Oltre la merce del dolore: il corpo-macchina di Rosanna Benzi
Marco Dotti
Il primo articolo, nel 1976, Rosanna Benzi lo dedico ai terroristi. Titolo: Le Brigate Rosse e “gli altri”. Apparve sull’omonima rivista, “gli altri”, che la Benzi aveva fondato e dirigeva dalla sua stanza d’ospedale. Una rivista alla quale la redazione aveva dato un sottotitolo alquanto esplicativo: “periodico di tutti gli emarginati”.
Un problema di tutti
Pochi giorni prima, le Brigate Rosse avevano rivendicato una rapina nella banca dell’Ospedale San Martino. Lo scopo, se così possiamo chiamarlo? Il solito «esproprio proletario», Stavolta a danno degli stipendi del personale medico. Erano anni difficili e le BR tentavano di attirarsi le simpatie anche del movimento degli handicappati (allora li chiamavano così). All’Ospedale San Martino, si saprà in seguito, le BR avevano trovato alcune connivenze.
Ma trovarono anche una decisa opposizione. «Nessuno di noi – scrive Benzi – pretende di negare la oggettiva responsabilità della maggior parte della classe medica nella disastrosa situazione sanitaria ed assistenziale del Paese: baronie, funzione di avallo scientifico alle storture proprie del sistema capitalistico, rapporto paternalistico (nel migliore dei casi!) tra medico e paziente, insindacabilità dell’operato sanitario […]».
Tuttavia, prosegue Rosanna Benzi, «l’esproprio degli stipendi non ha raggiunto – ed era assurdo e puerile pensare che lo potesse – lo scopo di una classe medica colpevole di connivenza con un sistema che tiene gli handicappati in stato di emarginazione. Esso ha colpito, o è suscettibile di colpire, quella parte medica (esigua, certo, ma non priva di un suo peso) che indirizza i suoi sforzi nel tentare un discorso sanitario nuovo, impron- tato sul recupero e sul reinserimento. Di fatto chi, professionalmente, ha fatto le spese di questa azione sono i medici democratici, i quali vengono guardati con sempre maggiore sospetto, quasi fossero essi stessi brigatisti […] essi rappresentano una componente essenziale del movimento che si sta realizzando attorno al problema degli handicappati: è sufficiente pensare all’importanza che riveste l’opera di Basaglia in merito alla malattia mentale».
La condanna era ferma («rifiutiamo in blocco ogni coinvolgimento utilitaristico che serva, in un modo o nell’altro, a conferire una credibilità ad un gruppo politico la cui esatta collocazione è ancora peraltro largamente misteriosa»), la consapevolezza anche («gli handicappati sono tutt’altro che sprovvisti di coscienza politica: essi se la sono costruita in lunghi anni di lotta in prima linea, pagando ogni volta di persona il prezzo necessario per uscire dall’isolamento, per rompere il muro del silenzio e del pregiudizio costruito intorno ad essi»).
Per Rosanna Benzi era venuto il momento di « trasferire nel sociale (…) il problema individuale, perché sono consci che il loro problema deve diventare il problema di tutti, di tutte le forze vive della società».
Prendere parola
Era il momento della presa di parola, osserva Lavinia D’Errico, ricercatrice del CeRC (Centre “Robert Castel” for Governmentality and Disability Studies) dell’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. A Rosanna Benzi, Lavinia D’Errico ha dedicato un libro, La femme-machine. Vita di Rosanna Benzi nel polmone d’acciaio (pagine 190, euro 15) da poco edito per Meltemi.
Vittima della poliomielite, contratta all’età di quattordici anni, per ventinove anni Rosanna Benzi ha vissuto in un polmone d’acciaio.
I meno giovani la ricordano di certo. I più giovani, probabilmente, non l’hanno mai sentita nominare. E qui sta il problema.
