philosophy and social criticism

Libia, guerra e caos organizzato

Gianroberto Scarcia

 

In un contesto di “opinione pubblica”, anzi di ecumenico coeso sentire della “comunità internazionale” che può ben essere definito di globale omertà con gli informatori (omertà anche spontanea, ahimè!, nella sadica acquolina di un riflesso perversamente condizionato) della sfrenata ufficialità, nessun intervento critico registrato in questa terribile contingenza che sia diverso da sporadici sussurri frettolosamente strillati da qualche rara avis in quella confusionaria uccelliera che dovrebbe/potrebbe/vorrebbe (?) essere “la seconda superpotenza mondiale”.

Stando così le cose, a un lavoro come questo non sarebbe da tributarsi solo un caloroso benvenuto. All’opera gioverebbero (e gioveranno, mi auguro) forze più agguerrite di quelle di un islamista un po’ troppo generico. Il quale, nell’armonia strutturale del libro, può anche constatare qualche difettuccio minore riguardante un montaggio teso a fare, di quelli che sono palesemente appunti presi in momenti diversi, un volume più corposo. Dopotutto il supplemento di informazione islamistica nel quale troviamo per esempio uno zaydismo da rintracciarsi tuttora sul Caspio in pieno khomeinismo, o un pasticciato “il colonnello è un fard  ‘ayn”(p. 107) almeno da spiegare un po’, o un discutibile ossimoro (p. 22) tipo “diploma mistico”, anch’esso, ovviamente, da chiarire meglio,  non era per niente indispensabile. Nel caso diametralmente opposto ricordiamoci ad ogni modo che persino il grande Massignon, quando si occupava di attualità, ci presentava notizie (addirittura statistiche!) assolutamente immaginali; senza dire che, nel suo piccolo, il decano degli studi islamistici italiani, in questa stessa sede per caso, scriveva tempo fa tanwîn per tašdîd, e non se ne accorgeva nemmeno in bozza. Non ci turba più di tanto, dunque, quella Libreria del Congresso di Washington (p.133); ma perché l’elenco dei collaboratori di Salvemini nel quadro dell’opposizione all’impresa del 1911 (p.14), palesemente derivato da Del Boca[1], oltre a sciogliere in Giovanni il nome di G. Gabrieli, è decurtato di un nome come quello di Carlo Alfonso Nallino?

Pour cause forse – possiamo sospettare – dato che il sommo arabista fustigava il governo italiano piuttosto per la “completa ignoranza, unica nella storia, delle istituzioni dell’avversario” che non per l’impresa in sé[2]. E perché l’A. non concede più spazio a Leone Caetani, cioè a quello che solo fra gli orientalisti disse, dell’impresa, cose forti, e finì con l’andarsene addirittura in esilio (esilio certo dorato, in ridenti contrade a lui già ben note e per lui ben attrezzate, con “almeno sei camere da letto” e con un guardaroba da museo, in un epoca, comunque, in cui i senatori del regno, aristocratici sia pure con qualche problema economico, non avevano bisogno di mercanteggiare)?

Un grande laico e un grande cristiano, Caetani e Massignon. E quanto a bravi cristiani che non mancano mai, neppure quando sembrano fuscelli alla mercé di boriose ventate della bora secolare, ecco una “prefazione” del vescovo di Tripoli. Per la verità, se si va oltre l’efficacissima e azzeccatissima copertina, con quella vignetta che tanto bene illustra lo slogan If You don’t come to democracy, democracy will come to Youe oltre al frontespizio, si trova poi solo un “a mo’ di prefazione”. Certo, le linee smussate di un vescovo che non è un Dell’Oglio (altro titolo d’onore  della benemerita casa editrice, il dar voce a un cristiano “innamorato dell’Islam”, ma questa differenza va ancor più a onore della carità ecumenica di quel vescovo), un pastore comprensibilmente esitante, per ragioni “professionali”, a proclamare chiaro e tondo quello che evidentemente osa pensare, non sono state carpite, né “strumentalizzate”, come si dice oggi in qualsivoglia imbarazzante occasione, bensì semplicemente collocate in una luce più intensa della diocesana penombra in cui erano state vergate.

