per i giovani.

Secondo Recalcati, una delle caratteristiche fondamentali per cui Renzi riesce ad aggregare ed è così efficace nei suoi messaggi come leader non risiede nella sua capacità comunicativa; non una questione di tecnica, ci dice, perché la mera tecnica non aggrega. Proprio per questo è distante, ad esempio, da Berlusconi, e chi osa avvicinare il “renzismo” al “berlusconismo” direbbe un’idiozia (parole sue), che egli saprebbe facilmente smontare se ci fosse più tempo, ma che non smonta, lasciando la questione in sospeso. Infatti, sarebbe stato interessante capire come mai questa similarità politico-personale-comunicativa tra Renzi e Berlusconi, colta da molti osservatori in modo trasversale e sancita in qualche modo dal cosiddetto “patto del Nazareno” non sia tale per il nostro.

Renzi, secondo Recalcati, è diverso dagli altri leader politici perché il suo agire non si fonda su una comunicazione efficace, non appartiene cioè al dominio di una semplice tecnica ma a quello del «desiderio» (uno dei mantra dello psicanalista milanese) e della testimonianza: il leader del PD si differenzia per il rapporto stretto che ha con la verità, a differenza di Berlusconi, il cui discorso politico, tipico della perversione, non aveva rapporto con la verità e che per questo risultava meno efficace del primo. Tuttavia solo alcuni secondi dopo quest’affermazione, Recalcati afferma l’esatto opposto, ossia che è proprio la lontananza dalla verità, l’assenza di rapporto con questa a conferire efficacia al discorso berlusconiano, cosa che gli avrebbe permesso di riuscire «a far votare dal Parlamento che Ruby è la nipote di Mubarak». Recalcati cade questa volta in una contraddizione logica: sostiene cioè, nel giro di due minuti, che la vicinanza alla verità e l’incarnazione di questa garantiscono forza aggregante al discorso politico, come avverrebbe nel caso di Renzi, ma anche che è l’assenza di rapporto con la verità, tipica del discorso politico berlusconiano, a conferirgli efficacia. Ma delle due posizioni può essere vera solo una, non entrambe: o è efficace ed aggregante la vicinanza alla verità o lo è la lontananza da questa.

Queste “disattenzioni” o scivolamenti logici caratterizzano spesso, devo dire, il discorso di Recalcati, spesso coperti e compensati da una buona dose di retorica (abbondano nei discorsi le figure di ripetizione che danno enfasi), da una grande capacità di “tenere il palco” e da un tono di voce più che suadente.

Altro passaggio interessante, sempre sul tema dell’efficacia di un agire politico (ma non solo ovviamente) è il concetto del “desiderio”, un must dei discorsi del nostro. «Bisogna che il desiderio non divenga una parola retorica», anche se nei discorsi e in alcuni libri dello psicanalista milanese quello del desiderio e della sua testimonianza o incarnazione è un concetto talmente insistito da divenire paradossalmente retorico. Tuttavia il “desiderio” di cui parla la psicoanalisi è un concetto talmente difficile da spiegare, ci dice Recalcati, che non se ne può dire granché per spiegarlo e trasmetterlo ad altri se non incarnarlo, essere «soggetti di desiderio»[2]. E proprio come quei genitori che per essere buoni genitori non devono fare gli educatori, insistendo nello spiegare ai propri figli il senso della vita, del bene e del male ecc. («i figli non sopportano i genitori che fanno gli educatori») quanto invece dare «testimonianza del loro desiderio», l’unico mezzo per produrre degli effetti nell’altro, così anche i politici devono dare testimonianza di quanto dicono e di ciò in cui credono. Qui, al di là della vaghezza del termine psicanalitico “desiderio” che andrebbe spiegato – specie se si parla ad un pubblico di non addetti ai lavori – e non posto come un assioma affermato ex catedra, mi viene da dire che la visione di Recalcati è quantomeno parziale. E dico questo, da clinico, perché i genitori, per favorire la crescita dei propri figli, non devono solo dare testimonianza di una vitalità desiderante, di un amore per le cose e la vita attraverso il proprio comportamento, ma anche trasmettere verbalmente degli insegnamenti e la loro visione delle cose, anche solo per dare ai figli la possibilità di criticarla ed opporsi a questa quando saranno più grandi. I genitori hanno il diritto di esprimere la propria opinione e anche di provare ad influenzare i loro figli; ovviamente tale atteggiamento, se unilaterale e monolitico, costituisce certamente qualcosa di insopportabile perché coercitivo della libertà “desiderante” dei figli e quindi a lungo andare dannoso. Ma il genitore che educa cercando di impartire lezioni non deve necessariamente escludere bensì integrarsi con quello che dà l’esempio del proprio desiderio, perché entrambi questi atteggiamenti servono ai figli: sia l’atteggiamento didattico e normativo quindi, che rappresenta il limite con cui il desiderio del figlio si scontra definendosi meglio e “allenandosi” con quelle frustrazioni che incontrerà certamente nella vita, sia quello dell’esempio vitale che stimola invece il desiderio del figlio, lo sancisce e ne permette un’appropriazione sicura attraverso processi identificatori. Si tratta di due elementi entrambi necessari perché possa aversi una buona funzione genitoriale, e non in contrapposizione l’uno con l’altro. Se il genitore agisse solo secondo il primo modello, quello dell’incarnazione del desiderio tanto caro a Recalcati, l’effetto sarebbe solo quello di alimentare onnipotentemente la funzione desiderante del figlio senza porvi limiti, quei limiti che sono insiti nel dialogo e nello scontro a volte di due diverse individualità (del genitore e del figlio in questo caso).