Perché la vicenda di Rosanna Benzi è davvero esemplare, capace com’è stata di segnare la storia sociale e culturale del nostro Paese. Una storia che, osserva giustamente D’Errico, si va perdendo. La storia di una malattia, certo. Di una sofferenza, chiaramente. Ma soprattutto una storia di libertà e consapevolezza, E di dignità,
Due aspetti di un agire politico
La storia di Rosanna Benzi può interessarci sotto molti aspetti. Ma due sono gli aspetti concreti che dovremmo sottolineare.
In primo luogo, c’è l’agire politico concreto di Rosanna Benzi. Una micropolitica quotidianache, partendo dalla sua marginalità e da quelle che la Arendt chiamava “le modeste verità di fatto” (i nostri limiti, le nostre imperfezioni, gli ostacoli che inevitabilmente si frappongono tra noi e le cose), ne ha fatto presto un’attenta osservatrice di quelle sacche d’ombra che si andavano ammassando ai bordi di una società sedotta dal boom o dall’ideologia. La sua stanza all’Ospedale San Martino di Genova si trasformò così nella sede di una rivista e quella rivista divenne uno strumento incisivo per cambiare uno stato di fatto.
In secondo luogo, su un piano individuale ma con inevitabili conseguenze sociali la “vita dentro” il polmone d’acciaio non ha ostacolato le scelte individuali e libere di Rosanna Benzi. E qui si apre tutto un capitolo, molto complesso, legato alla scelta e a questioni etiche. Rimandiamo al libro di Lavinia D’Errico per districare la matassa.
Il vizio di vivere
Il lavoro di Lavinia D’Errico è molto utile perché si concentra precisamente su questi due aspetti, rovesciando molti luoghi comuni e sottraendo l’immagine di Rosanna Benzi allo stereotipo.
In giorni – i nostri – in cui l’esposizione del dolore (proprio e altrui) sembra la norma, Benzi – ricorda Lavinia D’Errico – non escludeva nessuno dalla sua stanza, salvo una categoria di persone: «gli “individui tristi”, che vanno a vederla come un corpo esposto, come in un pellegrinaggio». La logica s del ” caso umano” nelle società spettacolari si intreccia con quella del capro espiatorio. Serve grande discernimento per non caderne vittima.
Carla Ghiara, oggi chimico clinico all’Ospedale San Martino, amica carissima di Rosanna Benzi, ricorda:
Era sempre contro l’ipocrisia, quella era sempre la sua battaglia fondamentale. Lei diceva: “io detesto chi viene qui per dirmi “oh povera ragazza! Il Signore ti ha dato questa disgrazia eccetera”, questi le erano insopportabili. Perché le persone che andavano a trovare un parente in pronto soccorso poi erano curiose e andavano lì… e a volte, io notavo, che quasi erano dispiaciute, quasi stizzite che lei non soffrisse: no, lei era lì e doveva soffrire, quindi offrire la sua sofferenza a Dio o a chi altri… e invece vedere una ragazza piena di vita, piena di voglia di conoscere, piena d’entusiasmo li metteva a disagio… forse perché non l’avevano più loro, né la voglia di vivere né l’entusiasmo, e quindi è chiaro che queste persone venivano una volta o due poi se ne andavano…
Nel Vizio di vivere, la sua autobiografia pubblicata da Rusconi nel 1984, parlando dei suoi vent’anni dentro un polmone d’acciaio Rosanna Benzi scrive:
Dio non può averci creato per soffrire, non mi pare uno scopo sufficientemente divino. C’è chi arriva qua dentro e dice beata me che soffro, beata me che sono preservata dalle tentazioni del mondo… Una signora mi parlò all’orecchio, sussurrandomi le sue trepide convinzioni, quasi fosse in confessionale: “Sa Rosanna, lei si deve sentire privilegiata a stare in questa stanza, lontana dalle brutture del mondo. Pensi, conosco una donna paralizzata che, ultimamente è diventata anche cieca. Sapesse come è contenta…, soffre così bene”. Giuro che disse proprio così: “soffre così bene”. Mentre parlava mi colpirono le sue mani: aveva dita piene di anelli e li teneva rivolti all’interno, con le pietre preziose dalla parte del palmo. Per non farmele vedere, pensai. Per non farmi scoprire che, se amava la sofferenza, non disdegnava neppure le “frivolezze” del mondo terreno.