Ciò detto, il libro è da definirsi un vero e proprio sasso salutare gettato nei miasmi esalati dalla palude in cui annaspa la coscienza morale più o meno collettiva del neonato terzo millennio. Coscienza morale non solo nostrana, d’accordo, bensì comune a tutto “l’Occidente”; però l’Italia vi si distingue, come al solito, per i suoi repentini rituali voltafaccia. Tempo fa, proprio in questa sede, ebbi a comparare le israeliane “Volpi di Sansone” con i “Figli della Lupa” della mia infanzia; oggi tocca rievocare il più anziano Balilla (una divisa alla quale, allora, non potevo ancora aspirare), collegata a un esempio illustre (non il prototipo, purtroppo) dell’italica voga del voltar gabbana.

Il caso ha voluto che la mia lettura del libro procedesse contemporaneamente alle illuminanti esternazioni di esperti nel Colloquio veneziano del 24 febbraio 2012 R_évolutions Arabes. Colloque organisé par Master MIM – Université Ca’ Foscari:un convegno di addetti ai lavori, tutti “indigeni” ma d’area francofona, validissimi e catafratti, in quanto filologi autentici, ad ogni forma di esecrabile “dietrologia”, come pure si dice pressoché sempre oggi quando non ci si accontenta delle verità di stato. L’esperto di cose libiche era là l’irreprensibile (dico sul serio) Luis Martinez, non menzionato dall’A., il quale non taceva il suo “stupore” per gli eventi ultimamente occorsi laggiù e riconosceva che i medesimi non si sarebbero potuti dare in mancanza di un’occasione,ma senza addentrarsi in un’analisi troppo cruda del venire in essere della medesima. Ci intratteneva, in compenso, lo studioso, sui tentativi “riformistici” del “correo” del momento Sayf al-Islam (tentativi meritori, ma si trattava di una “ricreazione”), ammonendoci in sostanza che “guai ai Gorbačev di tutti i tempi, passati, presenti e futuri”.

Paolo Sensini, Libia (Jaca book)

Certo, chi scrive si intende poco di Libia – e di ciò non si vanta né si vuole approfittare – a parte qualche briciolo di affettuosa consuetudine con italiani di laggiù, per lo più non grandi ammiratori dell’intervento Nato. Inoltre, egli ha qualche minor dose di cautela rispetto al vescovo di Tripoli, ma anche qualche maggior dose di carenza dei “mezzi per confermare” di cui lo stesso scrive. Non ha molti strumenti, ma quelli che ha gli bastano per rendersi conto della menzogna televisiva basilare (targata TG3!) riguardante cosa che, diversamente da altre atrocità, non si può dissimulare seppellendola sotto le sabbie di un arenile (né si può indurre a simulare, del resto): un Gheddafi che “ha ridotto il proprio popolo alla miseria”, evidente unica colpa sentita come grave anche chez nousdi una dittatura[3]. Si accontenta quindi di osservare, lo scrivente, che comunquee in linea di principio, danzare nel sangue altrui (sangue di gente sbadatamente protettae non avvistatada mille attentissime navi nel suo barcone alla deriva[4]) è ancora peggiodi quel “danzare nel proprio sangue” che caratterizza, secondo un giustodi Israele (una nota donna giusta che non per questo odia se stessa) la politica militante di quel governo (di quei governi). Egli intende, dunque, solo fare qualche riflessione sulla parte sostenuta dal “gabbato e contento” della nuova impresa di Libia, con la quale la spiritosa e forse tremendamente maliziosa Provvidenza ha voluto celebrare il centenario della prima.

Una parte fatta propria, tale e quale l’altra volta del resto, piuttosto che dalla nostra maldestra Droite dalla nostra sinistra Gauche. L’altra volta, ecco l’estremista Mussolini, finito addirittura in prigione insieme a un Nenni, ed ecco l’allupato maschilista marsicano D’Annunziomutilato “da mano poliziesca per ordine del cavalier Giovanni Giolitti, capo del Governo d’Italia il dì 24 gennaio 1912”(così nella premessa alla terza edizione di Merope, la prima per il pubblico) a causa della sua insolenza nei confronti degli alleati della Triplice, non contento degli ammiccamenti all’Entente, ad opera dell’androginia del suo Saint Sebastien (Chatelet, 22 maggio 1911). Troviamo da una parte ai “vertici” un povero numismatico rattrappito sotto il peso di una corona di ferro più alta di lui[5](un po’ come il longilineo aspirante medico siriano, da analoghe ragioni di lignaggio costretto a mantenersi ben diritto in piedi in mezzo a un sangue non solo da bisturi gocciante), dall’altro il finto dubbioso con il suo scetticismo caratteriale rassegnato alla “fatalità storica”. Situazione capovolta, quella, rispetto all’odierna, con un capo di stato titubante e un presidente del consiglio bellicista? Macché! La Sinistra risulta pressoché  sempre quella che combina i guai maggiori, ogni volta che, invece di accanirsi in una stabile robusta opposizione, pretende di accedere alla stanza di bottoni che, manovrati a ideologica vanvera, partoriscono mostri.