Questa distanza delle parole dalla verità del proprio desiderio porta anche in ambito politico, secondo Recalcati, ad allontanare gli atti soggettivi dalle loro conseguenze, cosicché il politico autore di quegli atti può non assumersene la responsabilità. Questo sarebbe un processo tipico, a suo avviso, del “berlusconismo”, ma anche del “grillismo”, considerato un movimento populista adolescenziale e irresponsabile che come ogni adolescente parla, critica ma senza assumersi alcuna responsabilità. Anche qui Recalcati, almeno da un punto di vista della teoria psicoanalitica, è un po’ parziale nella sua esposizione: è vero infatti che l’adolescenza è una fase della vita in cui la contestazione del modello genitoriale o della società più allargata assume un rilievo di primo piano, e che si verifica anche una riduzione della capacità di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Tuttavia questi aspetti, che nel suo intervento vengono visti come negativi e quasi segno di patologia, sono in realtà fisiologici e necessari a permettere all’adolescente di separarsi dai propri genitori e di esplorare nuove forme di identità. Diventano un problema solo quando si fissano in schemi comportamentali rigidi e quando accanto ad essi non compaiono aspetti che indicano acquisizioni ed evoluzioni nuove. Ma nessun pensiero, individuale o collettivo, può fare a meno di una fase anche forte di contestazione di ciò che esiste per evolversi. La strategia comunicativa qui usata è però la solita: evidenziare gli aspetti tipici di certi processi patologici della personalità per affibbiarli agli avversari politici di Renzi, considerato il leader che ha la fondamentale capacità di trasmettere il desiderio, lontano da vuote retoriche, e capace di assumersi le conseguenze di ciò che dice come un soggetto maturo dovrebbe fare.

Eppure, prendendo un attimo le distanze dal discorso agiografico di Recalcati, come sia possibile far combaciare tale descrizione di coerenza politica con le promesse mancate di Renzi e la non congruenza quindi delle sue parole con le conseguenze di queste non è affatto chiaro. Che dire infatti della promessa di abbandonare la politica se avesse vinto il No all’ultimo Referendum, poi clamorosamente disattesa, o della mancata riforma fiscale e della giustizia, promesse in tempi brevi nel suo iniziale crono-programma; o del pagamento, ancora solo parziale a distanza di oltre 3 anni dal suo insediamento, dei debiti della pubblica amministrazione; ma anche di tutta la retorica centrata sulla “rottamazione” della vecchia politica, per poi attivare strategie di collaborazione e smaccati compromessi proprio coi peggiori rappresentanti di quella?

Nonostante ciò, Recalcati vede chiaramente una netta aderenza del discorso politico renziano alla realtà dei fatti, la esalta, e quando essa non è pienamente riuscita, a suo parere è solo perché il potere può «incapsulare e burocratizzare» la vitalità della proposta originaria. Questa è, mi pare, un’altra debolezza logica (o un espediente retorico) del discorso dello psicanalista milanese: quando le cose non vanno come il leader del suo partito aveva promesso, non è colpa o responsabilità di quest’ultimo ma del modo in cui funziona il potere e il sistema del governare, della necessità concreta cioè di fare politica, di mediare; di qualcos’altro insomma. Ma questa, a pensarci bene, è proprio quella retorica paranoica e manichea che Recalcati addebita ai vari movimenti populisti, di chi non critica mai il proprio ideale (o il proprio leader, il proprio partito ecc.) e concepisce negativamente chi non appartiene al proprio entourage o la pensa diversamente. In tal senso, l’uso di una diagnostica psichiatrica (non è la prima volta che accade) per etichettare negativamente movimenti e avversari politici è una triste ma anche prevedibile conseguenza.

Un intervento, questo di Recalcati, che presenta molti passaggi deboli da un punto di vista argomentativo e contenutistico. Qui si è preferito non entrare nel merito della sua recente diatriba con Jacques Alain Miller, suo analista, troppo incentrata su questioni personali dei due interlocutori per poter risultare culturalmente interessante, almeno per quanto mi riguarda. Né tantomeno si vuole attaccare la possibilità, per un analista, di esprimere la propria opinione politica o di schierarsi anche pubblicamente con un partito.

Ciò che qui si critica è l’imprecisione tipicamente divulgativa con cui spesso da Recalcati vengono esposti alcuni concetti psicoanalitici-psichiatrici e la fragilità logica di alcuni passaggi del suo discorso. Ma non si può nemmeno sottacere il rischio che comporta, in termini clinici per i pazienti, una voluta sovraesposizione mediatica di un analista. Sovraesposizione che non solo rende purtroppo facili – dato il livello mediamente piuttosto basso del dibattito culturale e politico nel nostro paese – gli attacchi personali da parte di fette dell’opinione pubblica spesso poco preparate dinnanzi a certe tematiche (cosa che, da sola, dovrebbe indurre alla prudenza), ma che soprattutto inquina e trasforma in qualcosa di profondamente diverso quel lavoro sul transfert dei pazienti che dovrebbe costituire, ancora oggi, il motore e l’elemento centrale della cura psicoanalitica.

 

Note

[1] Si tratta di un intervento di sintesi, della durata di circa 20 minuti, composto da alcuni significativi passaggi del più ampio discorso inaugurale di Recalcati.

[2] “Incarnare” è un termine, come anche “verità”, spesso presente nei discorsi di Recalcati e caratterizzato da un alone semantico che ha più a che fare col misticismo e la religione che con la psicoanalisi; non nascondo che mi insospettisco sempre un po’ quando un discorso laico, come quello psicoanalitico, si riempie di termini di questo tipo.