Rosanna Benzi opera un ribaltamento dello sguardo, una decostruzione continua dell’immagine artefatta della sofferenza, della vita, dell’alterità che in tanti vorrebbero proiettarle addosso. Lo fa dalle pagine de “gli altri”.
Dall’osservatorio-laboratorio della sua rivista, Rosanna Benzi riesce infatti guardare e a raccontare, osserva Lavinia D’Errico, «la città che emargina e la città che include, la società che cambia».
Osservare il mondo, cambiare il mondo
Negli anni dei più grandi mutamenti sociali avvenuti in Italia, «gli anni del referendum sull’aborto, del referendum sul divorzio, della legge 180 per la chiusura dei manicomi, anni in cui si definiscono cambiamenti forti, in grado di produrre nuovi diritti e una nuova cittadinanza, “gli altri”pone nuove domande, nuove istanze e cerca nuove risposte».
Così, prosegue D’Errico, «dal luogo dell’estremo in cui Rosanna vive, dove vita e morte e dolore scivolano incessantemente gli uni dentro agli altri lo sguardo è più che mai ampio, più che mai offre nuove visioni. Ne è un esempio questo articolo, scritto a inizio degli anni Ottanta, a firma Mauro Barberis: per la prima volta emerge nella rivista la parola bioetica e l’importanza della filosofia per rispondere ai quesiti morali che si pongono sempre più frequentemente in ospedale».
La forza di una rivista
Il primo numero de “gli altri”, dove apparve l’articolo sulle Brigate Rosse, è datato gennaio 1976. Fu tirato in tremila copie. «Le vendemmo tutte…», racconta Rosanna Benzi. «Francamente fu una sorpresa che ci portò a festeggiare. Grande euforia qui in redazione, che poi è la stanza del direttore, cioè la mia stanza, perché fin dal principio mi fu appioppata la responsabilità. L’entusiasmo e la curiosità degli inizi raccolsero attorno al nucleo originario nuove forze. Abbiamo avuto alcune esclusive uniche al mondo; per esempio l’assessore alla Sanità del Comune veniva a imbustare le copie, a incollare i cartellini per la spedizione».
Se la rivista al primo numero aveva fatto il tutto esaurito, scrive Benzi, «non si poteva non andare avanti. Il meccanismo era semplice, e non è cambiato: arrivano i pezzi, nostri o dei collaboratori. In due o tre li rileggiamo. Correggiamo la forma, se occorre. Mai i contenuti».
Uno strumento di consapevolezza
La rivista è «una tribuna assolutamente aperta, e questa assoluta apertura è la sua vera !linea», indipendentemente dall’area politica e culturale dei redattori. Certo, anche noi siamo liberi di manifestare la nostra idea, ed io lo faccio senza remore in ogni editoriale che scrivo. Sono articoli, forse, che vengono “da una parte”, ma non “di una parte”. Dopo la lettura i pezzi vanno in tipografia, da lì arrivano le bozze, le correggiamo, impaginiamo e rimandiamo in tipografia. E infine diffondiamo. Abbiamo una grossa percentuale di abbonamenti. Non andiamo in edicola, perché egli edicolanti chiedono circa il 30 per cento e noi non ce lo possiamo permettere. La rivista costa adesso più o meno quattro milioni a numero e arriva giusto giusto a finanziarsi. Tutti, ovviamente, lavoriamo gratis».
Nel settembre del 1990 , ricorda Lavinia D’Errico, un cancro aggredì Rosanna Benzi. Il professor Henriquet ha raccontato quegli ultimi mesi, i suoi progetti, il suo voler continuare, ancora e ancora e ancora: «Ho altro da fare», diceva.
Furono le note del Silenzio, come da lei voluto, ad accompagnare il funerale, il 6 febbraio 1991. Non ci furono applausi. Né selfie.
Altri tempi, certamente. Ma se vogliamo uscire da questo pantano, è bene non dimenticarseli mai.
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