Una differenza però c’è, e sta nella montante marea dell’ipocrisia, oggi maggiore di allora, resa probabilmente inevitabile dalla maturata presa di coscienza, da parte degli umani, di quella che la Chiesa chiama morale e legge naturale, e che noi, con il pensatore caprese Maksim Gor’kij, possiamo magari chiamare “costruzione di Dio” (all’ombra disarmante, noi, dei nostri Faraglioni). Si veda che cosa riportava lo stesso sullodato Salvemini dallo stesso Giustino Fortunato: “chi più democratico e anticoloniale di lui? ‘A noi importa che Tripoli, la sola terra d’Affrica ancora ottomana, ancora fuori della civiltà, spetti un giorno a noi e non ad altri, pur senza credere al grande auspicato suo valore economico’ (Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, II, 446)”. In altre parole, l’altra volta persino gli oppositori, ignari peraltro dell’oro giallo, e anche dell’oro azzurro, che si nascondevano sotto le sabbie inospitali, puntavano soprattutto sulla vanità/improduttività dell’impresa.

Comunque, qui nell’oggi, pare non inutile anche qualche tentativo di sofistica defensioa tutela di un Capo di Stato pesantemente chiamato in causa dall’A. come quello della nostra innovativa postparlamentare/parapresidenziale repubblica. Chiamato in causa temerariamente, forse (pp. 121-123), pur se, al contempo, la considerazione tributatagli risulta con ciò stesso maggiore di quella esternata nei confronti della capogruppo dei senatori del PD, con cui ogni argomentare sarebbe stato – non è il caso di dubitarne – “fatica inutile” (p. 144).

“Rebus sic stantibus, la figura più imbarazzante [quantomeno per i suoi elettori indiretti] e meschina è quella del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che dovrebbe quanto meno conoscere l’articolo 11 della Carta Costituzionale, il quale recita perentoriamente che <<l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali>>”.

Ma forse, vista la sua carica di massimo <<garante delle istituzioni>> repubblicane, sarebbe anche tenuto a vigilare sull’ottemperanza e il rispetto degli adempimenti riguardanti il Trattado di amicizia, partenariato e cooperazione ratificato il 30 agosto 2008 tra Roma e Tripoli, che tra i princìpi vincolanti sottoscritti dai due paesi contemplava <<il rispetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati (articolo 2); l’impegno a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite (articolo 3); l’impegno alla non ingerenza negli affari interni e, nel rispetto dei princìpi della legalità internazionale, a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte (articolo 4); l’impegno alla soluzione pacifica delle controversie (articolo 5).

 Ma il presidente Napolitano, nonostante le palesi evidenze del contrario, ha continuato a sostenere in ogni circostanza che l’intervento militare NATO contro la Libia, a cui grazie alle sue ripetute prese di posizione pubbliche si è associata anche l’Italia, non era una guerra, bensì un’ <<operazione di pace>>.

Però, prima, va altresì osservato all’A., che della Sinistra vera, non so perché, non fa troppi nomi, che gli eventi di Libia hanno fatto registrare un incredibile episodio di convergenza (che si intravede peraltro transitoria[6]) tra radiatori e radiati del vecchio italico PCI dallo sfaccettato continuismo: convergenza, forse, tra pragmatismo formale e luciferino ideologismo. Praga fu definita, a suo tempo, “sola”. Ma di una Tripoli solanon ha parlato nessuno. Certo, Gheddafi non era il mitissimo Dubček, che non ballava, mascherato da scita, sul destriero baltoslavo di San Vito, e l’energumeno truccato à l’africaineche minacciava di morte chi non lo amassepiaceva molto meno (a ragione direi). Ciò non toglie che Tripoli fosse, oggettivamente, sola. E l’episodio è parso a qualcuno ominoso segno dell’agonia, poi ampiamente certificata, de Il Manifesto.

Comunque, osa chi scrive, il Capo dello Stato non aveva tutti i torti. Quell’articolo 11, infatti, parla di guerra intesa come offesa alla libertà degli altri popoli, e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. E basta. Libertà degli altri popolie non degli altri stati. E quale controversia internazionale, nel caso libico, a parte quella, pudicamente taciuta, nella guerra civile in seno all’Europa, e in particolare tra Francia e Italia?[7]Diverso magari il caso afghano, anche se l’articolo 11 non dice nemmeno ch’è d’uopo agire laggiù per “tenere il terrorismo lontano da casa nostra”, come fu pure autorevolmente sentenziato dallo stesso minbar, a emendare il giustificazionismo pietistico di un passato governo che, in Afghanistan, ci andava per dare una mano a poveracci. Possiamo insomma quantomeno chiederci in maniera più generale: quiddell’eventuale intervento nelle guerre civili altrui, compresa magari quella in eurozona? I Padri Costituenti non potevano aver certo dimenticato Guernica, per cui si potrebbe rispondere: a maggior ragione niente intervento nei casi tipo Guernica, ça va sans dire. Ma sta di fatto che non si dice, ergo…Nel che tutte le occorse proposte trasversali di riforma di quel dettato (nel 1991, nel 1993, nel 1995, nel 1996, nel 1999, nel 2005, nel 2011[8]) sono superflue e testimoniano solo della cattiva coscienza di chi le avanza.

Il guaio è che le guerre civili sono sempre guerre fra buoni e cattivi a giudizio di chi guarda, ma forse sarebbe meglio dire di chi sa non solo vedere ma anche prevedere[9]. Quand’ero ragazzino, le mie finestre si aprivano su via Santander, poi via Fratelli Rosselli; quando, più tardi, mi misi a seguire l’I.P.O. nei suoi trasferimenti di sede, si aprirono su viale Bruno Buozzi, già via dei Martiri Fascisti. Comunque, solo la democrazia di matrice giacobina è stata capace di istituire ufficialmente veri e propri reati di opinione. Del resto e comunque, le guerre di aggressione sono state sempre difensive. Nella sinistra dei piagnoni lo aveva pur detto persino Giovanni Pascoli, che poi non fece in tempo a veder cadere, colpito da fuoco amico, il grande aquilone di Italo Balbo, e neppure a veder ineluttabilmente vincere tutte le gare di corsa per salire un’amba da faccette nere o seminere, preservate apposta, ad opera del Padreterno, anche da giovanile sudore.

Noi […] che siamo l’Italia in armi, l’Italia al rischio, l’Italia in guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiano i nostri atti di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vestiti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, cosi indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.[10]

Dalla parte dei conservatori è stato non già Ezra Pound, bensì George Bernard Shaw a “rivelare” che, quando gli inglesi meditano una cattiveria ai danni di qualcuno, cominciano anzitutto con l’accusare quel qualcuno della medesima cattiveria.

Quid, ancora,  a proposito di quel “ci fummo già” del trattato italo-libico, il quale sembra battere addirittura la romana lealtà giuridica (Roma è alma mater di diritto privato, non di diritto internazionale) che rese giustala Terza Guerra Punica? Ci si può solo chiedere: ma in quali mai circostanze si sarebbe potuto/dovuto/voluto onorare quel trattato? Non certo nel caso di un attacco di Gazprom al concorrente libico[11], dato che i firmatari di parte nostra non peccavano (forse unico loro merito) della russofobia che nutre la Sinistra, e che rese possibile il grande intervento nel caso Kosovo[12], acciocché, parlandosi quella volta a nuora, suocera intendesse. Non restava quindi, in pratica, che un canagliesco attacco alla Libia da parte della Corea del Nord o dell’Iran.

Il fatto dirimente è che si danno, oggigiorno, ben più seri impegni internazionali, di prima fascia, e non di mera associazione al nuovo ordine mondiale, cioè impegni che non sta bene disdire o sospendere, pur se altri paesi che ripudiano la guerra come noinon si sentono parimenti vincolati: tant’è che i capi di stato veterani di Teutoburgo e non di Zama si dimettono se solo pare che abbiano vagamente accennato a interessi egoistici nelle loro missioni di pace, quasi avessero accettato da un imprenditore un timidamente soleggiato soggiorno sulle rive del Mare del Nord[13].

Il grande paradosso è che, acconsentendo a queste limitazioni della propria sovranità (fare la guerra a piacere), l’Italia recupera la medesima sovranità nella sua interezza e oltre, potendo fare quella medesima guerra senza neppure la regola cavalleresca della dichiarazione, se il best friendglielo chiede. Comunque, a onore di Giolitti, il Ministero si chiamava allora della Guerra, e non della Difesa (e tantomeno delle Missioni di Pace). La Sinistra è sempre piùsurrealista, come l’A. definisce un Premio Nobel della pace residente alla Casa Bianca. Di più, nel 1956 un Togliatti ebbe a dire che in mancanza di un intervento del pesce grande dell’epoca nelle acque di un pesce piccolo (della stessa sua piscina), sarebbe stato necessario sollecitarlo: pensieri ovviamente superati dal momento che allora regnava Chruščev, e non il guardingo e non lungimirante Stalin. Oggi, per l’appunto surrealisticamente (o forse iperrealisticamente), senza la sollecitazione di un Capo di Stato di origini sinistrorse, il destrorso Presidente del Consiglio titubante non si sarebbe forse deciso.

Un’occasione, comunque, ci voleva. E quale? Ma la Primavera Araba, naturalmente, irrorata, rifinita e attrezzata[14]. Con l’hamburger avvelenato inserito nella carta da musica del sandwich tunisino-egiziano. Ma che dico Primavera, piuttosto quella povera Candelora destinata ad essere subito rintuzzata, per quel che riguarda gli interessati principali, dal sopravveniente Freddo della Vecchia, in arabo bard al-ÝaÊûz, dato che la fatalità per noi, il destino cinico e baro per loro, nel mondo islamico maschilista è stata sempre una Grande Meretrice, vecchia e laida ma truccata a dovere.

Ma noi facciamo al nostro Capo dello Stato i migliori auguri per molti e molti anni ancora di buona salute, a ché faccia in tempo a pentirsi anche dell’ennesimo assenso a un sopruso. In ogni caso: per lor maledizion sì non si perde / che non possa tornar, la mente sana / sin che nel corpo sano è fior del verde.

E i versi che seguono di Gabriele D’Annunzio non si rileggano avulsi dal loro preciso contesto storico:

Alla Consulta attendono l’elogio

tutorio i pedagoghi del pupillo
demente; e spiano il tempo ch’è balogio

su la piazza ove ride lo zampillo
romano tra gli equestri Eroi gemelli
palpitando qual limpido vessillo.

 

Note 

[1]Cfr. A Del Boca, Gli Italiani in Libia, vol. I, Tripoli bel suol d’Amore 1860-1922, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 63

[2]Si trattava della ben nota questione del “Califfato Ottomano”, che agitava anche Santillana. Oggi, l’ “anticolonialismo vittimistico e piagnone” (menziono qui solo il peccato, non il peccatore che si è poi adeguatamente redento in materia, si veda in particolare l’editoriale di S.Romano “Siria ormai è guerra civile” apparso su il Corriere della Sera in data 13 giugno 2011) potrebbe far sommessamente osservare che anche all’avversario presunto immobile, e per questo ampiamente redarguito, spetti il diritto di modificare, adeguandole a tempi e luoghi, le proprie istituzioni. Senza dire che il Papa non è diventato infallibile prima che il Sultano si pretendesse Califfo e che il Califfo si pretendesse Papa, e che nessun imperatore romano, quando comandava sul serio, era stato “legittimo” in quanto tale, per poi viceversa rendere lui “illegittimi” tutti i sovrani d’Occidente, quando fu proclamato, da “miserabili” giuristi bolognesi, Dominus Mundi vere.

[3]Non esiste, pare, una dittatura progressista (cfr. l’articolo di R. Rossanda “Una voce dal letame” apparso su Il Manifesto del 09/04/2011). Forse, non ne sono esistite neppure di illuminate. Il curioso dissenziente Bulgakov ebbe a paragonare Stalin al Re Sole. Non so ad onore di quale dei due. Ma, almeno, all’ombra dell’Arco di Cirene e di quello di Tripoli latina forzosamente mantenuti unificati, Gheddafi restaurava quelle terme antiche che il Re Sole non usava, con ciò rendendo i cortigiani quantomeno avvisati per tempo, quindi mezzi salvati, di ogni suo imminente minaccioso arrivo.

[4]“Nessuno chiese aiuto” cfr. La Repubblica del 23 marzo 2012, p. 18: “Stage in mare la NATO non ci ha soccorso” (stavolta con ampia eco in TG3).

[5]Cfr. Gaetano Salvemini, “Perché siamo andati in Libia”, in AA.VV., Come siamo andati in Libia, Firenze, Libreria della Voce, 1914. Dove si registra addirittura, al di là di una semplice lesa maestà, l’auspicio, da parte di qualche accanito guerrafondaio, di una sorta di Repubblica Sociale del Mare Nostrum.

[6]Cfr. i due articoli di R. Rossanda, il primo del 09 aprile 2011 intitolato “Una voce dal letame” ed il secondo del 23 ottobre 2011 intitolato “Post-coloniali?”, ambedue apparsi su Il Manifesto.

[7]Cfr. F. Bechis, Ma quale Gheddafi! Sarkò ha dichiarato guerra all’Italia, in “Bechis’ Blog”, 22 marzo 2011.

[8]cfr. l’intervento di M. Dinucci, “La <<riforma>> dell’Articolo 11” apparso su Il Manifesto del 10/04/2012

[9]Bisogna in altre parole distinguere bene fra questi buoni e questi cattivi da una prospettiva storica molto ampia. Leonid Mlečin ci ammonisce che, se in Spagna avessero vinto “i buoni”, la stessa Spagna sarebbe diventata una repubblica sovietica (è la morale che risulta in conclusione di L. Mlečin, Perché Stalin creò Israele, Roma, 2008). Quell’autore accosta la vicenda al caso Israele, che dunque metterebbe in luce un secondoerrore di Stalin nello stesso campo: sappiamo che solo il perseverare è davvero diabolico.

[10]G. Pascoli, La grande Proletaria si è mossa, testo del discorso del 22 novembre 1911.

[11]L’A. non chiarisce adeguatamente le posizioni della Russia durante tutta la vicenda, non immuni da contraddizioni e da sospetti di pilatesco attendismo. Si confrontino fra loro in particolare le pagine 73,112-114,147-148,150. Però, a questo proposito, il “mio sangue slavo” (cito Leone Caetani, anche se la mia parentela è solo di latte, ma in fondo sono pure un allievo indiretto di Santillana e di Querry) ribolle un po’. Oggi, nostalgici di tempi che furono, quando il nietall’Onu era l’unica speranza delle faccette nere e seminere del mondo, e speranzosi che quel niettorni e resista almeno nel caso siriano continuiamo a domandarci le ragioni di quel nostrano nisul caso libico, che l’autore pare riluttante a spiegarci (scrivo il 21 marzo 2012, mentre La Repubblicaospita l’articolo “Rapimenti, torture, esecuzioni, ecco i crimini dei ribelli siriani. Denuncia shock di Human Rights Watch” a firma di Alberto Stabile…:ovviamente, un’eccezione, la solita, che conferma la solita regola).

[12]Ma neppure quello è stato il prototipo delle missioni di pace: è stato solo l’occasione per l’ingresso in grande stile della Sinistra nella Nato. Il prototipo (non l’archetipo purtroppo) potrebbe ritrovarsi nella vicenda che ebbe per protagonista il Conte di Cavour: “Camillo in Tauride”, diranno i principi russi ai vertici dell’esercito zarista, inveterati classicisti, evocando anche un “Camillo in Aulide” con riferimento all’ingiustificato vento in poppa ottenuto dalle inesistenti vele nel Regno di Sardegna, Cipro e Gerusalemme.

[13]Vero è che si potrebbe pure osservare, e proprio a me con riferimento magari alla nota 2, che anche il Diritto Internazionale ha dirittoalla dinamica storica. Infatti (l’A. lo segnala con coscienziosità alle pp. 74-77) volenterosi esperti si danno un bel po’ da fare ad arrampicarsi in proposito sulle facce di bronzo di primordiali specchi deformanti per allodole e allocchi. Di nuovo dissenziente, qui, e radicalmente tale, R. Rossanda nel suo articolo del 23 ottobre 2011 (cfr. supra). Ma si potrebbe anche replicare, nel caso, che assai poco convincente risulta questo post hoc, ergo propter hoc. Le demonizzazioni staliniane erano senz’altro di marca più teologica: si trattava semplicemente di deesistenzializzare alla Ibn ‘AÔiyya o alla Pier Damiani.

[14]Cfr. M. Mellino, “Buenos Aires 2011 – Tunisi 2011, la fine di una lunga notte in dieci anni”, in A. Pirri (a cura di), Libeccio d’Oltremare. Il vento delle rivoluzioni del Nord Africa si estende all’Occidente, Roma, Ediesse, 2011, pp. 49-78 in particolare pp. 66 e ss.

 

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